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 VOTO Per il partito del diavolo. Quello dei mercanti, delle mignotte, dei preventivi.
Che ha inventato il marketing e gli hippie. Principio vitale e creatore, maschio, della contemporaneità. Ora, però, sta perdendo dei colpi. Martiri e beghini non fanno altro che strillare di valori e verità. Tutte balle per il vecchio tiranno, avvezzo alla ruvida legge del business e a quella melliflua del piacere. Parole incomprensibili, sparate in tutto il mondo dalla comunicazione.
Il re si era illuso. Per anni aveva dimenticato: non era solo al suo arrivo. La comunicazione era sempre stata lì. Creatrice, femmina, dell’umanità. Il vecchio aveva creduto di dominarla e in effetti per lungo tempo era andata così. Non aveva più memoria di essere anch'egli una sua creazione. Una funzione. Lei poi se ne stava in un angolo. Zitta e buona, casa e bottega.
Non aveva fatto una piega neanche quando le aveva portato a casa la tecnologia. L'arrivo della nuova amichetta sembrava non turbarla. Anzi: assecondava di buona lena ogni morbosità del veccho pervertito. Poi ci ha preso gusto e ha cominciato a giocare per sé. La nuova non le dispiaceva affatto, era una complice ideale. Efficiente, assecondava ogni voglia con pruriginosa meticolosità. E aumentava sempre la posta.
Dominata e dominatrice, allora, si sono messe a giocare insieme. Proprio sotto gli occhi del re, che non vedeva e si compiaceva: la partita era sempre più eccitante. Ma gli sguardi tradivano e il vecchio era costretto a rincorrere. Sempre più spesso non capiva e passava in rassegna prima l'una poi l’altra, a ripetizione, per afferrare qualcosa. La bocca spalancata.
Loro lo tranquillizzavano, gli facevano le coccole e lo mettevano a dormire. Era stato un re glorioso e non si meritava uno scherno manifesto. Dentro di loro, però, sapevano già come sarebbe finita.
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23 febbraio 2012
TERZO MONDO FERROVIARIO
 Mercoledì quindici febbraio, il sole in cielo e diversi giorni senza
un fiocco di neve, mi arrischio a prendere un treno sulla famigerata
tratta Ravenna-Bologna. La settimana prima, sempre di mercoledì (in
piena bufera), il treno delle nove e tre quarti era stato soppresso e
l’autobus sostitutivo ci aveva messo più di tre ore per raggiungere
Bologna. Quindi opto per una postura guardinga e, nonostante il mio
appuntamento in Fiera non sia prima delle undici e trenta, arrivo alla
stazione di Russi alle otto e mezza.
Scopro subito di aver fatto bene, perché sia il treno prima che
quello dopo sono stati cancellati e la gente (numerosissima al binario)
non si capacità del perché. Dicono che le vetture sono da accomodare per
via della nevicata, ma tutti sanno che le officine delle Ferrovie hanno
licenziato a man bassa. Forse è per questo che ci mettono una settimana
ad aggiustare una carrozza, penso fra me e me mentre il treno arriva
con neanche dieci minuti di ritardo.
Quando le porte si aprono una muraglia umana ondeggia minacciosamente
nella mia direzione ma, forte della convinzione che quella sarebbe
stata la mia unica possibilità per andare al lavoro, mi acquatto sul
gradino più basso in attesa di qualche pertugio. La stazione dopo,
Bagnacavallo, stessa scena. Apertura porte, facce sbigottite, qualche
spintone.
A Lugo il clima si surriscalda. Io nel frattempo sono riuscito a
scovare un posto-acciuga in una carrozza e sto addirittura leggendo il
mio Pynchon, ma fuori la gente non riesce a salire, scattano flash e
volteggiano videocamere tra le minacce del capotreno ormai fuori
controllo. A Castel Bolognese si sfiora la rissa, o forse no e si menano
davvero, ma io riesco a vedere solo uno spintone e a sentire il ruggito
del pendolare buggerato. A Imola il treno giunge tra ali di folla degne
di un Gran Premio di Formula Uno. Ma nessuno potrà salirci sopra.
Ancora grida e schiamazzi d’impotente frustrazione.
Intanto un rapido e intimo briefing con i compagni di
sventura mi consente di mettere a fuoco le ragioni del delirio di
giornata. Alla Fiera di Bologna oltre Univercity (dove devo andare io)
c’è Alma Orienta, il giorno dell’orientamento per le aspiranti matricole
dell’Alma Mater, e il nostro treno è l’unico in circolazione tra
Ravenna e Bologna dalle otto del mattino e mezzogiorno. In più ha
soltanto quattro carrozze e non è neanche una novità. I treni del
mattino sono tutti così mentre quelli del pomeriggio, deserti, di solito
ne hanno dalle dieci in su. Quando, qualche anno fa, ho chiesto lumi mi
è stato risposto che dovevo organizzare una petizione di pendolari
perché loro, i ferrovieri, non se li fumavano.
Quando ero piccolo l’Italia era un Paese sostanzialmente ricco e i
bambini poveri erano quelli del Terzo mondo. Non era un modo di dire
particolarmente elegante ma d’altronde neanche la povertà lo è. Nella
bambagia del benessere anni ’80, “Terzo mondo” evocava lo spettro della
povertà vera e nera, quella che avevano conosciuto solo i nostri nonni e
che veniva esorcizzata di quando in quando da concerti benefici di pop
star in cerca di redenzione e/o rilancio.
Il ventaglio delle metafore possibili per illustrare il declino
italiano è davvero ampio, ma quella ferroviaria mi sembra la più
indicata: negli ultimi vent’anni, i treni italiani sono rimasti
sostanzialmente identici, come il loro Paese bipolaristicamente immobile.
Carrozze, rotaie, motrici vecchie, sporche e mal funzionanti, sempre in
attesa di una nevicata redentrice per potersi rinchiudere in officina
mi parlano del mio Paese molto meglio delle proiezioni dotte di
sociologi ed economisti.
Oggi a mio figlio racconto sempre che è un bambino fortunato, la
povertà però non è più confinata ai documentari sull’Africa ma è
diventata come lo spot della Vodafone: tutto intorno a te.
L’Italia è un ricco Paese in decadenza, che si autoalimenta di scuse e
alibi incrociati per non scommettere sul futuro, l’abbiamo ripetuto
tutti talmente tante volte che mi annoio pure a scriverlo. Bisogna solo
che ci rimbocchiamo le maniche e ci mettiamo a spalare a testa bassa,
non ci sono cazzi.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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13 febbraio 2012
LA GRECIA È VICINA
 Anche cercando di mantenere equidistanza ed equilibrio, ad aprire un qualunque sito di news
o a guardare la Tv vengono in mente i Maya. Non si parla di comete,
pianeti fantasma o tempeste solari, non ancora, ma il media-menù è
terrorizzante. In Italia siamo alle piaghe bibliche. Riassunto di un
mese e mezzo di 2012: crisi, tagli, disoccupazione e benzina in
impennata, Titanic, forconi e la peggior nevicata degli ultimi
sessant’anni, ennesima mazzata a consumi e produzione industriale.
Secondo Napolitano, però, non siamo messi come la Grecia e in effetti
la ricchezza privata è molto più alta, un po’ d’industria c’è ancora e
sino a qualche tempo fa i politici si pavoneggiavano assicurando che
eravamo la quinta (o la sesta, la settima?) economia del mondo. Loro
sono più poveri e per qualche anno hanno fatto finta di no, ma quando ci
siamo trovati al dunque pure noi (tre mesi fa) la ricetta del club del risanamento è stata la stessa: tasse e tagli.
Dalla via finanziaria al risanamento l’Argentina ci è passata poco
più di un decennio fa, con l’estinzione della classe media e la
distruzione della sua ricchezza privata come diretta e duratura
conseguenza. Ora sta alla Grecia a cui, in mancanza di meglio, si chiede
di affamare ancora di più una popolazione allo stremo, falciando il
salario di povertà, le pensioni e la spesa pubblica. Si dirà: hanno
scialacquato e ora pagano di debiti. Ok, ma poi? Quali sono le
conseguenze per gli altri?
Magari l’eurozona (e il mondo) si salverà dal contagio finanziario che scatterebbe con il default
del debito greco, sempre che non ci si arrivi comunque, ma di quello
sociale sembra non importare un fico secco a nessuno. E dire che nel
Maghreb lo scorso anno è successa la stessa cosa che si sta verificando
adesso in Occidente, solo con l’asprezza di chi pativa di più e aveva di
meno. Meno pane, meno libertà, meno speranza.
Il club del risanamento, esclusivo ritrovo di burocrati, taglieggiatori del rating
e pseudo-politici in grisaglia d’ordinanza, non può che derubricare le
molotov e la guerriglia urbana davanti al parlamento di Atene (dove per
convenzione è nata la democrazia nel mondo) a incidente di percorso.
Invece i fattori ambientali di ostacolo al programma di risanamento sono
pezzi di carne e cervello, perfettamente rappresentativi di un paese a
cui viene chiesto di scegliere tra crepare di lenta agonia mercatista o
per eutanasia finanziaria immediata.
Quando la gente non ha più niente da perdere è pericolosa, per sé
stessa e per gli altri. Ora le piazze della Grecia sono piene di persone
a cui nessuno è in grado di dare una spiegazione sul perché, né uno
straccio di speranza sul dopo. A meno che, davvero, qualcuno non creda
che una qualsiasi persona normale sia disposta a fare la fame per
assistere al varo del nuovo trionfale Meccanismo Europeo di Stabilità,
piuttosto che dare alle fiamme la biblioteca dell’università di Atene.
Sinora il vantaggio di Monti, rispetto al suo omologo “tecnico”
Papademos, è di non essere riuscito a coinvolgere i partiti, confinando
quel che resta della rappresentanza democratica al suo fallimento
solitario, e anche l’ormai celeberrima aura di prestigio che ne
amplifica ogni gesta, la copertina di Time non è che la punta dell’iceberg, unita alla sua indubbia produttività
di certo aiutano. Poi l’Italia non è la Grecia, come autorevolmente
ricordato Napolitano proprio ieri. Già: perché proprio ieri?
L'articolo (con foto) è stato pubblicato su The FrontPage.
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4 febbraio 2012
UP PATRIOTS TO ARTS
“ Monti svègliati: i giovani sono già senza posto fisso. La predica falla alle banche abituate
al posto fisso per dare un mutuo. Ai giovani già non importa nulla del
posto fisso. Si accorgono e rimpiangono il posto fisso quando entrano in
una banca, quando chiedono un mutuo, quando chiedono un prestito. E la
risposta è sempre la solita: “no”. Senza posto fisso il mutuo non si fa.
Quindi, caro Monti, questo discorso è da fare alle banche. Ah, potrebbe
parlarne anche in Consiglio dei ministri, ormai è la stessa cosa.
Grazie.”
In Italia si sente dire spesso che quando uno riesce e mettersi
contro tutti significa che sta lavorando bene. O quantomeno che sta
lavorando. Così su Facebook il blogger filo Pdl Daw
riesce a portare a sintesi la reazione che, da destra a sinistra, hanno
suscitato le parole di Monti sul posto fisso “noioso”. Dopo l’uscita
del sottosegretario meritocratico contro gli sfigati che si laureano dopo i ventott’anni si può dire che l’era della sobrietà è un ricordo remoto, come il global warming sotto mezzo metro di neve.
Secondo i sondaggi Monti continua a godere della fiducia degli italiani, ma anche no. L’altro giorno Repubblica.it titolava
“Gli italiani di lotta e di governo promuovono Monti e le proteste” e
presentava l’italianissimo risultato dell’ultimo sondaggio, che
promuoveva Monti e chi lo contesta con percentuali pressoché identiche
(58% a favore del governo, 56% con le piazze).
Una delle ragioni di questa apparente schizofrenia può essere
ascritta al noto adagio italico “Franza o Spagna purché se magna”, ma
non basta. I desolanti e desolati partiti politici hanno pure la loro
parte di responsabilità in commedia e la recente scoperta della
scomparsa di 13 milioni di euro dal conto corrente della fu Margherita
di certo non aiuta la generosa resistenza contro il mainstream antipolitico, sempre più bipartisan.
Oppositori e sostenitori del governo sono ruoli così palesemente
tattici (come prima la saga pro/contro B.) nella commedia dei partiti,
che nessuno li prende sul serio da tempo. Il dramma è che sotto la
tattica non sembra esserci niente di più del solito basso cabotaggio, i
consueti strumenti per la navigazione a vista in una fase storica che
richiede coraggio visionario. Pure la pantomima sull’articolo 18,
inscenata dal governo con un andirivieni imbarazzante di sparate e
smentite, non aggiunge né risolve granché. Il lavoro non c’è perché non
ci sono soldi che girano, altroché mobilità in uscita.
Cambia il mondo ed è ormai chiaro che globalizzazione significa iPhone, Twitter e Wikipedia ma anche che
“le panchine sono piene di gente che sta male”. Il villaggio globale è
l’Eden della conoscenza svelata e delle infinite opportunità, certo, ma
anche l’era della polarizzazione estrema della ricchezza che spacca il
mondo fra élites cosmopolite e proletariato televisivo, sempre sul ciglio della favela.
Questo mondo, in cui cresceranno i nostri figli, assomiglia sempre
più a una sorta di Medioevo tecnologico, con i templari della finanza a
guardia dell’ortodossia sviluppista che misura la salute di
Stati e famiglie con il termometro unico del Pil. E l’ordine dopo la
crisi si configura ora (o mai più) nelle agende di Bruxelles,
Washington, Pechino, Brasilia e Nuova Delhi, in una mano di poker con le
agenzie di rating, gli organi di governo sovranazionali e gli interessi
economico-finanziari che non hanno certo bisogno di Davos per contare.
Nella trasmissione di Santoro, che ascolto mentre scrivo, hanno
appena intervistato una pensionata greca. Le hanno tagliato l’assegno
mensile di quattrocento euro e non ha i soldi per pagarne novecento di
luce. Così gliel’hanno tagliata. A lei, a suo marito pensionato, a sua
figlia e a suo genero, disoccupati, che vivono lì con la figlia piccola.
In Grecia si stanno moltiplicando gli episodi di malnutrizione
infantile, come nei paesi poveri, e neanche i bilanci stanno così bene.
L’inviato le chiede come fanno: “Con le candele.”
Bisogna che tecnici e/o politici, italiani e/o europei, siano in
grado, adesso, di indicare una direzione di marcia, un approdo
credibile, una speranza comune. È l’unica alternativa ai forconi che,
come in Grecia, passeranno sempre più spesso alle vie di fatto, una
volta constatato che il tempo delle parole è passato. Oltre che della
povertà bisogna avere paura delle sue conseguenze, ora che con l’iPhone e
Twitter chiunque è in grado di mostrarle al mondo in tempo reale.
L'articolo (con foto) è statp pubblicato su The FrontPage.
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20 ottobre 2009
LA MISURA DELLA CIVILTÀ
Quando un bambino di
sei anni anni muore tra le braccia della madre, in una miserabile
baracca scaldata solo dal gas tossico di una caldaia omicida, senza
cibo né nulla, bisogna smettere di parlare di civiltà. L'Italia non è
un paese civile e ogni paese del mondo dove c'è un bimbo che muore di
povertà non è un paese civile.
La misura della civiltà è questa.
povertà
fame
bambino
civiltà
italia
| inviato da orione il 20/10/2009 alle 18:14 | |
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