1 marzo 2012
DOVE NON OSANO LE AQUILE
 “La nostra Federazione anarchica informale ha aderito alla proposta
degli omologhi greci delle Cellule di cospirazione di fuoco, proposta di
adesione a un network internazionale più agguerrito, che mira a mettere in piedi azioni violente antisistema”. Mettendo da parte il cinismo mentecatto da avvoltoi in astinenza da carcassa di Libero, il quasi-morto della Val di Susa rappresenta di certo un salto di qualità nella decennale battaglia sulla Tav. Non quello paventato da Manganelli, però.
Il cadavere è stato evocato recentemente dal capo della polizia, come esito probabile dell’escalation
di violenza anti-sistema attribuita ai ribelli della Val di Susa,
“terreno storicamente tradizionale di espressioni antagoniste, dove sono
nati e vissuti esponenti di Prima Linea, dove ancora oggi c’è la
presenza piuttosto stabile di personaggi di spicco dell’area anarchica
radicale”. Luca Abbà è in coma farmacologico, dopo aver violato un
traliccio ad alta tensione, buscato la scossa ed essere volato dieci
metri di sotto.
Dalle cronache pare che “uno dei volti più noti del movimento No-Tav”
sia in effetti un anarchico. Originario di Cels, una frazione di
Exilles, Abbà dieci anni fa è tornato a vivere nella casa di suo padre e
dei suoi nonni e a coltivare la terra. L’ha fatto anche Giovanni Lindo
Ferretti, leader dei CCCP, poi CSI, poi PGR, che è rientrato nella casa
di famiglia, in un minuscolo paesino dell’Appennino, per poi divenire
seguace di Giuliano Ferrara e della musica sacra, confermandosi così
come l’ultimo vero punk ancora in attività.
Forse anche l’autore di “produci-consuma-crepa” tornerebbe un po’
anarchico, se le ruspe dell’ “atea-mistica-meccanica-macchina
automatica-no anima” minacciassero di buttargli giù la casa. Luca Abbà
si è comprato un pezzo di terra che, in queste ore, gli emissari del
“sogno tecnologico bolscevico” stanno procedendo a espropriare, in
quanto area d’interesse strategico nazionale. Esticazzi se, come sostengono gli avvocati del legal team
“Ltf si è presentata nuovamente soltanto con un’ordinanza prefettizia,
in palese violazione dell’articolo 2 del Testo unico di Pubblica
sicurezza, che prescrive quella procedura soltanto in casi di estrema
urgenza, che qui non vi sono”.
Manganelli ha già chiarito che gli oppositori dell’interesse
strategico nazionale rappresentano una minaccia alla sicurezza
nazionale, Tav o non Tav. Per cui “serve una nuova figura normativa,
diversa dall’associazione e dalla banda armata, per perseguire
un’associazione speciale, a metà tra l’organizzazione strutturata e
l’organizzazione che ti rende forte in quanto appartieni ad esse ma non
vieta di fare qualcosa da soli”. Definizione assai vaga e sinistramente
vasta, a occhio.
Gli anarchici di Manganelli, che con una busta paga da
oltre 620.000 euro annui s’immagina abbia bisogno di mostrare grinta a
poliziotti tra i meno pagati d’Occidente, sarebbero dunque l’ennesima
puntata delle emergenze italiane. Dopo i terroristi, i mafiosi, i
pedofili, i razzisti, i partiti politici che hanno fatto la
Costituzione, il pendolo della concezione strategica nazionale vira verso i sempiterni anarco-insurrezionalisti, in procinto di fondare il network del terrore in combutta coi greci di Exarchia.
C’è della paradossale onestà nella visione lucidamente leviatanica di
Manganelli, perché la rabbia e la repulsa sociale e politica è come un
virus in grado di infettare le piazze di mezzo mondo, anche senza
bisogno di grandi vecchi e internazionali del terrore. Quello che è
successo nel Maghreb, che accade tutti i giorni in Siria, la rivolta
afghana, sono segnali che il mondo stesso è una polveriera pronta a
esplodere in ogni momento, quando salta il patto di convivenza e il
gioco non vale più la candela.
Se vogliono (r)esistere, gli stati bisogna che siano in grado di
convincere, o almeno di parlare con tutti i Luca Abbà, prima di
espropriarne la terra. Non siamo nell’Ottocento e non c’è da costruire
la ferrovia per la nuova frontiera e manco nel Novecento, con l’Autosole
da tirar su. Il mondo del martello pneumatico è in crisi – economica,
ambientale, politica, sociale, culturale – e non produce più ricchezza,
benessere, speranza. Dunque la propria terra è una buona ragione per
combattere e magari pure per morire.
Ci si attenderebbe, quantomeno, il pudore del dubbio, la dignità del forse e invece ogni volta che viene bollata un’idea strategica nazionale (con
connessa emergenza da normare con urgenza) si alzano le baionette come
ai tempi di Peppone e Don Camillo. Se poi c’è di mezzo pure l’Europa
tutti smettono di pensare del tutto. Invece ci sarebbe bisogno di
sinapsi in movimento, per evitare che la profezia punk di tutti i Lindo Ferretti, solitamente senza figli, si avveri. E che il futuro vada definitivamente a farsi fottere.
L'articolo (con foto) è stato pubblicato su The FrontPage.
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17 gennaio 2011
I VICINI TUNISINI
 Con un copione ormai collaudato, piazza e
Rete si sono rivoltate insieme alla Tunisia di Ben Alì, della sua
potentissima moglie e del clan a lei affiliato. La novità è che questa
volta hanno vinto e il presidente è fuggito in Arabia Saudita (la
destinazione di una fuga di solito racconta molto del profilo del
fuggiasco). Adesso è l’ora dei saccheggi
alla ville del potere, delle rivolte (con stragi) nelle carceri, della
ribalderia proletaria su cui tramestano le grandi manovre degli
aspiranti timonieri.
Ma prima, durante la “rivolta del pane”, erano stati i
bloggers tunisini a raccontare al mondo la situazione del paese.
Facebook, Twitter, YouTube e migliaia di blog hanno offerto al mondo un
aggiornamento costante sul mese di rivolta che ha cambiato la storia
della Tunisia. I video degli scontri e delle manifestazioni hanno fatto
il giro del pianeta e nonostante il governo abbia minacciato
l’oscuramento dei siti, alla fine è stata la Rete a vincere e a
spalancare la piazza agli insorti.
O forse ha perso la debolezza del potere,
il gigante coi piedi d’argilla che dopo tante energie dedicate ad
accumulare roba si è dimostrato impotente di fronte a una realtà di
disoccupazione, aumento dei prezzi e corruzione dilagante, denunciata
sul web da gruppi come Nawaat. In Tunisia il 54,3%
dei cittadini del paese ha meno di trent’anni e, grazie alla
scolarizzazione partita dopo l’indipendenza del 1956, un giovane
tunisino medio ha almeno una decina d’anni di scuola alle spalle. Il
numero degli iscritti all’università aumenta in modo esponenziale ma il
mercato del lavoro non dà sbocchi.
Dopo l’Iran, gli anarchici dell’Exarchia di Atene, gli studenti di Londra e Roma, gli immigrati di terza generazione delle banlieues
parigine, sono i giovani tunisini oggi a sfidare il potere costituito.
Colpisce l’analogia di fondo di tanta rabbia: la percezione che il no future,
metafora punk lirizzante di fine anni ’70, sia alla fine divenuta
realtà. Il terrore generazionale del domani, la percezione che l’oggi
sia una truffa, un bluff inscenato dai parrucconi di turno per
non mollare la poltrona, ogni tanto esplode in una fiammata di rivolta
che non ha niente a che spartire con gli indottrinati movimenti degli
anni Sessanta-Settanta. Destra e sinistra servono a poco per spiegare la
paura del nulla.
La foto è tratta dal sito di Nawaat. L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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