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 VOTO Per il partito del diavolo. Quello dei mercanti, delle mignotte, dei preventivi.
Che ha inventato il marketing e gli hippie. Principio vitale e creatore, maschio, della contemporaneità. Ora, però, sta perdendo dei colpi. Martiri e beghini non fanno altro che strillare di valori e verità. Tutte balle per il vecchio tiranno, avvezzo alla ruvida legge del business e a quella melliflua del piacere. Parole incomprensibili, sparate in tutto il mondo dalla comunicazione.
Il re si era illuso. Per anni aveva dimenticato: non era solo al suo arrivo. La comunicazione era sempre stata lì. Creatrice, femmina, dell’umanità. Il vecchio aveva creduto di dominarla e in effetti per lungo tempo era andata così. Non aveva più memoria di essere anch'egli una sua creazione. Una funzione. Lei poi se ne stava in un angolo. Zitta e buona, casa e bottega.
Non aveva fatto una piega neanche quando le aveva portato a casa la tecnologia. L'arrivo della nuova amichetta sembrava non turbarla. Anzi: assecondava di buona lena ogni morbosità del veccho pervertito. Poi ci ha preso gusto e ha cominciato a giocare per sé. La nuova non le dispiaceva affatto, era una complice ideale. Efficiente, assecondava ogni voglia con pruriginosa meticolosità. E aumentava sempre la posta.
Dominata e dominatrice, allora, si sono messe a giocare insieme. Proprio sotto gli occhi del re, che non vedeva e si compiaceva: la partita era sempre più eccitante. Ma gli sguardi tradivano e il vecchio era costretto a rincorrere. Sempre più spesso non capiva e passava in rassegna prima l'una poi l’altra, a ripetizione, per afferrare qualcosa. La bocca spalancata.
Loro lo tranquillizzavano, gli facevano le coccole e lo mettevano a dormire. Era stato un re glorioso e non si meritava uno scherno manifesto. Dentro di loro, però, sapevano già come sarebbe finita.
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21 febbraio 2011
GIOVANE RIVOLTOSE CRESCONO
 Uno dei libri più letti in Egitto, nei giorni della caduta di Mubarak, è la biografia di Kemal Ataturk,
padre della Turchia laica pre-Erdogan. La notizia, giunta sulla nostra
riva del Mediterraneo come curiosità, racconta meglio di qualunque
ponderosa analisi la verità di chi ha messo a repentaglio la propria
vita e integrità fisica per sfidare coprifuoco, censura, violenza e
conquistare la piazza alla libertà. Ataturk non era Che Guevara né Bin
Laden e di sicuro non assomigliava a Khomeini, a cui probabilmente
avrebbe fatto tagliare la testa in diretta tv (se fossero esistiti l’uno
e l’altra, ai suoi tempi).
Il contagio nel Maghreb e in Medio Oriente non si ferma e il virus
della libertà “come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca
in bocca”. Dopo Algeria, Tunisia, Egitto, Yemen e Iran ora tocca a
Bahrein, Kuwait, Oman e Libia. Neanche la dittatura pluridecennale del
tiranno situazionista, presunto patrono del bunga bunga (oltre che della
tratta di esseri umani verso l’Italia), si è salvata dall’inondazione
che sta spazzando il mondo arabo. Come durante l’assalto all’ambasciata
italiana di Tripoli, la reazione alla maglietta contro Maometto
sfoggiata dall’ineffabile semplificatore Calderoli, il Colonnello ha
usato la mano pesante contro i manifestanti e stavolta il bilancio è una
vera e propria strage:
quasi cento morti di cui buona parte a Bengasi (dove gli abitanti del
quartiere dell’hotel che ospitava il figlio di Gheddafi, Saad, hanno
tentato di sequestrarlo).
La repressione, oltre alla classica mordacchia alla Rete (attuata
anche in Libia) è la cifra stabile della monarchia del Bahrein,
anch’essa assediata dalla primavera araba.
Il regno di Hamad, erede della secolare dinastia sunnita, conta poco
più di un milione di abitanti ma è posizionato strategicamente sul Golfo
Persico come bastione degli interessi statunitensi nell’area. La
rivolta della minoranza sciita, discriminata a tutti i livelli, ha
causato sinora quattro morti e oltre cinquanta feriti durante i loro
funerali.
Anche il presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh, al poter da più
di trent’anni, sta reagendo rabbiosamente alle proteste di piazza
capeggiate da una giornalista di trentadue anni, Tawakkol Karman,
seguace di Martin Luther King, Gandhi, Mandela e Facebook. Lo Yemen è la
nemesi della libertà, oltre che della dignità della donna,
i matrimoni sono combinati durante l’adolescenza, la testimonianza di
una donna in tribunale vale la metà di quella di un uomo, così come il
risarcimento in caso di morte (per la donna si ottiene la metà). Al
medioevo etico corrisponde un intenso attivismo di Al Qaeda, di cui lo
Yemen è una delle capitali. Tawakkol Karman è la loro nemesi, l’incubo
che s’incarna: una donna-leader che incita le truppe dalle colonne del Washington Post. “Dopo l’Egitto, tutti i dittatori della regione cadranno, e il primo sarà Ali Abdullah Saleh”.
Tawakkol Karman l'ho presa qui. L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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16 febbraio 2011
GIOVANI RIVOLTOSI CRESCONO
“Le motociclette nere dei bassiji
sono tornate nelle strade di Teheran, ieri, per disperdere la
manifestazione organizzata dall’opposizione al regime degli ayatollah.
Lacrimogeni, spari, un morto secondo l’opposizione, decine di arresti
hanno scandito il pomeriggio della capitale iraniana, mentre le strade
si riempivano di giovani e meno giovani”. Alla faccia di chi gridava al
pericolo islamista è proprio l’Iran, i cui leader si erano affrettati a
sostenere le rivolte in Tunisia ed Egitto nella speranza (speculare ai
pruriti kissingeriani di casa nostra) di accaparrarsene la paternità, a
scontare il nuovo contagio.
Il Medio Oriente, ora sì, è una polveriera
rivoluzionaria che ad ogni istante ribolle di nuove proteste e nutre
così altre turbe rivoltose. Sono i giovani, protagonisti del panorama
anagrafico di questi paesi, il motore del cambiamento ed è la libertà il
mito rivoluzionario che li spinge a rischiare la pelle, la famiglia e
il lavoro. Se poi l’eclissi di libertà che ha impedito loro sinora di
votare, pregare e scopare come meglio credono si chiama Mubarak,
sovrano-fantoccio di una ultratrentennale democrazia familiare, utile
agli interessi occidentali e d’Israele, o Ahmadinejad, leader di una
sanguinaria teocrazia antimoderna (prima ancora che antisemita e
antioccidentale) non fa differenza.
Il che la dice lunga sulla distanza che
separa la realtà dalle categorie dell’analisi, ferme alla guerra fredda o
al massimo ai suoi postumi, appunto, kissingeriani. L’Occidente sconta
il logoramento della propria leadership innanzitutto come credibile
guida del mondo libero, prima ancora che come guerra dei Pil,
vittoriosamente condotta dai paesi emersi (Cina, India, Brasile, ecc.).
Gli scheletri nell’armadio, la cui sola evocazione ha reso Julian
Assange il nemico pubblico numero uno (e non a caso ‘adottato’ in tempo
reale da Putin e oggetto delle ironie antioccidentali dello stesso
Ahmadinejad), e i riflessi condizionati del vecchio mondo hanno reso
l’Europa e gli Stati Uniti vecchi pugili stonati.
Prima l’America del Sud, in cui senza
troppi casini sono stati i cittadini a incaricarsi di mandare al potere
Morales, Lugo, Chàvez, Lula, Dilma Roussef, Cristina Kirchner, Michelle
Bachelet, senza remore rispetto al ruolo di abitanti del “cortile di
casa” che era stato assegnato loro dai potenti vicini del nord, ora il
Medio Oriente. Intanto le blasonate democrazie della vecchia Europa si
sono incartate sulla crisi e su come fare davvero l’Europa (che sembra
sempre un po’ il Pd, una cosa ‘da fare’ ma da cui tutti tirano il culo
indietro il prima possibile) e gli Stati Uniti, dopo l’Hope di Obama sono di nuovo al palo.
Altre Atene, Parigi, Roma ci aspettano,
altre fiamme attendono l’Occidente, troppo vecchio per sperare in belle
insurrezioni generazionali rivitalizzanti ma (ancora) troppo ricco per
illudersi che gli esclusi dal banchetto rimangano educatamente fuori,
con le facce spiaccicate sulla vetrina del ristorante.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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9 febbraio 2011
CACCIA AL PREMIER
“La situazione politica ed economica
italiana è diventata insostenibile. Troppi sono stati i soprusi
perpetrati dall’intera classe politica agli italiani che hanno visto un
progressivo e costante degrado dei diritti e della loro dignità”.
Anonymous, gruppo hacker giunto agli onori delle cronache per alcune
azioni pro WikiLeaks, ha lanciato
per domenica scorsa alle ore 15 l’Operazione Italia, un attacco Ddos
(Distributed denial of service), cioè un massiccio invio di finte
richieste ai server con lo scopo di bloccare l’accesso al sito del
governo.
La polizia postale si è affrettata a far
sapere che tutto era sotto controllo, che nessun dato sensibile è stato
rubato dai server anche se ha ammesso che questo genere di attacchi è
difficile da fermare in tempi brevi. Infatti il sito
è stato a tratti irraggiungibile, oppure talmente lento da rendere la
navigazione quasi impossibile per tutto il pomeriggio. Come previsto da
un attacco Ddos, che non mira a sottrarre nessun file o documento ma
solo a bloccare il sito colpito per mettere il proprio messaggio al
centro del dibattito.
Vista la quantità di agenzie e articoli
usciti su tema, che riportavano fedelmente la preoccupazione di
Anonymous per l’Italia democrazia a rischio, si può dire che l’obiettivo
è stato raggiunto. In più sulla home del governo è comparsa a più
riprese una frase beffardamente imposta (in gergo defacement,
seconda azione riuscita): “Se il documento che state cercando è
precedente all’8 maggio 2008 vi invitiamo a cercarlo nell’area “Siti
archeologici” di Governo.it”.
Nelle stesse ore si consumava la
scampagnata a villa San Martino. ”Come cittadini Viola ci dissociamo
dall’iniziativa di una decina di facinorosi che hanno tentato di formare
un corteo non autorizzato. Durante tutta la manifestazione la Rete
Viola e il Popolo Viola di Milano hanno chiesto di mantenere la
mobilitazione allegra, pacifica e colorata, seguendo lo spirito
nonviolento dei Viola”. Il puntuale comunicato serale del portavoce
Gianfranco Mascia non cancella certo le immagini della giornata.
L’ennesimo girotondo antiberlusconiano è
degenerato nella caccia all’uomo, alla sua casa, alla sua domenica. Dopo
tanto tam tam su Facebook e indignazione digitale la villa del satrapo,
con tutta la sua immorale opulenza, dev’essere sembrata troppo vicina
per non farci un salto. Com’è possibile stupirsene, in buona fede, dopo?
Il pomeriggio prima era andata in scena la
versione vip del girotondo, con il solito convegno di intellettuali-star
contro il cattivo da fumetto al governo. Repubblica.it è arrivata a
vendere la battuta (un po’ goffa) di Umberto Eco su Berlusconi che “in comune con Mubarak
non ha solo la nipote ma anche il vizio di non dimettersi” come
stilettata ironica figlia di cotanto acume intellettuale (mentre la
creatività antiberlusconiana sta tutta da un’altra parte).
Invece che per la cazzata pericolosa che è: paragonare uno che magari è
un tipaccio ma ha vinto le elezioni tre volte a Mubarak, di questi
tempi, significa giocare all’Egitto con il culo degli altri (di solito
gente con il culo meno caldo di quello di Eco).
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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1 febbraio 2011
L'ILLUMINISMO ARABO
“Il chierico Ahmad Kathemi è stupido quanto
il suo capo, Ahmadinejad. Nella preghiera del venerdì ha detto che le
rivolte in Tunisia e in Egitto sono parte del riflesso della rivoluzione
islamica in Iran. Qualcuno gli dica che non c’era un solo islamico o
slogan islamico in Tunisia o in Egitto o in Yemen. Continui pure a
sognare”. Il blogger libanese As’ad AbuKhalil mette subito in chiaro il significato dell’Illuminismo arabo in cui si comincia a sperare anche in Occidente, stavolta del tutto snobbato dalle piazze d’Egitto e della Tunisia in fiamme.
Quello che è stato definito “il contagio”,
il prurito rivoltoso che già pregusta il piazza pulita dei vecchi
sultani logorati da decenni di potere, si sta propagando a grande
velocità. Algeria, Tunisia, Egitto, Yemen (al debutto assoluto) sono
stati scossi alle fondamenta da manifestazioni, scioperi, disobbedienza
civile, saccheggi e guerriglia online. Non ci sono solo le avanguardie
politicizzate della Rete, la massa di giovani politicamente irrilevanti,
spesso acculturati e sospettati, sinora,
d’intelligenza col Nemico sia dai regimi che dall’Occidente (a cui i
regimi hanno parato il culo in funzione anti-islamista), c’è anche la blasfemia
barbarica dei saccheggiatori di templi e l’impagabile risposta delle
ronde dei cittadini egiziani a difesa di luoghi e oggetti sacri
all’intera umanità.
Eccita e commuove lo slancio di questi
ragazzi rivoluzionari, in tutto e per tutto simili ai loro coetanei
nostrani, che rischiano tutto per cambiare tutto. Eccita, commuove e fa
riflettere la lucidità e l’apparente facilità con cui le scarmigliate
truppe di blogger e utenti di Twitter e Facebook stanno mettendo in scacco
uno dopo l’altro gli apparati di censura e repressione affinati dai
regimi nel tentativo di evitare proprio quello che sta accadendo: la
consapevolezza di massa come anticamera di uno sbrigativo congedo con
disonore, in tutta fretta per non rimetterci la pelle. E tutto grazie
all’accesso in massa alla Rete (+45% in Egitto sono l’ultimo anno).
L’Illuminismo arabo e la décadence
italiana si contendono da un paio di settimane i titoli di apertura
delle testate di tutto il mondo. Naturalmente è scontato, ma mai banale,
segnalare l’enormità del baratro che separa una sponda del Mediterraneo
dalle altre (anche solo come monito per i prossimi leghismi da sbarco
estivo). Di là si fa la rivoluzione o si muore, di qua si sputtana il
sultano, ci s’indigna, lo s’invidia di nascosto a suon di battutine
davanti alla macchinetta del caffè, si finisce in mutandine e non cambia mai niente.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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26 gennaio 2011
L'AVATAR DI CALIGOLA
 “Since the Roman Empire, politics here has
been seen as a means to power and money. Even today, Italy remains a
land where complex networks of connections and family ties can still, as
in feudal times, count more than merit or position, whether in getting a
job or a bank loan.” Rachel Donandio sul New York Times ha raccontato
il reality-show Italia alla luce delle gesta del solito unico,
celeberrimo, protagonista indiscusso “Surreal: a soap opera starring
Berlusconi”.
Non c’è solo Caligola, l’avatar impazzito del presidente del Consiglio che sbraita
contro Gad Lerner alle undici sera mentre gli italiani normali davanti
alla tv (tutti quelli che potrebbero votare per lui) guardano il Grande Fratello, nell’articolo del Nyt “Prisoner of this world that he created”, ma anche “I invented a parallel life”, Ruby heart-stealer
canonizzata in fascia protetta tv dall’avatar Berja-chic di Signorini, e
soprattutto gli altri protagonisti del virtuality-show: gli italiani a
casa. Quelli del televoto, che hanno già mandato tre volte Berlusconi a
Palazzo Chigi e adesso lo metterebbero pure in nomination, ma non vedono alternative.
Il fatalismo italiano è il vero alleato di Berlusconi, secondo il Nyt.
Niente di nuovo sotto il sole. Italiani brava gente, Franza e Spagna
purché se magna, fascisti con il Duce e antifascisti dopo il 25 aprile e
neanche nel ’92 andò diversamente. Tangentopoli (oltre l’incredibile
percentuale di assoluzioni e lo spropositato numero di anni trascorsi
preventivamente dietro le sbarre dagli imputati) non ha cambiato una
virgola nella società, a parte la decapitazione dei partiti che avevano
fatto la Repubblica, se non in peggio. Oggi il copione si ripete ma gli
italiani hanno ancora meno voglia di sbattersi e, al massimo,
s’indignano periodicamente a qualche festa comandata di piazza, su
Facebook o davanti a Santoro e Floris. Insomma, a differenza che dal nonno di Ruby, la “rivolta non scatta”.
Il braccio di ferro tra Fiom e Fiat, anzi, ha spostato molti più consensi
del Ruby-gate. La solita metà degli italiani per una ragione o per
l’altra non si sconvolge troppo con la storia del puttaniere prestato
alla politica (e/o sospetta che sia in buona compagnia). L’altra è in
ostaggio dello speculare psicodramma di un’opposizione scompaginata che
senza l’avatar di Caligola non esiste, un brusio indistinto fra uno
strepito e l’altro del tiranno virtuale. Ormai si definisce solo per sua
nemesi e, per questo, dovrà necessariamente arrivare fino alla fine
dello show. Costi quel che costi. Si lustrino le baionette, dunque, e si
olino le ghigliottine. Tanto poi arriva sempre la pubblicità. Chissà
stavolta che programmi ci sono dopo.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. L'immagine è stata presa qui.
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1 novembre 2010
BUNGA VIRUS
“Bravo, ha fatto bene a telefonare, a fottersene delle convenzioni, a
mandare la Nicole a prendere Ruby in questura, e a spacciarla per la
nipote di Mubarak, ciò che solo la sua fantasia e il suo senso del
grottesco da commedia all’italiana potevano ideare per cavare d’impiccio
quella ragazza di strada che era capitata chissà come a una delle sue
feste, a uno dei suoi legittimi e barocchetti intrattenimenti domestici a
base di Sanbittèr, la bevanda che solo un maturo Ganimede, coppiere
degli dèi, può offrire a una festa.”
Come si fa a non essere d’accordo
con Giuliano Ferrara che (con consueta sobrietà) solidarizza con
l’amico-premier “quel che si dice bonariamente un puttaniere, un womanizer,
un libertino giocoso e gaudente” di 74 anni, che ha il fegato di dire
“sono orgoglioso del mio stile di vita”, a cui D’Alema vorrebbe
sguinzagliare contro mute di preti (tanto alla prossima battuta di
caccia vaticana contro una qualche libertà peccaminosa basterà fare
scena muta come al solito)?
“I’m a playful person, full of life. I love life, I love women.” Gli è bastata una frase (che in ingleseRepubblica conferma la propria snella e implacabile
autorevolezza e continua intrepida nel solco tracciato da Eugenio
Scalfari nel 1976”, graffia Annalena Benini a proposito di un giornale che arriva a scrivere
“ecco: da adesso si sa pure che, varcata una certa soglia, al rituale
del dopocena era assegnata la denominazione invero esotica di bunga
bunga. Assimilabile, quanto a strizzatine d’occhio, ma più potente, a
consimili espressioni quali gnacca gnacca, tuca tuca e bingo bongo,
quest’ultima nell’accezione non necessariamente leghista, ma
sadico-anale chissà se ancora in voga nella scuola dell’obbligo.”
suona anche meglio) per schiacciare un’altra volta i questurini della
questione morale, decisi a non occuparsi più di politica neanche per
sbaglio. “
Il copione è sempre lo stesso, rodato, delle campagne di
comunicazione virale: il messaggio-choc, sparato dall’ammiraglia liberal
italiana con un format che ne supporta adeguatamente il carattere di
“scoop” (le ‘dieci domande’ l’altra volta, la doppia paginata di D’Avanzo
questa), in poche ore deborda in Rete, invade radio e tv, intasa sms e
chiacchiere, raggiunge le testate estere che erigono, a loro volta,
totem festanti del nuovo sputtanamento di stato. Il bunga bunga, oltre
che il classico tormentone su Facebook, è un nuovo pezzo di Elio e Le Storie Tese e un bolognese ha già registrato il dominio web (www.bungabunga.it), ma come al solito i cinesi sono più avanti e Apple Daily, il quotidiano di Hong Kong ne ha tratto una clip in 3d.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. Il pezzo di Elio l'ho preso qui.
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