23 febbraio 2012
TERZO MONDO FERROVIARIO
 Mercoledì quindici febbraio, il sole in cielo e diversi giorni senza
un fiocco di neve, mi arrischio a prendere un treno sulla famigerata
tratta Ravenna-Bologna. La settimana prima, sempre di mercoledì (in
piena bufera), il treno delle nove e tre quarti era stato soppresso e
l’autobus sostitutivo ci aveva messo più di tre ore per raggiungere
Bologna. Quindi opto per una postura guardinga e, nonostante il mio
appuntamento in Fiera non sia prima delle undici e trenta, arrivo alla
stazione di Russi alle otto e mezza.
Scopro subito di aver fatto bene, perché sia il treno prima che
quello dopo sono stati cancellati e la gente (numerosissima al binario)
non si capacità del perché. Dicono che le vetture sono da accomodare per
via della nevicata, ma tutti sanno che le officine delle Ferrovie hanno
licenziato a man bassa. Forse è per questo che ci mettono una settimana
ad aggiustare una carrozza, penso fra me e me mentre il treno arriva
con neanche dieci minuti di ritardo.
Quando le porte si aprono una muraglia umana ondeggia minacciosamente
nella mia direzione ma, forte della convinzione che quella sarebbe
stata la mia unica possibilità per andare al lavoro, mi acquatto sul
gradino più basso in attesa di qualche pertugio. La stazione dopo,
Bagnacavallo, stessa scena. Apertura porte, facce sbigottite, qualche
spintone.
A Lugo il clima si surriscalda. Io nel frattempo sono riuscito a
scovare un posto-acciuga in una carrozza e sto addirittura leggendo il
mio Pynchon, ma fuori la gente non riesce a salire, scattano flash e
volteggiano videocamere tra le minacce del capotreno ormai fuori
controllo. A Castel Bolognese si sfiora la rissa, o forse no e si menano
davvero, ma io riesco a vedere solo uno spintone e a sentire il ruggito
del pendolare buggerato. A Imola il treno giunge tra ali di folla degne
di un Gran Premio di Formula Uno. Ma nessuno potrà salirci sopra.
Ancora grida e schiamazzi d’impotente frustrazione.
Intanto un rapido e intimo briefing con i compagni di
sventura mi consente di mettere a fuoco le ragioni del delirio di
giornata. Alla Fiera di Bologna oltre Univercity (dove devo andare io)
c’è Alma Orienta, il giorno dell’orientamento per le aspiranti matricole
dell’Alma Mater, e il nostro treno è l’unico in circolazione tra
Ravenna e Bologna dalle otto del mattino e mezzogiorno. In più ha
soltanto quattro carrozze e non è neanche una novità. I treni del
mattino sono tutti così mentre quelli del pomeriggio, deserti, di solito
ne hanno dalle dieci in su. Quando, qualche anno fa, ho chiesto lumi mi
è stato risposto che dovevo organizzare una petizione di pendolari
perché loro, i ferrovieri, non se li fumavano.
Quando ero piccolo l’Italia era un Paese sostanzialmente ricco e i
bambini poveri erano quelli del Terzo mondo. Non era un modo di dire
particolarmente elegante ma d’altronde neanche la povertà lo è. Nella
bambagia del benessere anni ’80, “Terzo mondo” evocava lo spettro della
povertà vera e nera, quella che avevano conosciuto solo i nostri nonni e
che veniva esorcizzata di quando in quando da concerti benefici di pop
star in cerca di redenzione e/o rilancio.
Il ventaglio delle metafore possibili per illustrare il declino
italiano è davvero ampio, ma quella ferroviaria mi sembra la più
indicata: negli ultimi vent’anni, i treni italiani sono rimasti
sostanzialmente identici, come il loro Paese bipolaristicamente immobile.
Carrozze, rotaie, motrici vecchie, sporche e mal funzionanti, sempre in
attesa di una nevicata redentrice per potersi rinchiudere in officina
mi parlano del mio Paese molto meglio delle proiezioni dotte di
sociologi ed economisti.
Oggi a mio figlio racconto sempre che è un bambino fortunato, la
povertà però non è più confinata ai documentari sull’Africa ma è
diventata come lo spot della Vodafone: tutto intorno a te.
L’Italia è un ricco Paese in decadenza, che si autoalimenta di scuse e
alibi incrociati per non scommettere sul futuro, l’abbiamo ripetuto
tutti talmente tante volte che mi annoio pure a scriverlo. Bisogna solo
che ci rimbocchiamo le maniche e ci mettiamo a spalare a testa bassa,
non ci sono cazzi.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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