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 VOTO Per il partito del diavolo. Quello dei mercanti, delle mignotte, dei preventivi.
Che ha inventato il marketing e gli hippie. Principio vitale e creatore, maschio, della contemporaneità. Ora, però, sta perdendo dei colpi. Martiri e beghini non fanno altro che strillare di valori e verità. Tutte balle per il vecchio tiranno, avvezzo alla ruvida legge del business e a quella melliflua del piacere. Parole incomprensibili, sparate in tutto il mondo dalla comunicazione.
Il re si era illuso. Per anni aveva dimenticato: non era solo al suo arrivo. La comunicazione era sempre stata lì. Creatrice, femmina, dell’umanità. Il vecchio aveva creduto di dominarla e in effetti per lungo tempo era andata così. Non aveva più memoria di essere anch'egli una sua creazione. Una funzione. Lei poi se ne stava in un angolo. Zitta e buona, casa e bottega.
Non aveva fatto una piega neanche quando le aveva portato a casa la tecnologia. L'arrivo della nuova amichetta sembrava non turbarla. Anzi: assecondava di buona lena ogni morbosità del veccho pervertito. Poi ci ha preso gusto e ha cominciato a giocare per sé. La nuova non le dispiaceva affatto, era una complice ideale. Efficiente, assecondava ogni voglia con pruriginosa meticolosità. E aumentava sempre la posta.
Dominata e dominatrice, allora, si sono messe a giocare insieme. Proprio sotto gli occhi del re, che non vedeva e si compiaceva: la partita era sempre più eccitante. Ma gli sguardi tradivano e il vecchio era costretto a rincorrere. Sempre più spesso non capiva e passava in rassegna prima l'una poi l’altra, a ripetizione, per afferrare qualcosa. La bocca spalancata.
Loro lo tranquillizzavano, gli facevano le coccole e lo mettevano a dormire. Era stato un re glorioso e non si meritava uno scherno manifesto. Dentro di loro, però, sapevano già come sarebbe finita.
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23 ottobre 2012
LOMBARDIA CANAGLIA
 Dopo Er Batman, la Polverini in contromano con l’auto blu per andare a
comprare le scarpe, la fine ingloriosa del Formigoni V, ora potrebbe toccare a Errani.
Il 2012, pur non accogliendo le astronavi aliene sul Viale dei Morti
di Teotihuacan, sembra proprio l’anno del piazza pulita congiunto di
governo e parlamento italiano, Lazio, Emilia-Romagna e Lombardia. Oltre
alla Sicilia, che va al voto a fine mese. Il tutto in uno scenario
politico vagamente apocalittico.
Grillo, che ha l’età di D’Alema anno più anno meno, si fa lo Stretto
di Messina a nuoto per lanciare la campagna elettorale “separatista” del
M5S per le regionali della Sicilia. I sondaggi
dicono che rischia di ritrovarsi primo partito dell’isola e secondo a
livello nazionale, al 21 per cento e passa. Il Pdl è poco sopra il 14 e
il Pd è quasi al 26, l’Idv torna intorno al 4, l’Udc verso il 5 mentre
Lega e Sel si attestano sul 6. Si votasse domani tornerebbe Monti.
Naturalmente non è indifferente, in termini politici e/o elettorali,
il risultato delle primarie del centrosinistra. La coalizione del Pd con
Sel e il Psi in caso di vittoria di Renzi potrebbe andare in pezzi:
Vendola, col suo classico cinismo gabellato da coerenza, si smarcherebbe
per incassare da sinistra i cocci dell’ex Pd (o del più probabile esodo
di funzionari e attendenti).
A sentire Renzi, invece, il Pd a trazione renziana vale il 40%, come neanche nei sogni più bagnati del neo autorottamato
Veltroni, già teorico della vocazione maggioritaria (e arrivato a onore
del vero all’ineguagliato 33%). E quindi forse avrebbe i numeri per
riuscire a vincere e a governare, senza bisogno di supplenti o
parenti-serpenti. Certo, se gli ultimi sondaggi sulle primarie si confermeranno sarà dura verificare.
Secondo il più incazzato il Bersani neo-rottamatore
che mette D’Alema alla porta senza troppi complimenti sta giocando una
partita “gesuitico-stalinoide” e mostra che “una famiglia politica che
non sa rispettare se stessa, la propria storia e dignità, è condannata
alla dissoluzione.” Secondo i bersaniani (che i botteghini danno in
aumento, a prescindere dalle polemiche miserabili sulle Cayman e i
giardinetti) il vero rinnovatore è lui, lo smacchia-giaguari che ha passato gli ultimi anni in Tv a sganasciarsi con Crozza.
Una buona occasione per dimostrare che è vero, che il rinnovatore è
lui, è la scelta del candidato governatore della Lombardia, nel caso in
cui il Celeste riesca a mandare tutti a spendere prima di Natale (e
sotto profezia Maya). Ad oggi il nome più papabile, fra quelli che
circolano (Ambrosoli ha declinato), è quello di Bruno “prezzemolo”
Tabacci (senza offesa, s’intende, l’uomo è intelligente). Lo score –
deputato e assessore a Milano in contemporanea, presidente della
Lombardia cinque lustri fa sotto il segno di Ciriaco De Mita – non ne fa
proprio il frontman ideale per l’assalto dei grillini.
Non è un dettaglio da poco, il nome, nelle elezioni della Lombardia.
Se c’è una cosa che il ventennio celestiale ha lasciato è l’enorme
aspettativa per il dopo. Per chi verrà dopo, perché gli elettori capita
che siano più avanti dei politici (specie di quelli di centrosinistra) e
che gli importi fino a un certo punto di salamelecchi programmatici e
guazzabugli organizzativi. Quando si tratta di governare una regione che
è uno stato di dieci milioni di abitanti, tra i più avanzati d’Europa,
il manico fa la sua brava differenza.
Naturalmente per fare un nome che funzioni bisogna avere un’idea di
che cosa si vuol fare e, prima ancora, di chi ci si crede (o
modestamente si vorrebbe) essere. La celebre e celebrata “soggettività
politica collettiva” che, nel bene e nel male, a Milano ha espresso un
sindaco di sinistra dopo un altro ventennio, ora preme per il bis.
Quindi delle due una: o si fanno le primarie o il nome che esce dal
conclave deve essere all’altezza di quest’aspettativa. Dello zeitgeist, fotografato dall’immancabile sondaggio sul giornalone dell’editore-tessera numero uno del Pd (e main sponsor dell’usato sicuro Bersani alle primarie nazionali), che ha permesso la presa di Palazzo Marino.
Poi bisogna mettersi d’accordo su cosa s’intenda per “avanzato” e
forse le primarie sono uno dei ring migliori per uscire con una risposta
condivisa. La Lombardia di Formigoni, tra un arresto e l’altro, ha pure
trovato il tempo di mandare nel panico per quasi un mese i malati di
epilessia, mettendo a pagamento
due farmaci di largo consumo. Poter essere presi in ostaggio, senza
nessuna ragione, dal pensiero di 150 euro al mese di più, che possono
significare l’addio alle ferie del 2013 o alla settimana bianca, alla
camera del figlio, o alla pizza e alla palestra: questo significa essere
malati.
“Avanzato”, per i malati (ma anche non), coincide con il contrario
della paranoia gratuita procurata dall’incuria politica di un Titanic
incastrato fra le nuvole del Pirellone. Essere liberi di curarsi come si
crede, dovendo risponderne solo a sé stessi, ai propri medici e alla
propria famiglia, senza moralismi puntati. La Toscana del bersaniano
Rossi ha scelto la
strada della libertà di cura, disciplinando l’uso farmacologico dei
derivati della canapa indiana, in modo da evitare ai malati
l’umiliazione del bavero alzato e del centone che sguscia in cambio del
pacchettino furtivo. Col rischio di perdere il lavoro e/o la custodia
dei figli, farsi ritirare il passaporto o magari qualche giorno di
galera.
L’avanzato centrosinistra lombardo può permettersi un’Agenda Rossi? La rottamazione bettoliana
è davvero una posa tattica un po’ meschina (e col fiato corto) o sotto
lo stanco termine “rinnovamento” c’è qualcosa di politico? Se il tenore
della tenzone sarà Albertini (o Lupi) vs Tabacci, in assenza di
primarie, è facile che certi contenuti diventino un’esclusiva del
Movimento 5 Stelle. Che in più ha il vantaggio di non aver bisogno di
spiegare, di sottilizzare, di specificare. E ha tutto da vincere, anche
perché se succede davvero, poi, non si sa come va a finire.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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14 marzo 2012
TERRA È LIBERTÀ
 “Alla Tekove Katu ci arriviamo da Santa Cruz in jeep, per una strada
che taglia il Chaco come una papaya, dal sud della Bolivia
all’Argentina, passando per il Paraguay. Sul portapacchi, nel bagagliaio
e fra noi, zaini, casse d’acqua, componenti per pc, frutta, spaghetti.
Padre Tarcisio ci accoglie come se fossimo vecchi amici.
Dentro l’ufficio/cucina/studio ci aspetta un brodo di pollo (vero),
una torma di bimbi e alcune splendide signore ai fornelli, ridenti e
indaffarate. La tavola non viene mai sgombrata del tutto, c’è sempre
qualcuno che passa e magari deve ancora mangiare. A Gutierrez la scuola è
il cuore della comunità: la luce è arrivata da tre anni e tutta la
città ha l’acqua da quando Padre Tarcisio ha fatto mettere la cisterna.”
Sono passati quasi cinque anni dal viaggio in Bolivia e dall’incontro
con la comunità Guaranì, che lotta da vent’anni e passa per il
riconoscimento dell’Autonomia indigena. Vanessa ed io ci ritrovammo
catapultati in una realtà parallela, un mondo a priorità capovolte in
cui tutto ciò che noi eravamo abituati a ritenere essenziale non contava
niente mentre le cose scontate, quaderni per scrivere e acqua calda per
lavarsi, erano tutto. Correva l’estate del 2007, l’anno della VI Marcia
del Popolo Guaranì, in cammino dal Chaco fino a Sucre, la sede del
Parlamento della Bolivia.
“L’autodeterminazione è una battaglia di giustizia per gli
occidentali di passaggio come noi, ma una questione esistenziale per gli
indigeni. Rivendicare l’Autonomia da queste parti significa lottare per
vivere con ciò che si produce, nella terra in cui si è nati”. Sono
passati cinque anni dal nostro reportage, che il Manifesto ospitò sulle pagine di Chips&Salsa (l’inserto settimanale del compianto Franco Carlini), e mi ci sono voluti tre articoli su tFP per collegare la battaglia del popolo Guaranì con quella degli indigeni della Val di Susa.
La questione, invece, è la stessa. La solita secolare questione: la
terra. In Val di Susa ribellarsi per difendere la propria contea
significa affermare un diritto assoluto, la proprietà, contro un altro,
il presunto interesse generale. Sono diritti potenzialmente
inconciliabili. In Bolivia, e in mezzo mondo, gli indigeni lottano per
recuperare la terra perduta, sottratta con l’inganno dai colonialisti.
I coloni di Manituana,
che facevano firmare ai pellerossa contratti di cessione delle proprie
terre dopo averli fatti ubriacare, non erano molto diversi dalle
multinazionali farmaceutiche che regalano ai contadini indiani sementi
che rendono il terreno dipendente dal prodotto spacciato, o dal colosso minerario
indiano Vedanta Resources, che della montagna sacra dei Dongria
Kondh riesce solo a calcolare i due miliardi di dollari di bauxite che
ci stanno sotto. E neppure dalle scavatrici della Val di Susa.
In nome di una grande opera, che nulla ha a che spartire con le sorti
del luogo in cui viene calata come un’astronave, lo Stato italiano è
vent’anni che cerca di piantare la bandierina. Una qualsiasi: prima era
stato il trasporto di persone, poi è diventato di merci, in diversi
formati e progetti, ma sempre ad alta velocità (l’estetica futurista
inturgidisce ancora i politici in cerca d’autore). Tutti corredati dal
solito teatrino di conti e controconti, d’accordo soltanto
nell’ammettere con vaga mestizia che in Italia costa dalle tre alle
cinque volte di più che nel resto dell’Occidente.
Ora, le responsabilità del passato sono note e dibattute. Si tratta di un’opera bipartisan,
fortemente voluta da tutte le forze politiche presenti in Parlamento
(di maggioranza e opposizione), e di un impegno con l’Europa, come
ripetuto stile-mantra in ogni angolo del mainstream. La
questione è se a questa presunta volontà generale corrisponda o meno un
consenso sul territorio e se debba contare. Non solo per decidere sul
“come”, ma sul “se”. Il governo ha deciso per la prima, chiudendo
esplicitamente la porta al referendum invocato da FR, oltre che da Adriano Sofri su Repubblica, e si è abbassato la visiera dell’elmetto.
La sensazione è che la posta della partita non sia tanto la grande opera in sé, che in Italia as usual dà da mangiare (molto) a imprese grandi, piccine (poco), lavoratori (pochissimo e a tempo), mafie e
per questo costa molto di più che all’estero, ma la sfida. Il diritto
all’autodeterminazione su base proprietaria, innalzato dagli
anarco-agricoltori della Val di Susa, è un punto di non ritorno per
l’autorità dello Stato in quanto tale e la guerriglia resistente (più o
meno non-violenta, cambia poco) si configura come un oltraggio
intollerabile al suo monopolio della forza.
La proprietà tale diventa il guscio di base, la metrica minima a
guardia della libertà dell’individuo. Se non possiedi sei posseduto.
Dall’affitto, dal mutuo, dalla carta di credito, dal divano a rate,
dall’iPhone in comodato gratuito, da tutti gli strumenti con cui sei
cooptato nel circo dei consumi, grazie ai quali l’occhiuto poliziotto
globale ti tiene al guinzaglio vita natural durante. Nella tua fattoria
invece sei, puoi essere, l’anarca jungeriano e disertare (o meno) il
conformismo globalizzato. Puoi creare da te il percorso di vita che più
ti aggrada, scegliere.
Certo non tutti possiedono una casa che “si può girarci intorno”,
come il sogno di una vita raccontato a mio suocero da un vecchio
repubblicano romagnolo. Ed è curioso che oggi si cominci ad avverare
quella guerra tra città e campagne profetizzata dal crononauta John Titor
(leggenda internettiana d’inizio millennio). Un filo rosso lega i
ribelli della Val di Susa a tutti gli irriducibili
dell’autorganizzazione comunitaria sparsi per il mondo, che ha nello
Stato esattore/poliziotto il nemico naturale e sempre più inutile (se
non proprio nocivo).
In quest’ottica la secessione delle ex Repubbliche socialiste
sovietiche è da considerare un’avanguardia e la contrapposizione
novecentesca tra comunismo e capitalismo un gioco di specchi buono per
dare lustro alle vecchie istituzioni. Magari aveva ragione Marx e
l’estinzione dello Stato è prossima o forse andrà semplicemente a finire
che
“a tarda sera io e il mio illustre cugino de Andrade eravamo gli ultimi
cittadini liberi di questa famosa città civile, perché avevamo un
cannone nel cortile”. Prima comunque bisogna avere il cortile.
L'articolo è stato pubblicato come editoriale su The FrontPage.
La
foto è stata scattata in Bolivia e ritrae il processo di lavorazione
di uno stencil artigianale a scopi di “viral marketing” (io
l’ho imparato lì, facendo il consulente volontario del movimento
indigeno Guaranì, il viral marketing...). L’assemblaggio del logo
“Autonomia Indigena” dell’immagine, utilizzato durante la VI Marcia
Guaranì, fu il nostro primo contributo alla causa.
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16 dicembre 2009
E LA MAIALA?
 "È la pandemia più lieve della storia", si spinge a dire Marc Lippsitch, epidemiologo di Harvard. In Italia siamo a quota 142, come dire un morto ogni 25mila casi di infezione (in totale da noi sono state colpite dall'influenza A 3.650.000 persone).
Repubblica.it il 14 dicembre la mette così. La Maiala va in soffitta e buona notte ai suonatori. Certo “nessuno, naturalmente, discute la pericolosità dell'H1N1: la sua diffusione - complice un mondo sempre più globale - è stata rapidissima. Gli effetti però sono stati meno gravi del previsto. Secondo l'Oms, il virus è arrivato in 208 Paesi. Le vittime riconducibili a H1N1 però sono "solo" - si fa per dire - 9.596 (800 nell'ultima settimana), una cifra di gran lunga inferiore alle 500mila causate ogni anno dall'influenza stagionale.” Cioè: la Maiala è l’ennesima bufala, la solita finta “peste del 2000” che i media si sono palleggiati per qualche mese, in attesa di trovare qualcos’altro di più avvincente.
Aviaria, suina. Arrivano sempre d’estate, quando le agende dei media cominciano a sguarnire, fluttuano qualche mese tra panico di massa, inchieste indipendenti, rassicurazioni di stati e megabusiness per le industrie farmaceutiche (per l’influenza A vengono sfornate qualcosa come 3 miliardi di dosi del vaccino), per poi scomparire senza lasciare traccia (salvo occasionali tiratine d’orecchi che qualche trombone liberal si concede come intercalare, tra una notizia e l’altra).
Così scrivevo qualche settimana fa, sempre su Aprile, a proposito della “pandemia mediatica” e così è andata a finire, a quanto pare (non ci voleva certo un genio). Qualche miliardo di dollari è migrato dalle casse degli stati e dalle tasche della gente ad alcune multinazionali per un vaccino nella migliore delle ipotesi inutile (non è che fosse esattamente senza effetti collaterali, almeno per alcune persone), che la stragrande maggioranza dei medici si è ben guardata da iniettarsi, nonostante il goffo minacciare del governo.
Ora, secondo L’Unità del 15 dicembre “le autorità sanitarie americane hanno ordinato il ritiro dal mercato di centinaia di migliaia di dosi del vaccino contro il virus H1N1, dopo test clinici che ne avrebbero dimostrato la scarsa efficacia nella prevenzione del contagio. Il Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie di Atlanta, l'agenzia del governo americano che coordina l'emergenza influenzale, ha annunciato oggi la decisione. Nel mirino ci sono 800 mila dosi prodotte da Sanofi Pasteur, sotto forma di siringhe già pronte all'uso destinate ad immunizzare bambini tra i 6 mesi e i 3 anni. Non è per il momento chiaro se i bambini cui sia già stato somministrato uno di questi vaccini debbano ripetere il trattamento.”
Adesso però sono altre le notizie di primo piano, le priorità del paese, nella deriva psichiatrica del nostro mainstream quotidiano. Un altro tema poi, uno solo, sempre lui. L’Avanzo di Balera. Stavolta Ferito dinnanzi al Predellino. La santificazione di Berlusconi, in onda 24 ore su 24 da tre giorni su quasi tutti i giornali-radio-tv, ha del surreale prima ancora che del patetico. Sabina Guzzanti dice che non deve succedere “mai più” e che ha provato stima per la sua fierezza, Di Pietro prova a fare il duro e le testate che fino a 15 giorni fa terrorizzavano la gente con gli scenari da tregenda della Maiala adesso gridano all’untore, nemico dello stato, a chiunque non si unisce al solito mantra (rivolto sempre agli altri): “abbassiamo i toni”. Fabrizio Rondolino è stato indicato tra “fans di Tartaglia” dal Corriere della Sera solo perché su Facebook ci ha scherzato su (“Ma quanto verrà a costare il restauro?”).
Non è il solo. Subdoli “untorelli”, portatori di odio e seminatori di zizzania, si annidano a migliaia negli anfratti del Belpaese. Il loro “brodo di coltura”, naturalmente, è la Rete. Gian Antonio Stella, già pop star anti-casta, sul Corriere non ha dubbi: “come ha spiegato Antonio Roversi nel libro «L’odio in Rete», il lato oscuro del web «è popolato da individui e gruppi che, pur nella diversità di accenti e idiomi utilizzati, parlano tutti, salvo qualche rara ma importante eccezione, il linguaggio della violenza, della sopraffazione, dell’annientamento».
Fonti: “Ecco perché le milioni di dosi di vaccino influenzale possono restare negli hangar” di Roberto Volpi dal Foglio “E se il virus fosse solo un raffreddore?” da Repubblica.it “Sabina Guzzanti sul suo blog: «Il premier aggredito? Mai più»” su Corriere.it “Irresponsabilità” di Fabrizio Dondolino su The Front Page “Il lato oscuro della rete” di Gian Antonio Stella su Corriere.it
Tratto dal blog di Aprile: qui. La foto, l'Avanzo di Balera in forma smagliante, l'ho presa qui.
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