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 VOTO Per il partito del diavolo. Quello dei mercanti, delle mignotte, dei preventivi.
Che ha inventato il marketing e gli hippie. Principio vitale e creatore, maschio, della contemporaneità. Ora, però, sta perdendo dei colpi. Martiri e beghini non fanno altro che strillare di valori e verità. Tutte balle per il vecchio tiranno, avvezzo alla ruvida legge del business e a quella melliflua del piacere. Parole incomprensibili, sparate in tutto il mondo dalla comunicazione.
Il re si era illuso. Per anni aveva dimenticato: non era solo al suo arrivo. La comunicazione era sempre stata lì. Creatrice, femmina, dell’umanità. Il vecchio aveva creduto di dominarla e in effetti per lungo tempo era andata così. Non aveva più memoria di essere anch'egli una sua creazione. Una funzione. Lei poi se ne stava in un angolo. Zitta e buona, casa e bottega.
Non aveva fatto una piega neanche quando le aveva portato a casa la tecnologia. L'arrivo della nuova amichetta sembrava non turbarla. Anzi: assecondava di buona lena ogni morbosità del veccho pervertito. Poi ci ha preso gusto e ha cominciato a giocare per sé. La nuova non le dispiaceva affatto, era una complice ideale. Efficiente, assecondava ogni voglia con pruriginosa meticolosità. E aumentava sempre la posta.
Dominata e dominatrice, allora, si sono messe a giocare insieme. Proprio sotto gli occhi del re, che non vedeva e si compiaceva: la partita era sempre più eccitante. Ma gli sguardi tradivano e il vecchio era costretto a rincorrere. Sempre più spesso non capiva e passava in rassegna prima l'una poi l’altra, a ripetizione, per afferrare qualcosa. La bocca spalancata.
Loro lo tranquillizzavano, gli facevano le coccole e lo mettevano a dormire. Era stato un re glorioso e non si meritava uno scherno manifesto. Dentro di loro, però, sapevano già come sarebbe finita.
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15 giugno 2011
NON SONO UNA SIGNORA
 “E neanche una blogger lesbica e sostenitrice della rivoluzione
araba. Mi chiamo Tom Mac Master e vengo dalla Georgia.” Potrebbe
cominciare così l’autobiografia di sicuro successo dell’uomo che ha
finto per quattro mesi di essere Amina, icona dell’illuminismo arabo in
Siria per tutti i fessacchiotti che ci sono cascati,
ed è stato capace di inventarsi una vita talmente interessante e
paradigmatica da catalizzare l’attenzione dei media di tutto il mondo e
di una cerchia di persone che si sono considerate sue ammiratrici,
sostenitrici, amiche, una addirittura la sua fidanzata.
Alla fine il buon Tom, in vacanza in Turchia con la moglie, si è
sentito in dovere di dire la verità e di scusarsi proprio con loro, gli
amici e le amiche di Amina, che l’hanno fatto sentire una sorta di ladro
d’affetto. Per darsi un contegno l’ha anche buttata in politica.
“Non mi aspettavo un livello di attenzione del genere – scrive -.
Mentre il personaggio era di fantasia, i fatti raccontati su questo blog
sono veri e non fuorvianti rispetto alla situazione sul campo. Io credo
di non aver danneggiato nessuno. Gli eventi vengono plasmati dalle
persone che li vivono su base quotidiana. Ho solo cercato di gettare
luce su di essi per un pubblico occidentale. Questa esperienza ha
tristemente confermato il mio modo di sentire riguardo alla copertura
spesso superficiale del Medio Oriente e la presenza pervasiva di forme
di Orientalismo liberale. In ogni caso sono rimasto profondamente
toccato dalle reazioni dei lettori”.
In realtà il cerchio intorno alla finta Amina si stava già chiudendo e la situazione è precipitata dopo le finte foto (segnalate
dalla proprietaria della faccia, inglese) e con la traccia lasciata su
un forum, il classico passo falso: l’indirizzo di una casa a Stone
Mountain, in Georgia. Da anni il proprietario risultava essere Thomas
MacMaster (che ci aveva pure invitato gli amici al barbecue su
Facebook). Non è un bel periodo per chi gioca al Luther Blissett o
comunque bisogna essere ancora più bravi di Tom e signora per reggere
più di quattro mesi, nel sontuoso lusso di prendere per il naso tutti i
New York Times del pianeta.
Nel suo articolo sul
blog del Corriere, Viviana Mazza punta i fari sull’apparente
contraddizione fra la sentenza fotografica di Peter Steiner (sopra), “Su
Internet nessuno sa che sei un cane”, e la teorizzata fine
dell’anonimato in Rete: “Su Internet tutti sanno che sei un cane”.
Secondo la sociologa Zeynep Tufekci, nell’epoca di Facobook&co non
si scappa più e in un modo o nell’altra la traccia di una grigliata alla
fine salta fuori. La vicenda dei coniugi MacMaster è un buon argomento
per l’una e per l’altra tesi: li hanno beccati, è vero, ma per tre mesi
hanno preso per il culo il mondo intero.
L'articolo (con foto) è stato pubblicato su The FrontPage.
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23 agosto 2008
IL TUTOR DI OBAMA
Probabilmente mi sbaglio, ho ancora il dente avvelenato, ma quella di Joe Biden come candidato vicepresidente mi sembra una scelta piuttosto miope, quindi
potenzialmente perdente. Il criterio razionalista e prudenziale con cui The One (traducibile più o meno come unto dal signore, come lo chiama McCain) e il suo staff hanno selezionato l'alter ego della star Obama puzza di paura di perdere lontano un miglio.
Il
Biden è un veterano del Senato, presidente della commissione esteri,
esperto in diplomazia, politica globalizzata e savoir faire
internazionale. Poi è bianco, vecchiotto (65 anni), cattolico e munito
di vicefirstlady bionda e yankee doc. Lui bilancia Obama, lei Michelle.
Perfetto, se non fosse per un dettaglio: l'icona del cambiamento - yes
we can - stava perdendo smalto (e punti nei sondaggi) e con questa
scelta difensivista dimostra che le critiche (senza esperienza, troppo giovane, troppo nero) hanno colpito nel segno.
Durante la crisi Russia-Georgia Obama aveva fatto il vago (come al solito) mentre il semprealfronte
McCain era scattato contro i vecchi nemici di sempre con militare tempismo. Tra
l'altro il settantaduenne candidato repubblicano sembra in palla,
nonostante qualche gaffe (scusi quante case ha lei? mah, non lo so di preciso...)
e il suo vice Mitt Romney è uno sfigato conclamato, però decisamente più popolare del nuovo tutor di Obama, e lo può aiutare in qualche stato difficile (tipo il
Massachusetts di cui è stato govenatore).
Naturalmente io avrei
criticato qualunque ticket che non includesse Hillary Clinton. Sono
stato un ultras della prima candidata donna alla Casa Bianca e rimango
tuttora convinto che fosse la migliore arma nelle mani dei democratici
per vincere, oltreché l'unica con le idee chiare su cosa fare. Hillary ha
preso 18 milioni di voti e quasi il 50 per cento dei delegati e
rappresentava la speranza di un cambiamento epocale: una donna alla guida del mondo libero.
Ci voleva del coraggio a
mettersi il generale Rodham alla Casa bianca come vice, non c'è ombra di
dubbio. Ma senza coraggio non si va molto in là, specie se - come Obama
- si viene acclamati da media, vipps e persone normali come il simbolo pre
e post politico del cambiamento. E si fa di tutto per stare al gioco.
Alla lunga la minestra obamiana (fuffa mediatica assortita con canzoncine ispirate e gnoccone in estasi) rischia di stancare e a forza di dire tutto e il contrario di tutto (tipo: sono contro nuove trivellazioni petrolifere... però in fondo si può fare, in misura limitata e all'interno di una più vasta riforma energetica però), il dubbio di trovarsi di fronte a un paraculo - forbito, stiloso e carismatico ma sempre paraculo - si insinua implacabile.
Forse per questo, complici le ferie e gli spot del perfido vecchiaccio (che al contrario ha le idee chiare e vuole trivellare e bombardare senza sé e senza ma), Obama si sta sputtanando del tutto il vantaggio acquisito, come rivelano gli ultimi sondaggi, senza aver ancora spiegato in modo convincente qual è la sua ricetta per rilanciare l'economia del paese e dare stabilità al mondo.
Nell'ultimo mese Obama ha perso punti in particolare nello zoccolo duro che gli ha consentito di vincere le primarie: fra i giovani tra i 18 e i
29 anni (quelli che sono partiti zaino in spalla per andare a votarlo tra le nevi dello Iowa, e negli altri stati in cui ci si poteva registrarsi senza essere residenti, o che lo hanno finanziato e sostenuto online) la sua popolarità è calata di 12 punti, fermandosi al 52%. Ma
sono i democratici in generale a mostrare i primi segno di disinnamoramento: il loro supporto
è calato di 9 punti, mentre fra i liberali (la base del partito, quella che gli ha consentito di vincere in quasi tutti i caucus) il calo è stato
di 12 punti.
Difficile immaginare che il buon Biden sia una scelta in grado di galvanizzarli.
Sopra American prayer, l'ultima canzoncina ispirata (e terribilmente pallosa), dedicata a The One da Bono Vox e Dave Stewart.
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12 agosto 2008
RADIO TBILISI
 ...questo è accaduto senza nostra conoscenza e contro la nostra volontà.
Annunciava
a Radio Praga il Partito Comunista della Cecoslovacchia, mentre i carri
armati dell'Unione Sovietica che entravano nella capitale mettevano
fine alla Primavera di Praga, specificando bene ai fricchettoni
disattenti cosa significasse la parola ortodossia. Al potere non ci stava la fantasia ma i soliti - sempreverdi - stivaloni di regime.
Quarant'anni
dopo le bombe di Putin (il figliol prodigo degli stivaloni sovietici) e
soci su Tbilisi hanno avuto una tempistica impeccabile. Come ogni putch
che rispetti. Gli aerei sono partiti quando l'attenzione del mondo
era rivolta allo splendido show messo in piedi dall'altro despota
globale per dare lustro alla ritrovata potenza del suo impero
millenario. Sui siti dei "media" le medaglie di Pechino si rincorrevano
con le bombe di Tbilisi alla ricerca della piazza d'onore, la vetta del
mainstream.
Intanto le tecniche del Kgb erano state implementate
con le meraviglie dell'era informatica e gli "hacker" russi mettevano
in ginocchio i siti nevralgici della Georgia. Gli attacchi sembrano provenire dal Russian Business Network
(RBN), una delle più grandi organizzazioni di cybercrimine al mondo con
sede a San Pietroburgo specializzata in attacchi di ogni tipo (spam,
phishing, ecc.) e, secondo il Guardian, legata direttamente a esponenti
politici russi. Niente di nuovo: l'anno scorso l'Estonia aveva sperimentato lo stesso trattamento.
Il
Ministero degli Affari esteri della Georgia, coi server che venivano
giù uno dopo l'altro, ha deciso di fare la cosa più ovvia e
rivoluzionaria: aprire un blog. Da lì
sta raccontando le bombe, i morti, la guerra, mentre i televisori
d'agosto sparano le imprese dei campioni di Pechino, che hanno fatto
dimenticare in fretta ogni velleità di boicottaggio e tutte le belle
parole spese sui diritti umani capestati nel (e dal) Celeste Impero.
Come
Radio Varsavia, che trasmise fino al primo ottobre del 1944 e chiuse le
trasmissioni con "la Caduta di Varsavia" di Chopin, avvenuta infatti
il giorno dopo con i nazisti che entravano in una città ormai rasa al
suolo dai bombardamenti.
E come Radio Praga, che all'una e mezzo del mattino del 21 agosto 1968 trasmise la prima notizia dell'invasione della
Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia.
A mezzogiorno durante il notiziario risuonò l'inno nazionale interrotto da raffiche di mitragliatrice, in
via Vinohradska erano ore drammatiche, gli studi della radio divennero
teatro di veri combattimenti in cui persero la vita venti persone.
Il giorno dopo Radio Praga cominciò a trasmettere clandestinamente da una villa di Nusle, la Georgia oggi si è dovuta rifugiare su Google. Speriamo che vada a finire in un altro modo.
La cartolina di Radio Praga l'ho presa in prestito qui.
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