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 VOTO Per il partito del diavolo. Quello dei mercanti, delle mignotte, dei preventivi.
Che ha inventato il marketing e gli hippie. Principio vitale e creatore, maschio, della contemporaneità. Ora, però, sta perdendo dei colpi. Martiri e beghini non fanno altro che strillare di valori e verità. Tutte balle per il vecchio tiranno, avvezzo alla ruvida legge del business e a quella melliflua del piacere. Parole incomprensibili, sparate in tutto il mondo dalla comunicazione.
Il re si era illuso. Per anni aveva dimenticato: non era solo al suo arrivo. La comunicazione era sempre stata lì. Creatrice, femmina, dell’umanità. Il vecchio aveva creduto di dominarla e in effetti per lungo tempo era andata così. Non aveva più memoria di essere anch'egli una sua creazione. Una funzione. Lei poi se ne stava in un angolo. Zitta e buona, casa e bottega.
Non aveva fatto una piega neanche quando le aveva portato a casa la tecnologia. L'arrivo della nuova amichetta sembrava non turbarla. Anzi: assecondava di buona lena ogni morbosità del veccho pervertito. Poi ci ha preso gusto e ha cominciato a giocare per sé. La nuova non le dispiaceva affatto, era una complice ideale. Efficiente, assecondava ogni voglia con pruriginosa meticolosità. E aumentava sempre la posta.
Dominata e dominatrice, allora, si sono messe a giocare insieme. Proprio sotto gli occhi del re, che non vedeva e si compiaceva: la partita era sempre più eccitante. Ma gli sguardi tradivano e il vecchio era costretto a rincorrere. Sempre più spesso non capiva e passava in rassegna prima l'una poi l’altra, a ripetizione, per afferrare qualcosa. La bocca spalancata.
Loro lo tranquillizzavano, gli facevano le coccole e lo mettevano a dormire. Era stato un re glorioso e non si meritava uno scherno manifesto. Dentro di loro, però, sapevano già come sarebbe finita.
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23 marzo 2012
LA LEGGE DI CAMERON
 “E a chi ha delle riserve, io dico: sì, si tratta di uguaglianza, ma è
anche qualcos’altro: l’impegno. I conservatori credono nei legami, che
la società sia più forte quando c’impegniamo a vicenda e ci sosteniamo
l’un l’altro. Quindi io non appoggio il matrimonio gay a dispetto del
mio essere conservatore. Lo faccio proprio perché sono un conservatore”.
Ci voleva David Cameron per dare uno straccio di ragione valoriale (ma post-ideologica) a una scelta politica?
Con un discorso che resterà nella storia pluricentenaria dei Tories,
il premier britannico ha annunciato che entro il 2015 i matrimoni gay
saranno legge anche in Inghilterra, dopo Olanda, Spagna e Canada. E a
chi gli venisse in mente che possa trattarsi solo del narcisismo nuovista
di un “giovane” rampante ansioso di bruciare le tappe che lo separano,
appunto, dai libri di storia, converrebbe riflettere su quel termine
brandito da Cameron per spiegare il colpo di teatro: conservatore.
Si potrebbe ipotizzare, allora, che le chiese, i media e i circoli old tories
del Regno Unito siano in via di frivolezze progressiste, del tutto
fuori portata nel paese del Vaticano, del Papa, di Alberto Sordi e don
Abbondio. Nemmeno
per sogno. Cameron è intenzionato a tirare diritto e ha una ottima
ragione per farlo: è la scelta politica più genuinamente conservatrice,
per un paese che vuole camminare. La fine delle discriminazioni
significa la disoccupazione per i professionisti delle cause giuste. La
mafia crea l’antimafia, Berlusconi l’antiberlusconismo, il Medioevo
italiano il Gay Pride quotidiano.
La legge di Cameron, invece, chiede responsabilità a fronte di
libertà, diritti contro doveri, anche alle persone dello stesso sesso
che intendono metter su famiglia. Quando per famiglia s’intende una
comunità solidale di affetti e affari, la cellula di ogni società in
buona salute. Conservatoristicamente parlando. Fine del teatrino omofobo
di trogloditi che dal Parlamento esondano su radio, tv e web e stop
all’eterno Gay Pride degli appelli, delle manifestazioni, degli osceni
dibattiti su cosa è o non è contro natura, degli slogan vittimistici e
stantii che ti fanno venir voglia di applaudire Sgarbi.
“Io sono contrario al matrimonio in quanto tale. A tutti i matrimoni!
Che cazzo me ne frega a me di far sposare uno di settant’anni con uno
di trenta? Così quando il vecchio crepa quell’altro si becca la pensione
di reversibilità per tutta la vita… Tutta una questione di soldi, se
davvero c’entrasse l’amore, gay o non gay, quando uno crepa l’altro non
becca un soldo. Arrivederci e grazie…”.
In una puntata della Zanzara di Radio24 più odiosa delle
altre, l’intervento urlante dell’ex sindaco di Salemi è suonato come una
boccata di aria fresca. Il truce conformismo dell’ironia brutale e
giaculatoria del co-conduttore satirico, supportata con furore dal
collega serio (teoricamente il poliziotto buono della ditta), aveva da
poco preso di mira un presunto collaboratore dell’onorevole Scilipoti,
reo di aver dichiarato contro natura il sesso anale (ma solo fra culi
maschili).
Il malcapitato, in palese e servile imbarazzo, era stato brutalizzato
senza pietà né costrutto per tentare di strappare una ghignata
all’indirizzo di Scilipoti, bersaglio dell’ineffabile duo della radio di
Confidustria in quanto simbolo del rococò politicante e castale,
ma parente povero del potere e dei potenti. Forti con i deboli, i due
hanno poi bastonato un ascoltatore che tentava di argomentare in difesa
(“faceva solo il suo mestiere”) dell’oscura voce che aveva risposto al
numero del parlamentare-target.
Legalizzare i matrimoni gay permetterebbe di liberarsi di
trasmissioni così miserabili, dell’inevitabile alleanza di
avanspettacolo fra capre omofobe e cinismo liberal. Di non doversi sorbire più lo squallore dichiaratorio a proposito del funerale di un gay celebre, che aveva osato non esibirsi nel canonico coming out
richiesto dall’etichetta del politicamente corretto, o di quelle che
circondano ogni benedetto Gay Pride, che regolarmente ci regalano
l’istantanea truccata di un’Italia inchiodata sul set di un film anni
‘50.
Ci volevano i giudici per fare politica. C’è voluta una sentenza della Corte di Cassazione, più che lo storico voto
del Parlamento europeo che chiede alla Commissione di trovare il modo
per regolamentare i matrimoni gay tra cittadini di diversi paesi
dell’Unione (l’Europa si fa Stato), per spazzare via il vuoto pneumatico
in cui galleggia il Pd e il centrosinistra dei Pacs e dei Dico. C’è
stato bisogno di leggere le motivazioni di una sentenza con cui l’Alta
Corte ha respinto un ricorso di due omosessuali olandesi, che chiedevano
di vedersi convalidare le nozze contratte regolarmente in patria.
È bastato dire che la coppia ha diritto legale a “un trattamento
omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”, anche
se la legge italiana impedisce di “far valere il diritto a contrarre
matrimonio, né il diritto alla trascrizione del matrimonio celebrato
all’estero”. Per i giudici, però, le coppie gay hanno il diritto alla
famiglia come quelle etero. È bastato dire questo e sono andati tutti in
crisi, a parte i conservatori seri che hanno ancora in testa una
società da conservare.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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14 marzo 2012
TERRA È LIBERTÀ
 “Alla Tekove Katu ci arriviamo da Santa Cruz in jeep, per una strada
che taglia il Chaco come una papaya, dal sud della Bolivia
all’Argentina, passando per il Paraguay. Sul portapacchi, nel bagagliaio
e fra noi, zaini, casse d’acqua, componenti per pc, frutta, spaghetti.
Padre Tarcisio ci accoglie come se fossimo vecchi amici.
Dentro l’ufficio/cucina/studio ci aspetta un brodo di pollo (vero),
una torma di bimbi e alcune splendide signore ai fornelli, ridenti e
indaffarate. La tavola non viene mai sgombrata del tutto, c’è sempre
qualcuno che passa e magari deve ancora mangiare. A Gutierrez la scuola è
il cuore della comunità: la luce è arrivata da tre anni e tutta la
città ha l’acqua da quando Padre Tarcisio ha fatto mettere la cisterna.”
Sono passati quasi cinque anni dal viaggio in Bolivia e dall’incontro
con la comunità Guaranì, che lotta da vent’anni e passa per il
riconoscimento dell’Autonomia indigena. Vanessa ed io ci ritrovammo
catapultati in una realtà parallela, un mondo a priorità capovolte in
cui tutto ciò che noi eravamo abituati a ritenere essenziale non contava
niente mentre le cose scontate, quaderni per scrivere e acqua calda per
lavarsi, erano tutto. Correva l’estate del 2007, l’anno della VI Marcia
del Popolo Guaranì, in cammino dal Chaco fino a Sucre, la sede del
Parlamento della Bolivia.
“L’autodeterminazione è una battaglia di giustizia per gli
occidentali di passaggio come noi, ma una questione esistenziale per gli
indigeni. Rivendicare l’Autonomia da queste parti significa lottare per
vivere con ciò che si produce, nella terra in cui si è nati”. Sono
passati cinque anni dal nostro reportage, che il Manifesto ospitò sulle pagine di Chips&Salsa (l’inserto settimanale del compianto Franco Carlini), e mi ci sono voluti tre articoli su tFP per collegare la battaglia del popolo Guaranì con quella degli indigeni della Val di Susa.
La questione, invece, è la stessa. La solita secolare questione: la
terra. In Val di Susa ribellarsi per difendere la propria contea
significa affermare un diritto assoluto, la proprietà, contro un altro,
il presunto interesse generale. Sono diritti potenzialmente
inconciliabili. In Bolivia, e in mezzo mondo, gli indigeni lottano per
recuperare la terra perduta, sottratta con l’inganno dai colonialisti.
I coloni di Manituana,
che facevano firmare ai pellerossa contratti di cessione delle proprie
terre dopo averli fatti ubriacare, non erano molto diversi dalle
multinazionali farmaceutiche che regalano ai contadini indiani sementi
che rendono il terreno dipendente dal prodotto spacciato, o dal colosso minerario
indiano Vedanta Resources, che della montagna sacra dei Dongria
Kondh riesce solo a calcolare i due miliardi di dollari di bauxite che
ci stanno sotto. E neppure dalle scavatrici della Val di Susa.
In nome di una grande opera, che nulla ha a che spartire con le sorti
del luogo in cui viene calata come un’astronave, lo Stato italiano è
vent’anni che cerca di piantare la bandierina. Una qualsiasi: prima era
stato il trasporto di persone, poi è diventato di merci, in diversi
formati e progetti, ma sempre ad alta velocità (l’estetica futurista
inturgidisce ancora i politici in cerca d’autore). Tutti corredati dal
solito teatrino di conti e controconti, d’accordo soltanto
nell’ammettere con vaga mestizia che in Italia costa dalle tre alle
cinque volte di più che nel resto dell’Occidente.
Ora, le responsabilità del passato sono note e dibattute. Si tratta di un’opera bipartisan,
fortemente voluta da tutte le forze politiche presenti in Parlamento
(di maggioranza e opposizione), e di un impegno con l’Europa, come
ripetuto stile-mantra in ogni angolo del mainstream. La
questione è se a questa presunta volontà generale corrisponda o meno un
consenso sul territorio e se debba contare. Non solo per decidere sul
“come”, ma sul “se”. Il governo ha deciso per la prima, chiudendo
esplicitamente la porta al referendum invocato da FR, oltre che da Adriano Sofri su Repubblica, e si è abbassato la visiera dell’elmetto.
La sensazione è che la posta della partita non sia tanto la grande opera in sé, che in Italia as usual dà da mangiare (molto) a imprese grandi, piccine (poco), lavoratori (pochissimo e a tempo), mafie e
per questo costa molto di più che all’estero, ma la sfida. Il diritto
all’autodeterminazione su base proprietaria, innalzato dagli
anarco-agricoltori della Val di Susa, è un punto di non ritorno per
l’autorità dello Stato in quanto tale e la guerriglia resistente (più o
meno non-violenta, cambia poco) si configura come un oltraggio
intollerabile al suo monopolio della forza.
La proprietà tale diventa il guscio di base, la metrica minima a
guardia della libertà dell’individuo. Se non possiedi sei posseduto.
Dall’affitto, dal mutuo, dalla carta di credito, dal divano a rate,
dall’iPhone in comodato gratuito, da tutti gli strumenti con cui sei
cooptato nel circo dei consumi, grazie ai quali l’occhiuto poliziotto
globale ti tiene al guinzaglio vita natural durante. Nella tua fattoria
invece sei, puoi essere, l’anarca jungeriano e disertare (o meno) il
conformismo globalizzato. Puoi creare da te il percorso di vita che più
ti aggrada, scegliere.
Certo non tutti possiedono una casa che “si può girarci intorno”,
come il sogno di una vita raccontato a mio suocero da un vecchio
repubblicano romagnolo. Ed è curioso che oggi si cominci ad avverare
quella guerra tra città e campagne profetizzata dal crononauta John Titor
(leggenda internettiana d’inizio millennio). Un filo rosso lega i
ribelli della Val di Susa a tutti gli irriducibili
dell’autorganizzazione comunitaria sparsi per il mondo, che ha nello
Stato esattore/poliziotto il nemico naturale e sempre più inutile (se
non proprio nocivo).
In quest’ottica la secessione delle ex Repubbliche socialiste
sovietiche è da considerare un’avanguardia e la contrapposizione
novecentesca tra comunismo e capitalismo un gioco di specchi buono per
dare lustro alle vecchie istituzioni. Magari aveva ragione Marx e
l’estinzione dello Stato è prossima o forse andrà semplicemente a finire
che
“a tarda sera io e il mio illustre cugino de Andrade eravamo gli ultimi
cittadini liberi di questa famosa città civile, perché avevamo un
cannone nel cortile”. Prima comunque bisogna avere il cortile.
L'articolo è stato pubblicato come editoriale su The FrontPage.
La
foto è stata scattata in Bolivia e ritrae il processo di lavorazione
di uno stencil artigianale a scopi di “viral marketing” (io
l’ho imparato lì, facendo il consulente volontario del movimento
indigeno Guaranì, il viral marketing...). L’assemblaggio del logo
“Autonomia Indigena” dell’immagine, utilizzato durante la VI Marcia
Guaranì, fu il nostro primo contributo alla causa.
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5 marzo 2012
DALLA'S
“Ho lasciato i pantaloni in un cortile, ho perso anche una mano in un
vicolo, era un pomeriggio di aprile… gli occhi me li ha portati via una
donna grassa a forza di guardarla, le labbra le ho lasciate tutte e due
su un’altra bocca o su una fontana, che a essere prudenti non si tocca,
ma mi brucia come un vecchio fulminante… o muori tu, o muoio io… da
oggi Roma avrà un altro Dio… io me ne vado via… io me ne vado via…”.
La Roma di Lucio Dalla era Bologna. Per quasi tutti gli altri
cantautori che, per una ragione o per l’altra, sono associati alla
città, Bologna è stato un punto di arrivo (Guccini viene da Pavana,
Vasco da Zocca) oltre che un trampolino di lancio, per Dalla no. Era la
grande madre, la lupa, il sacco amniotico (fetale come l’intrico dei
suoi portici millenari) da cui scappare. Gli anni che
“siamo i gatti neri, siamo i pessimisti, siamo i cattivi pensieri, ma
non abbiamo da mangiare” sono gli anni del suo controcanto alla Bologna
paciosa, che si risveglia nel ’77 col morto per strada e i carri armati
in Piazza Verdi.
Certo,
“il cucciolo Alfredo avvilito, impaurito, con i denti da lupo tradito
si ferma un attimo e poi sale… si tratta di un giovane autobus
dall’aspetto sociale a biglietto gratuito, regalo di un’amministrazione
niente male…”. Ma poi “…nemmeno Natale è una sera normale, la gente con
gli occhi per terra prepara la guerra… c’è guerra nei viali del centro,
dove anche il vento è diverso, son diversi gli odori per uno che viene
da fuori…”. Bologna, Dalla l’ha raccontata da dentro perché l’ha vissuta
dal principio, da quando, da ragazzo, si aggirava davanti a San Petronio “per sentire gli odori dei mangiari e i discorsi della gente”.
Erano gli anni del jazz. Mio padre, che bazzicava una delle cantine
in cui si suonava (“quando non c’era qualcuno che aveva trovato da far
bene e si era chiuso dentro”), mi ha raccontato che Dalla spesso
s’imbucava e cominciava a strimpellare tutti gli strumenti con febbrile
talento (dopodiché veniva regolarmente cacciato, “andava per i cazzi
suoi, poi era più piccolo”). Erano gli anni della rinascita della città
di Dozza, dopo il fascismo e la guerra partigiana, della Bologna della
festa della matricola, delle Balle dei goliardi, in cui ci si
mangiava una lasagna alle quattro del mattino, da Lamma, e poteva
capitarti di andare a prendere Louis Armstrong alla stazione, con la
banda, e vedergli tirar fuori la tromba in mezzo al piazzale e
rispondere a tono.
Lo show sulla morte di Dalla sui media è diventato uno show sulla
Bologna dei giorni nostri, com’era inevitabile, con tutta la
stucchevolezza retorica del caso. I politici tutti in fila a smazzare
agenzie di stampa per uno che
“lo sa che al suo funerale ci saranno e diranno: è stata la colonna
sonora della nostra vita?” aveva sghignazzato ”una buona ragione per non
morire”. Di qui forse la paranoia della Cei di vietare
le sue canzoni al funerale, celebrato il giorno della sua nascita,
oltre che titolo di uno dei suoi pezzi più celebri e celebrati (4/3/1943).
È ovviamente una cazzata perché è vero che i bolognesi farebbero volentieri a meno della soap in
rampa di lancio (sabato al bar mi ha assalito un servizio di Studio
Aperto sul giallo del testamento e ho capito che ci siamo), ma la musica
non c’entra. Io non l’ho mai conosciuto, ma davvero
“sembra che Dalla avesse già pensato a tutto, immaginato tutto, cantato
tutto, perfino il momento preciso in cui si sarebbe girato e via.” Le
sue parole, ora che se n’è andato in fretta e furia senza darmi il tempo
di stufarmi, ci assalgono tutte insieme e attivano sinapsi di ricordi
ed emozioni di cui non avevamo memoria.
Dio, il messaggio, è musica per chi ha la fede: un insieme di suoni
che creano un’armonia. Nei tempi passati i cattolici erano più svegli.
Quando hanno inventato le campane, ad esempio, si sono assicurati per
secoli il dominio del tempo e tuttora se la giocano con sveglie,
cellulari, orologi e suonerie. Con i canti gregoriani si sono prodotti
in un esercizio di matematica sacra di rara abilità, del tutto simile
all’om, campionando a tonalità esponenziale la frequenza del delfino.
Oggi la musica di Dalla, poeta e credente nella Bologna “sazia e
disperata”, la tengono fuori dalla chiesa.
Le persone normali, invece, celebrano proprio quella, la musica. Su
Facebook un amico taxista, bolognese, mi ha chiesto se poteva prendere
in prestito una mia citazione di Treno a vela
– “Quanto costa una mela? Costa un sacco di botte! Se mi faccio
picchiare un pochino la darebbe al bambino…?” – perché “cazzo l’ho
ascoltata troppe volte”. Un altro, napoletano, invece mi ha scritto che
“c’era una sua canzone, che una volta mi facesti sentire nella tua
macchina, ma di cui non ricordo il titolo, che definisti “il comunismo”…
la trovi?”. È quella con cui ho aperto l’articolo, e finisce così:
“… Dove chiudendo gli occhi senti i cani abbaiare, dove se apri le
orecchie non le chiudi dalla rabbia e lo spavento ma ragioni giusto
seguendo il volo degli uccelli e il loro ritmo lento… dove puoi trovare
un Dio nelle mani di un uomo che lavora e puoi rinunciare a una gioia
per una sottile tenerezza, dove puoi nascere e morire con l’odore della
neve… dove paga il giusto chi mangia, chi beve e fa l’amore… dove, per
Dio, la giornata è ancora fatta di ventiquattr’ore e puoi uccidere il
tuo passato col Dio che ti ha creato, guardando con durezza il loro
viso, con la forza di un pugno chiuso e di un sorriso e correre insieme
agli altri ad incontrare il tuo futuro… che oggi è proprio tuo e non
andar più via…”.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. "E non andar più via" l'ho presa qui.
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1 marzo 2012
DOVE NON OSANO LE AQUILE
 “La nostra Federazione anarchica informale ha aderito alla proposta
degli omologhi greci delle Cellule di cospirazione di fuoco, proposta di
adesione a un network internazionale più agguerrito, che mira a mettere in piedi azioni violente antisistema”. Mettendo da parte il cinismo mentecatto da avvoltoi in astinenza da carcassa di Libero, il quasi-morto della Val di Susa rappresenta di certo un salto di qualità nella decennale battaglia sulla Tav. Non quello paventato da Manganelli, però.
Il cadavere è stato evocato recentemente dal capo della polizia, come esito probabile dell’escalation
di violenza anti-sistema attribuita ai ribelli della Val di Susa,
“terreno storicamente tradizionale di espressioni antagoniste, dove sono
nati e vissuti esponenti di Prima Linea, dove ancora oggi c’è la
presenza piuttosto stabile di personaggi di spicco dell’area anarchica
radicale”. Luca Abbà è in coma farmacologico, dopo aver violato un
traliccio ad alta tensione, buscato la scossa ed essere volato dieci
metri di sotto.
Dalle cronache pare che “uno dei volti più noti del movimento No-Tav”
sia in effetti un anarchico. Originario di Cels, una frazione di
Exilles, Abbà dieci anni fa è tornato a vivere nella casa di suo padre e
dei suoi nonni e a coltivare la terra. L’ha fatto anche Giovanni Lindo
Ferretti, leader dei CCCP, poi CSI, poi PGR, che è rientrato nella casa
di famiglia, in un minuscolo paesino dell’Appennino, per poi divenire
seguace di Giuliano Ferrara e della musica sacra, confermandosi così
come l’ultimo vero punk ancora in attività.
Forse anche l’autore di “produci-consuma-crepa” tornerebbe un po’
anarchico, se le ruspe dell’ “atea-mistica-meccanica-macchina
automatica-no anima” minacciassero di buttargli giù la casa. Luca Abbà
si è comprato un pezzo di terra che, in queste ore, gli emissari del
“sogno tecnologico bolscevico” stanno procedendo a espropriare, in
quanto area d’interesse strategico nazionale. Esticazzi se, come sostengono gli avvocati del legal team
“Ltf si è presentata nuovamente soltanto con un’ordinanza prefettizia,
in palese violazione dell’articolo 2 del Testo unico di Pubblica
sicurezza, che prescrive quella procedura soltanto in casi di estrema
urgenza, che qui non vi sono”.
Manganelli ha già chiarito che gli oppositori dell’interesse
strategico nazionale rappresentano una minaccia alla sicurezza
nazionale, Tav o non Tav. Per cui “serve una nuova figura normativa,
diversa dall’associazione e dalla banda armata, per perseguire
un’associazione speciale, a metà tra l’organizzazione strutturata e
l’organizzazione che ti rende forte in quanto appartieni ad esse ma non
vieta di fare qualcosa da soli”. Definizione assai vaga e sinistramente
vasta, a occhio.
Gli anarchici di Manganelli, che con una busta paga da
oltre 620.000 euro annui s’immagina abbia bisogno di mostrare grinta a
poliziotti tra i meno pagati d’Occidente, sarebbero dunque l’ennesima
puntata delle emergenze italiane. Dopo i terroristi, i mafiosi, i
pedofili, i razzisti, i partiti politici che hanno fatto la
Costituzione, il pendolo della concezione strategica nazionale vira verso i sempiterni anarco-insurrezionalisti, in procinto di fondare il network del terrore in combutta coi greci di Exarchia.
C’è della paradossale onestà nella visione lucidamente leviatanica di
Manganelli, perché la rabbia e la repulsa sociale e politica è come un
virus in grado di infettare le piazze di mezzo mondo, anche senza
bisogno di grandi vecchi e internazionali del terrore. Quello che è
successo nel Maghreb, che accade tutti i giorni in Siria, la rivolta
afghana, sono segnali che il mondo stesso è una polveriera pronta a
esplodere in ogni momento, quando salta il patto di convivenza e il
gioco non vale più la candela.
Se vogliono (r)esistere, gli stati bisogna che siano in grado di
convincere, o almeno di parlare con tutti i Luca Abbà, prima di
espropriarne la terra. Non siamo nell’Ottocento e non c’è da costruire
la ferrovia per la nuova frontiera e manco nel Novecento, con l’Autosole
da tirar su. Il mondo del martello pneumatico è in crisi – economica,
ambientale, politica, sociale, culturale – e non produce più ricchezza,
benessere, speranza. Dunque la propria terra è una buona ragione per
combattere e magari pure per morire.
Ci si attenderebbe, quantomeno, il pudore del dubbio, la dignità del forse e invece ogni volta che viene bollata un’idea strategica nazionale (con
connessa emergenza da normare con urgenza) si alzano le baionette come
ai tempi di Peppone e Don Camillo. Se poi c’è di mezzo pure l’Europa
tutti smettono di pensare del tutto. Invece ci sarebbe bisogno di
sinapsi in movimento, per evitare che la profezia punk di tutti i Lindo Ferretti, solitamente senza figli, si avveri. E che il futuro vada definitivamente a farsi fottere.
L'articolo (con foto) è stato pubblicato su The FrontPage.
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