<%if foto<>"0" then%>
|
|
|
 VOTO Per il partito del diavolo. Quello dei mercanti, delle mignotte, dei preventivi.
Che ha inventato il marketing e gli hippie. Principio vitale e creatore, maschio, della contemporaneità. Ora, però, sta perdendo dei colpi. Martiri e beghini non fanno altro che strillare di valori e verità. Tutte balle per il vecchio tiranno, avvezzo alla ruvida legge del business e a quella melliflua del piacere. Parole incomprensibili, sparate in tutto il mondo dalla comunicazione.
Il re si era illuso. Per anni aveva dimenticato: non era solo al suo arrivo. La comunicazione era sempre stata lì. Creatrice, femmina, dell’umanità. Il vecchio aveva creduto di dominarla e in effetti per lungo tempo era andata così. Non aveva più memoria di essere anch'egli una sua creazione. Una funzione. Lei poi se ne stava in un angolo. Zitta e buona, casa e bottega.
Non aveva fatto una piega neanche quando le aveva portato a casa la tecnologia. L'arrivo della nuova amichetta sembrava non turbarla. Anzi: assecondava di buona lena ogni morbosità del veccho pervertito. Poi ci ha preso gusto e ha cominciato a giocare per sé. La nuova non le dispiaceva affatto, era una complice ideale. Efficiente, assecondava ogni voglia con pruriginosa meticolosità. E aumentava sempre la posta.
Dominata e dominatrice, allora, si sono messe a giocare insieme. Proprio sotto gli occhi del re, che non vedeva e si compiaceva: la partita era sempre più eccitante. Ma gli sguardi tradivano e il vecchio era costretto a rincorrere. Sempre più spesso non capiva e passava in rassegna prima l'una poi l’altra, a ripetizione, per afferrare qualcosa. La bocca spalancata.
Loro lo tranquillizzavano, gli facevano le coccole e lo mettevano a dormire. Era stato un re glorioso e non si meritava uno scherno manifesto. Dentro di loro, però, sapevano già come sarebbe finita.
 |
|
|
|
14 marzo 2012
TERRA È LIBERTÀ
 “Alla Tekove Katu ci arriviamo da Santa Cruz in jeep, per una strada
che taglia il Chaco come una papaya, dal sud della Bolivia
all’Argentina, passando per il Paraguay. Sul portapacchi, nel bagagliaio
e fra noi, zaini, casse d’acqua, componenti per pc, frutta, spaghetti.
Padre Tarcisio ci accoglie come se fossimo vecchi amici.
Dentro l’ufficio/cucina/studio ci aspetta un brodo di pollo (vero),
una torma di bimbi e alcune splendide signore ai fornelli, ridenti e
indaffarate. La tavola non viene mai sgombrata del tutto, c’è sempre
qualcuno che passa e magari deve ancora mangiare. A Gutierrez la scuola è
il cuore della comunità: la luce è arrivata da tre anni e tutta la
città ha l’acqua da quando Padre Tarcisio ha fatto mettere la cisterna.”
Sono passati quasi cinque anni dal viaggio in Bolivia e dall’incontro
con la comunità Guaranì, che lotta da vent’anni e passa per il
riconoscimento dell’Autonomia indigena. Vanessa ed io ci ritrovammo
catapultati in una realtà parallela, un mondo a priorità capovolte in
cui tutto ciò che noi eravamo abituati a ritenere essenziale non contava
niente mentre le cose scontate, quaderni per scrivere e acqua calda per
lavarsi, erano tutto. Correva l’estate del 2007, l’anno della VI Marcia
del Popolo Guaranì, in cammino dal Chaco fino a Sucre, la sede del
Parlamento della Bolivia.
“L’autodeterminazione è una battaglia di giustizia per gli
occidentali di passaggio come noi, ma una questione esistenziale per gli
indigeni. Rivendicare l’Autonomia da queste parti significa lottare per
vivere con ciò che si produce, nella terra in cui si è nati”. Sono
passati cinque anni dal nostro reportage, che il Manifesto ospitò sulle pagine di Chips&Salsa (l’inserto settimanale del compianto Franco Carlini), e mi ci sono voluti tre articoli su tFP per collegare la battaglia del popolo Guaranì con quella degli indigeni della Val di Susa.
La questione, invece, è la stessa. La solita secolare questione: la
terra. In Val di Susa ribellarsi per difendere la propria contea
significa affermare un diritto assoluto, la proprietà, contro un altro,
il presunto interesse generale. Sono diritti potenzialmente
inconciliabili. In Bolivia, e in mezzo mondo, gli indigeni lottano per
recuperare la terra perduta, sottratta con l’inganno dai colonialisti.
I coloni di Manituana,
che facevano firmare ai pellerossa contratti di cessione delle proprie
terre dopo averli fatti ubriacare, non erano molto diversi dalle
multinazionali farmaceutiche che regalano ai contadini indiani sementi
che rendono il terreno dipendente dal prodotto spacciato, o dal colosso minerario
indiano Vedanta Resources, che della montagna sacra dei Dongria
Kondh riesce solo a calcolare i due miliardi di dollari di bauxite che
ci stanno sotto. E neppure dalle scavatrici della Val di Susa.
In nome di una grande opera, che nulla ha a che spartire con le sorti
del luogo in cui viene calata come un’astronave, lo Stato italiano è
vent’anni che cerca di piantare la bandierina. Una qualsiasi: prima era
stato il trasporto di persone, poi è diventato di merci, in diversi
formati e progetti, ma sempre ad alta velocità (l’estetica futurista
inturgidisce ancora i politici in cerca d’autore). Tutti corredati dal
solito teatrino di conti e controconti, d’accordo soltanto
nell’ammettere con vaga mestizia che in Italia costa dalle tre alle
cinque volte di più che nel resto dell’Occidente.
Ora, le responsabilità del passato sono note e dibattute. Si tratta di un’opera bipartisan,
fortemente voluta da tutte le forze politiche presenti in Parlamento
(di maggioranza e opposizione), e di un impegno con l’Europa, come
ripetuto stile-mantra in ogni angolo del mainstream. La
questione è se a questa presunta volontà generale corrisponda o meno un
consenso sul territorio e se debba contare. Non solo per decidere sul
“come”, ma sul “se”. Il governo ha deciso per la prima, chiudendo
esplicitamente la porta al referendum invocato da FR, oltre che da Adriano Sofri su Repubblica, e si è abbassato la visiera dell’elmetto.
La sensazione è che la posta della partita non sia tanto la grande opera in sé, che in Italia as usual dà da mangiare (molto) a imprese grandi, piccine (poco), lavoratori (pochissimo e a tempo), mafie e
per questo costa molto di più che all’estero, ma la sfida. Il diritto
all’autodeterminazione su base proprietaria, innalzato dagli
anarco-agricoltori della Val di Susa, è un punto di non ritorno per
l’autorità dello Stato in quanto tale e la guerriglia resistente (più o
meno non-violenta, cambia poco) si configura come un oltraggio
intollerabile al suo monopolio della forza.
La proprietà tale diventa il guscio di base, la metrica minima a
guardia della libertà dell’individuo. Se non possiedi sei posseduto.
Dall’affitto, dal mutuo, dalla carta di credito, dal divano a rate,
dall’iPhone in comodato gratuito, da tutti gli strumenti con cui sei
cooptato nel circo dei consumi, grazie ai quali l’occhiuto poliziotto
globale ti tiene al guinzaglio vita natural durante. Nella tua fattoria
invece sei, puoi essere, l’anarca jungeriano e disertare (o meno) il
conformismo globalizzato. Puoi creare da te il percorso di vita che più
ti aggrada, scegliere.
Certo non tutti possiedono una casa che “si può girarci intorno”,
come il sogno di una vita raccontato a mio suocero da un vecchio
repubblicano romagnolo. Ed è curioso che oggi si cominci ad avverare
quella guerra tra città e campagne profetizzata dal crononauta John Titor
(leggenda internettiana d’inizio millennio). Un filo rosso lega i
ribelli della Val di Susa a tutti gli irriducibili
dell’autorganizzazione comunitaria sparsi per il mondo, che ha nello
Stato esattore/poliziotto il nemico naturale e sempre più inutile (se
non proprio nocivo).
In quest’ottica la secessione delle ex Repubbliche socialiste
sovietiche è da considerare un’avanguardia e la contrapposizione
novecentesca tra comunismo e capitalismo un gioco di specchi buono per
dare lustro alle vecchie istituzioni. Magari aveva ragione Marx e
l’estinzione dello Stato è prossima o forse andrà semplicemente a finire
che
“a tarda sera io e il mio illustre cugino de Andrade eravamo gli ultimi
cittadini liberi di questa famosa città civile, perché avevamo un
cannone nel cortile”. Prima comunque bisogna avere il cortile.
L'articolo è stato pubblicato come editoriale su The FrontPage.
La
foto è stata scattata in Bolivia e ritrae il processo di lavorazione
di uno stencil artigianale a scopi di “viral marketing” (io
l’ho imparato lì, facendo il consulente volontario del movimento
indigeno Guaranì, il viral marketing...). L’assemblaggio del logo
“Autonomia Indigena” dell’immagine, utilizzato durante la VI Marcia
Guaranì, fu il nostro primo contributo alla causa.
|
6 dicembre 2010
ARMI DI EDUCAZIONE DI MASSA
“Jeffrey Bezos, fondatore di Amazon, Sergey
Brin e Larry Page, fondatori di Google, Jimmy Wales, ideatore e
fondatore di Wikipedia: questi sono solo alcuni nomi illustri del web
2.0 che sono stati educati secondo il metodo Montessori: i fondatori di
Google in particolare attribuiscono proprio a questo metodo il segreto
del loro successo.” Colpisce la perfetta simmetria
causa-effetto fra l’imprinting educativo anti-gerarchico e la carriera
di grandi architetti della rivoluzione della Rete, che sta rapidamente
piallando la tradizionale struttura piramidale del dominio della
conoscenza.
“Il principio fondamentale deve essere la libertà dell’allievo,
poiché solo la libertà favorisce la creatività del bambino già presente
nella sua natura. Dalla libertà deve emergere la disciplina.” Se al
posto delle parole allievo e bambino ci fossero utente e persona
potrebbe trattarsi tranquillamente di un brano dall’Intelligenza collettiva di Pierre Levy o di uno dei migliaia di saggi apologetici sulla Rete libera, invece che della pagina di Wikipedia dedicata a Maria Montessori.
Naturalmente non è un caso e i creatori del web 2.0 hanno applicato la
lezione alla Rete. Il destinatario dei messaggi non è il più un target e
stop (lettore / spettatore / ascoltatore) ma un soggetto attivo e
finanche il “web è finalmente scrivibile, non solo leggibile” per dirla con Franco Carlini.
Nel metodo montessoriano, l’insegnante
scende dalla cattedra e diventa una sorta di guida che stimola la
creatività dei ragazzi e, come il maestro steineriano, li aiuta a
scovare il proprio talento. Evidentemente i più virtuosi, gli
allievi-alfa capibranco della tecno-umanità nascente, hanno capito che
il loro talento era quello di cambiare il mondo e gli strumenti
cognitivi che hanno appreso erano i più adatti allo scopo.
Tre anni e mezzo fa in Bolivia mi era capitato di avvertire un’analoga affinità elettiva
tra il modello educativo della scuola pubblica di salute del Chaco (la
“Tekove Katu” di Gutierrez, nel dipartimento di Santa Cruz), diretta da
Padre Tarcisio con l’aiuto degli insegnamenti di Don Milani e David Werner,
e i campioni dell’allora nascente web 2.0. Anche lì, anche allora, lo
stesso mantra, speranza di riscatto per i soliti ultimi e arma vincente
dei nuovi primi: dalla gerarchia alla reciprocità (come il sottotitolo
del saggio
di Roberto Escobar su Max Stirner, “Nel cerchio magico”). Il
core-business della rivoluzione tecnologica che sta cambiando i
connotati al mondo è tutto qui.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
12 luglio 2008
BOLIVIA / UN ANNO FA
Tornavo a Bologna.
Nei mesi successivi Vanessa e io avremmo tentato di compartire la lezione di Padre Tarcisio, la lotta per l'Autonomia Indigena del popolo Guaranì e quel poco che siamo riusciti a combinare alla Tekove Katu con ogni mezzo: internet, carta stampata, Second Life (esisteva ancora l'anno scorso).
Purtroppo la situazione non è migliorata. Tutt'altro. I nazi-leghisti dei dipartimenti di Santa Cruz, del Beni e di Tarija hanno vinto i referendum sull'autonomia (una sorta di federalismo a esclusivo vantaggio dei proprietari terrieri, esigua minoranza di schiavisti bianchi in un Paese con oltre il settanta per cento di indigeni) e si sente puzza di golpe.
Evo per disinnescare la mina ha convocato un referendum nazionale su di lui. Proprio così, il 10 agosto tutti i boliviani diranno se vogliono che Morales termini il suo mandato (mancano due anni e mezzo e la Costituzione impedisce un secondo incarico) o no. L'idea che l'Avanzo di Balera possa mettere a disposizione la poltrona perché perde le elezioni regionali o che Bush indica un referendum sul proprio mandato perchè (tipo) in Louisiana, Florida e Texas hanno vinto i democratici è fantapolitica, no?
Non in Bolivia. Dove il demagogo Morales può dichiarare serenamente se perdo me ne torno a coltivare coca.
D'altronde laggiù governare non è uno scherzo neanche per il MAS, il razzismo è la norma e gli indigeni sono considerati bestie da lavoro. Veri e propri servi della gleba del XXI secolo, come denuncia il rapporto della Corte Interamericana dei Diritti Umani (CIDH), organismo dipendente dalla Organizzazione degli Stati Americani (OEA), elaborato tra il 9 e il 13 giugno scorsi.
Nel video sopra, 18 campesinos tormentati da pugni e calci, obbligati a
marciare seminudi fino in piazza 25 Maggio, a inginocchiarsi di fronte
alla Casa de la Libertad, a baciare in terra, a baciare la bandiera
della autonomia, a cantare l’inno di Chuquisaca e a bruciare con le
loro stesse mani le whipalas (le bandiere tradizionali degli indigeni) a Sucre, lo scorso 24 maggio.
Scrive César Brie: Ho filmato le pietrate, i calci nelle porte, i vetri rotti e i candelotti di dinamite lanciati all’interno della casa di Wilber Flores, il deputato del MAS che il 10 aprile scorso è stato inseguito dentro il Municipio, percosso e torturato dentro l’albergo in cui aveva cercato rifugio. Flores era all’Abra al momento dell’attacco a casa sua, dove la moglie e la figlia sono dovute fuggire dal tetto per non essere linciate.
Il 10 agosto è un giorno importante per la democrazia boliviana, non solo per Morales.
Piesse Ho saputo che Francesco è tornato in Bolivia per restare. Che si sposa, addirittura. Sono felice per lui, per lei, per Padre Tarcisio, per Nicolaza e per tutti i ragazzi della Tekove. Mi mancano (un po') tutti.
|
1 ottobre 2007
SABATO SERA SU SECOND LIFE
 Vanessa, Manuel e io abbiamo presentato "Guaranì 3.0 - Volti, luoghi e tecniche di trasmissione della conoscenza nella Bolivia indigena" Nella foto in alto, gli avatar ospiti della mostra stanno raggiungendo l'aula didattica.
Questo il racconto di Trilly, l'inviata avatar di VisionPost.
 Nella foto sotto, sulla sinistra, l'unico avatar di Second Life con i (virtuali) peli di tre centimetri sulle gambe bianco avorio. Quello con cui deambulavamo noi, pestando piedi e cascando giù dalla malefica pedana sopraelevata su cui si articolava l'esposizione (sopra).
 La mostra sta sù un mese. Qui: http://slurl.com/secondlife/idearium/175/190/25/
|
28 settembre 2007
GUARANÌ 3.0
|
25 settembre 2007
MAI DIRE BLOG
Non sto per scrivere di Grillo, giuro. Anche se al prossimo v-day, contro il finanziamento pubblico ai giornali di carta, vado a firmare.
Non scrivo di Grillo perché il suo non è un blog: assomiglia molto di più alla tv sovietica (o all'Isola dei Famosi), il messaggio è gerarchizzato con una nettezza senza eguali, emittente e destinatari non sono mai stati così separati. Persino i giornali di carta, con le loro versioni elettroniche (coi blog-rubriche dei giornalisti e le altre menate pseudo-interattive) sono più permeabili al dialogo. Comunque: bona lé con Grillo, ne hanno scritto anche troppo personaggi molto più autorevoli e rispettati di me.
Mi pare più interessante, invece, sbirciare l'evoluzione (o meglio la diversificazione) dello strumento "blog". Secondo Luisa Carrada, autrice di Mestiere di Scrivere, si parla di "corporate blog" quando le organizzazioni complesse (aziende, associazioni, enti pubblici) si rendono conto che più che parlare di sé (non frega più niente a nessuno di mission e simili) è meglio ascoltare i clienti o i cittadini e curare la propria reputazione. Cioè verificare l'attendibilità di ciò che si dice (e si fa) prima che un blogger arrivi, lesto, a sbugiardarlo. Si tratta di un ribaltamento della comunicazione tradizionale (che altro non è che la brochure rilegata in pelle umana, distribuita in fiera da ragazzine malpagate) e ci vuole coraggio: barare, mentire o non raccontarla tutta diventa sempre più rischioso.
Avevo appena commentato il suo ultimo post, colpito dalle analogie con il nostro lavoro alla Tekove Katu, quando ho letto un altro commento, caustico: "Intanto leggetevi anche questo" ci intimava l'anonimo. "Questo" è una sorta di multi-reportage del Foglio su/contro la blogosfera in quanto tale, colpevole di inintelligenza collettiva e diserzione dalla gerachia dei media tradizionali. Ho visto che anche il povero Mary ci è finito in mezzo.
Qui c'è l'articolo sul corporate blogging e il video della lezione di Luisa Carrada al seminario internazionale della comunicazione "Intermediando", lo scorso giugno.
|
21 settembre 2007
COMUNICARE COL WEB MAGARI IN GUARANÌ
 È il titolo dell'articolo che ho scritto a quattro mani con Vanessa, pubblicato ieri sul Manifesto nelle pagine di Chips&Salsa.
La nostra amica Patty ci ha scritto: "Ciao! Ho letto il vostro articolo, grazie per avermelo segnalato, mi ha commosso e mi ha fatto pensare... in questi giorni ho conosciuto i miei nuovi studenti. Distanza siderale!"
Grazie alla redazione di Totem, a quella del Manifesto, a Sara, Eva, Mumble. E a Franco.
La foto l'ho presa qui. Qui c'è il blog della Tekove Katu.
|
16 settembre 2007
TUTTO È MALE QUEL CHE FINISCE MALE?
Rigoberta Menchù ha perso malamente le elezioni in Guatemala e l'ex dittatore rischia di entrare in Parlamento, mantenendo l'immunità che allontana il processo per genocidio, guadagnato con decine di migliaia di indigeni fatti trucidare. Un'occasione persa e basta?
Riguardando l'appello agli indigeni degli studenti Guaranì della Tekove Katu, in Bolivia, non riesco a essere del tutto pessimista.
|
4 settembre 2007
PARTECIP(AZIONE)
 Forse potevo leggerlo prima di andare in Bolivia, ma non conoscevo ancora Padre Tarcisio. Né immaginavo che i ragazzi di Don Milani e quelli della Tekove Katu avessero così tanto in comune. E così tante cose da insegnare.
Consiglio a tutti quelli che non l'hanno letto, in particolare se hanno ancora il sospetto di essere di sinistra, di farlo.
L'immagine l'ho trovata qui. Il video "Don Lorenzo Milani e la sua Scuola", invece, qui.
|
27 agosto 2007
RIGOBERTA CORRE
 Secondo gli ultimi sondaggi sulle elezioni più sanguinose della storia del Guatemala, Rigoberta Menchù sta guadagnando terreno, dopo essere letteralmente sprofondata nelle intenzioni di voto dei guatemaltechi (non citano mai chi fa i sondaggi, però). Davanti a tutti continua ad esserci il socialdemocratico (bianco) Alvaro Colom.
Il 9 settembre si avvicina e le popolazioni indigene continuano a sperare.
Nella foto bambini e adulti Guaranì a El Torno (Bolivia) durante la sesta Marcia per l'Autonomia indigena, lo scorso luglio.
Tratta da: http://www.flickr.com/photos/tekovekatu/
|
17 agosto 2007
CE L'HO FATTA
Ho sconfitto (per una sera e grazie a Vanessa) il mio analfabetismo tecnologico e sono riuscito a postare il videoappello per Rigoberta Menchù, degli studenti della Tekove Katu.
|
14 agosto 2007
VIDEOAPPELLO PER RIGOBERTA MENCHÙ
 Il 9 settembre si vota in Guatemala.
Rigoberta Menchù è la prima donna indigena che si candida come
Presidente. Nicolaza, rappresentante della comunità di Gutierrez
all'Assemblea del Pueblo Guaranì, e gli studenti della Tekove Katu, la
scuola di salute pubblica del Chaco boliviano, hanno partecipato ad un
videomessaggio rivolto alle popolazioni indigene latinoamericane. L'ha
girato Vanessa con una fotocamera digitale, mentre un misterioso
professionista di nostra conoscenza ne ha curato montaggio e
postproduzione.
Eccolo.
La scuola sta creando
un blog, per informare sulle proprie attività e sulle decisioni
dell'APG e delle istituzioni boliviane che
interessano i Guaranì e le popolazioni indigene. Conterrà foto, video,
documenti, corsi, musiche popolari. Cultura Guaranì e informazioni: la loro
finestra sul (e per il) mondo.
La foto l'ho tratta dall'account della Tekove, su Flickr.
Siamo a El torno, lo scorso luglio, gli studenti stanno allestendo gli
strumenti di comunicazione (virale) per la VI Marcia indigena della
Bolivia.
|
|
|