5 marzo 2012
DALLA'S
“Ho lasciato i pantaloni in un cortile, ho perso anche una mano in un
vicolo, era un pomeriggio di aprile… gli occhi me li ha portati via una
donna grassa a forza di guardarla, le labbra le ho lasciate tutte e due
su un’altra bocca o su una fontana, che a essere prudenti non si tocca,
ma mi brucia come un vecchio fulminante… o muori tu, o muoio io… da
oggi Roma avrà un altro Dio… io me ne vado via… io me ne vado via…”.
La Roma di Lucio Dalla era Bologna. Per quasi tutti gli altri
cantautori che, per una ragione o per l’altra, sono associati alla
città, Bologna è stato un punto di arrivo (Guccini viene da Pavana,
Vasco da Zocca) oltre che un trampolino di lancio, per Dalla no. Era la
grande madre, la lupa, il sacco amniotico (fetale come l’intrico dei
suoi portici millenari) da cui scappare. Gli anni che
“siamo i gatti neri, siamo i pessimisti, siamo i cattivi pensieri, ma
non abbiamo da mangiare” sono gli anni del suo controcanto alla Bologna
paciosa, che si risveglia nel ’77 col morto per strada e i carri armati
in Piazza Verdi.
Certo,
“il cucciolo Alfredo avvilito, impaurito, con i denti da lupo tradito
si ferma un attimo e poi sale… si tratta di un giovane autobus
dall’aspetto sociale a biglietto gratuito, regalo di un’amministrazione
niente male…”. Ma poi “…nemmeno Natale è una sera normale, la gente con
gli occhi per terra prepara la guerra… c’è guerra nei viali del centro,
dove anche il vento è diverso, son diversi gli odori per uno che viene
da fuori…”. Bologna, Dalla l’ha raccontata da dentro perché l’ha vissuta
dal principio, da quando, da ragazzo, si aggirava davanti a San Petronio “per sentire gli odori dei mangiari e i discorsi della gente”.
Erano gli anni del jazz. Mio padre, che bazzicava una delle cantine
in cui si suonava (“quando non c’era qualcuno che aveva trovato da far
bene e si era chiuso dentro”), mi ha raccontato che Dalla spesso
s’imbucava e cominciava a strimpellare tutti gli strumenti con febbrile
talento (dopodiché veniva regolarmente cacciato, “andava per i cazzi
suoi, poi era più piccolo”). Erano gli anni della rinascita della città
di Dozza, dopo il fascismo e la guerra partigiana, della Bologna della
festa della matricola, delle Balle dei goliardi, in cui ci si
mangiava una lasagna alle quattro del mattino, da Lamma, e poteva
capitarti di andare a prendere Louis Armstrong alla stazione, con la
banda, e vedergli tirar fuori la tromba in mezzo al piazzale e
rispondere a tono.
Lo show sulla morte di Dalla sui media è diventato uno show sulla
Bologna dei giorni nostri, com’era inevitabile, con tutta la
stucchevolezza retorica del caso. I politici tutti in fila a smazzare
agenzie di stampa per uno che
“lo sa che al suo funerale ci saranno e diranno: è stata la colonna
sonora della nostra vita?” aveva sghignazzato ”una buona ragione per non
morire”. Di qui forse la paranoia della Cei di vietare
le sue canzoni al funerale, celebrato il giorno della sua nascita,
oltre che titolo di uno dei suoi pezzi più celebri e celebrati (4/3/1943).
È ovviamente una cazzata perché è vero che i bolognesi farebbero volentieri a meno della soap in
rampa di lancio (sabato al bar mi ha assalito un servizio di Studio
Aperto sul giallo del testamento e ho capito che ci siamo), ma la musica
non c’entra. Io non l’ho mai conosciuto, ma davvero
“sembra che Dalla avesse già pensato a tutto, immaginato tutto, cantato
tutto, perfino il momento preciso in cui si sarebbe girato e via.” Le
sue parole, ora che se n’è andato in fretta e furia senza darmi il tempo
di stufarmi, ci assalgono tutte insieme e attivano sinapsi di ricordi
ed emozioni di cui non avevamo memoria.
Dio, il messaggio, è musica per chi ha la fede: un insieme di suoni
che creano un’armonia. Nei tempi passati i cattolici erano più svegli.
Quando hanno inventato le campane, ad esempio, si sono assicurati per
secoli il dominio del tempo e tuttora se la giocano con sveglie,
cellulari, orologi e suonerie. Con i canti gregoriani si sono prodotti
in un esercizio di matematica sacra di rara abilità, del tutto simile
all’om, campionando a tonalità esponenziale la frequenza del delfino.
Oggi la musica di Dalla, poeta e credente nella Bologna “sazia e
disperata”, la tengono fuori dalla chiesa.
Le persone normali, invece, celebrano proprio quella, la musica. Su
Facebook un amico taxista, bolognese, mi ha chiesto se poteva prendere
in prestito una mia citazione di Treno a vela
– “Quanto costa una mela? Costa un sacco di botte! Se mi faccio
picchiare un pochino la darebbe al bambino…?” – perché “cazzo l’ho
ascoltata troppe volte”. Un altro, napoletano, invece mi ha scritto che
“c’era una sua canzone, che una volta mi facesti sentire nella tua
macchina, ma di cui non ricordo il titolo, che definisti “il comunismo”…
la trovi?”. È quella con cui ho aperto l’articolo, e finisce così:
“… Dove chiudendo gli occhi senti i cani abbaiare, dove se apri le
orecchie non le chiudi dalla rabbia e lo spavento ma ragioni giusto
seguendo il volo degli uccelli e il loro ritmo lento… dove puoi trovare
un Dio nelle mani di un uomo che lavora e puoi rinunciare a una gioia
per una sottile tenerezza, dove puoi nascere e morire con l’odore della
neve… dove paga il giusto chi mangia, chi beve e fa l’amore… dove, per
Dio, la giornata è ancora fatta di ventiquattr’ore e puoi uccidere il
tuo passato col Dio che ti ha creato, guardando con durezza il loro
viso, con la forza di un pugno chiuso e di un sorriso e correre insieme
agli altri ad incontrare il tuo futuro… che oggi è proprio tuo e non
andar più via…”.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. "E non andar più via" l'ho presa qui.
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