<%if foto<>"0" then%>
|
|
|
 VOTO Per il partito del diavolo. Quello dei mercanti, delle mignotte, dei preventivi.
Che ha inventato il marketing e gli hippie. Principio vitale e creatore, maschio, della contemporaneità. Ora, però, sta perdendo dei colpi. Martiri e beghini non fanno altro che strillare di valori e verità. Tutte balle per il vecchio tiranno, avvezzo alla ruvida legge del business e a quella melliflua del piacere. Parole incomprensibili, sparate in tutto il mondo dalla comunicazione.
Il re si era illuso. Per anni aveva dimenticato: non era solo al suo arrivo. La comunicazione era sempre stata lì. Creatrice, femmina, dell’umanità. Il vecchio aveva creduto di dominarla e in effetti per lungo tempo era andata così. Non aveva più memoria di essere anch'egli una sua creazione. Una funzione. Lei poi se ne stava in un angolo. Zitta e buona, casa e bottega.
Non aveva fatto una piega neanche quando le aveva portato a casa la tecnologia. L'arrivo della nuova amichetta sembrava non turbarla. Anzi: assecondava di buona lena ogni morbosità del veccho pervertito. Poi ci ha preso gusto e ha cominciato a giocare per sé. La nuova non le dispiaceva affatto, era una complice ideale. Efficiente, assecondava ogni voglia con pruriginosa meticolosità. E aumentava sempre la posta.
Dominata e dominatrice, allora, si sono messe a giocare insieme. Proprio sotto gli occhi del re, che non vedeva e si compiaceva: la partita era sempre più eccitante. Ma gli sguardi tradivano e il vecchio era costretto a rincorrere. Sempre più spesso non capiva e passava in rassegna prima l'una poi l’altra, a ripetizione, per afferrare qualcosa. La bocca spalancata.
Loro lo tranquillizzavano, gli facevano le coccole e lo mettevano a dormire. Era stato un re glorioso e non si meritava uno scherno manifesto. Dentro di loro, però, sapevano già come sarebbe finita.
 |
|
|
|
13 aprile 2013
B COME BALLE
“Non ti
ho tradito. Dico sul serio. Ero… rimasto senza benzina. Avevo una gomma a
terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva
portato il tight. C’era il funerale di mia madre! Era crollata la casa!
C’è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è
stata colpa mia! Lo giuro su Dio!”
Chissà perché ma quando mi è capitato per le mani il volantino del Comitato “B come Bologna”, ribattezzato “B come Bambini” dal sindaco Merola con la grazia di una bombarda, mi è venuto in mente John Belushi.
Sporco fino agli occhi, nella fogna, che si butta in ginocchio ai piedi
della sua ex promessa sposa che ha mollato sull’altare (l’indimenticata
Principessa Layla di Guerre Stellari).
“Se voti
A: verrà abolito il contributo economico alle scuole paritarie
convenzionate, circa 600€ a bambino all’anno… I gestori saranno
costretti ad aumentare la retta annuale di almeno 600€… Questo
provocherà un significativo calo degli iscritti, oltre 400 famiglie, da
subito, abbandoneranno le scuole “paritarie non più convenzionate” e
andranno ad infoltire le liste d’attesa delle scuole comunali e statali.
Con i soldi non dati alle scuole convenzionate il Comune non sarà
assolutamente in grado di dare un posto a tutti…”
Esticazzi
se è un referendum consultivo. Il Pd di Bologna da qui al 26 di maggio
pare non abbia di meglio da fare che andarsene in giro per circoli e
periferie a tentare di convincere operai, casalinghe, pensionati, ex
partigiani, studenti, volontari delle Feste dell’Unità e delle Case del
Popolo, gente che ne ha mandate giù parecchie anche qui ultimamente, che
si, alla fine dei conti, sborsare un milione di euro all’anno alle
scuole private è cosa buona, giusta e inevitabile. Sennò arrivano le
cavallette.
E pace se
c’è la crisi, le scuole pubbliche cadono a pezzi, le liste d’attesa ci
sono lo stesso e il milioncino viene gestito ogni anno in toto dalla
misteriosa Federazione Italiana Scuole Materne, che dietro l’asettico
acronimo FISM
è una roba così: “Oltre le necessarie qualità professionali esigite
dalle leggi civili, l’insegnante dovrà: a) possedere una solida
conoscenza della visione cristiana dell’uomo e della dottrina della
fede; b) accogliere con docile ossequio dell’intelligenza e della
volontà l’insegnamento del Magistero della Chiesa; c) vivere
un’esemplare vita cristiana”.
Pazienza,
pure, se 250 euro e passa al mese di retta (in media) non sono
esattamente a buon mercato: più del doppio della scuola pubblica (dove
si pagano solo i pasti). Il gioco deve valere così tanto la candela da
piazzarci il marchietto del Comune (cosa, credo, senza precedenti) sul
sito internet del comitato “B come Bologna” contrapposto a quello dei
cittadini, “Articolo 33”.
Avanti coi carri, dunque, ora che l’unico cavallo rimasto in pista si
chiama Matteo Renzi, è cattolico, e il suo (ex?) spin doctor pare abbia
preso a cuore la madre di tutte le battaglie di ogni Don Camillo.
Eppure di questi tempi
andare a raccontarla ai propri elettori, sempre più sinistramente
simili all’ex fidanzata di Jake Blues, ci vuole un gran bel fegato.
Anche perché c’è la possibilità che molti di loro si siano trovati, come
me, ad avere a che fare con qualcuna di queste scuole paritarie che,
figurarsi, di certo ce n’è delle bellissime. In quella a cinque minuti a
piedi da casa mia però, nella Romagna profonda, fanno pregare i bimbi
di tre anni due volte al giorno e dentro sembra di stare al mausoleo.
Dal sito
Internet abbiamo pure scoperto che, a parità di punteggio, entrano “i
figli o nipoti in linea retta di soci dell’Asilo”. Lo dice il regolamento, non il gossip di paese, c’è da fidarsi. Beccano anche un sacco di soldi
da tutti, Comune, Provincia, Regione, la retta è il triplo di quanto
spendiamo alla statale (dove con quattro soldi si sbattono per mettere
in piedi una didattica ricca e creativa), ma in compenso è pieno di
bagni. Mai visto tante Madonne, santi e cessi tutti in fila: non meno di
un water ogni tre fanciulli.
E mentre
mi rigiravo per le mani “B come Bologna, più scuole per tutti”,
rimuginavo sul rinnovato matrimonio tra il Pd cittadino, la curia, il
baronato e tutti i presunti poteri forti, coronato da due ali di
battimani sincronizzati di Pdl, Lega e Udc. Proprio mentre l’esploratore
Bersani si faceva infilzare come un tordo da Grillo e pur di evitare
l’abbraccio con l’Impresentabile si lasciava corcare in streaming senza
pietà.
In quel
preciso momento il Pd di Bologna ha deciso, a freddo, di tirarsi
un’atomica a sinistra lasciando da lì in avanti una prateria al
Movimento 5 Stelle, che infatti ha già cominciato
a fare quello che gli viene meglio: mettere il cappello sullo
sbattimento di movimenti e associazioni assortiti. Per poi oscurarli (di
solito son litigiosi e disorganizzati, si squagliano in fretta) e
trasformare il conflitto in voti. Che si tengono tutti per loro.
Bologna,
in fin dei conti, è sempre stata un laboratorio politico per la
sinistra. Perché non dovrebbe esserlo pure nell’ora dell’estremo trash?
Quindi delle due una: o Bersani bluffa e la via crucis con Grillo è
stata una tragicomica gag alla Crozza, buona per andare a veder le carte
del compare astrologico e tentar poi insieme l’omicidio bipartisan di Renzi. Oppure no: in entrambi i casi al Pd tira aria di estinzione. E dare in pasto la scuola pubblica non li salverà. Né dagli altri né, soprattutto, da sé stessi.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. "Mi sono rotto il cazzo" degli Stato Sociale è qui.
|
15 marzo 2013
ANTIVIRUS
“Più di così divertirti non puoi… amico sì, sei in alto e lo sai.
Rose su rose, tutti premi per te, non aver dubbi sei un re. Complicità,
quanta gente con te… continuerà fino a quando vorrai. Rose su rose,
ricchi premi e cotillons e non frenare, questo no. Ma no che la vita non
è qui, è più in alto di così ah, cosa dici, sì… ma no, di passato non
ne hai, di futuro non ne vuoi, ma di che mondo sei? Guarda più in là,
quanti amori non hai… amico sì, stare senza non puoi. Rose su rose e con
loro appassirai, resterai solo coi tuoi guai…”
Non so perché, ma quando ho letto la fucilata di Grillo al povero
Bersani (“Se il M5S vota la fiducia lascio la politica”), m’è venuta in
mente Rose su rose. Temo ci sia di mezzo un’altra volta la polizia del karma
e la sua, nota, ineluttabilità. Mina è una gran donna dotata, tra
l’altro, di un’esibizionistica misantropia che mantiene inalterato il
suo appeal. Appena l’irredento Beppe s’è tuffato fra Scilla e Cariddi,
qualche mese addietro all’inizio dello tsunami, lei l’ha letteralmente
frustato sulle chiappe.
“È vero, c’è qualcosa che fai esattamente come Mussolini, come
Stalin, come Mao, come Giannini ed è bere, dormire, mangiare e, orrore,
fare la cacca. Vorrei già richiudere l’oblo e impegnarmi a emulsionare
una buona maionese con le uova fresche, quelle dei giornali
precedentemente citati, appunto. Sarà meglio. Mi concedo solo un piccolo
momento per un’incazzatura. Che bassezza, la povertà di questa
iconografia da strapazzo. Le similitudini per la tua antidemocraticità,
per il tuo qualunquismo, per la tua voglia di reclamizzarti sono pezzi
disordinati di ineleganza, al limite del ridicolo. O della querela. Ne
vedremo delle belle, temo. Tu va’, dritto come un fuso. Corri Forrest,
corri…”.
Giddap! Nessuno però, neanche Mina credo, immaginava che Forrest Grillo arrivasse
al traguardo così primo, benché terzo, e così in fretta. Né che gli
altri fossero già così spompati: il primo troppo rintronato dal gong del
voto e dalle sue temibili ripercussioni
sui prossimi rintocchi di potere nel fortilizio rosso e il secondo
completamente a pelle di leopardo nel tentativo di evitare sbarre, gogna
e/o fuga. B&B, nati sotto il segno della Vergine, destinati a
salvarsi o suicidarsi. Sempre insieme.
“Più di così divertirti non puoi, amico si sei in alto e lo sai”, non
c’è ombra di dubbio. Ma quando arriva Bersani col cappello in mano, con
proposte che messe in fila (una volta riacciuffate all’italiano
corrente) fanno impallidire anche il girotondino più canuto e accanito,
siamo sicuri che sia saggio concedere l’ennesimo bis del celebre mantra
che l’ha coperto di “rose su rose”? Poi, certo, “tutti premi per te, non
aver dubbi sei un re”…
Sfanculare chi sta schiantando trent’anni di carriera politica e si
prende giornalmente sputi in faccia dagli altri e calci negli stinchi
dai suoi, per governare col M5S costi quel che costi: pagherà? Quando
mai Grillo, 100% a parte, si troverà più in una tale condizione, anche
psicologica, di forza? E mentre ballano i ballerini, tutta la notte e al
mattino, la nave Italia corre verso l’iceberg col 55% della gente che
ha problemi economici e cinque imprese su sei che temono di chiudere
bottega entro fine anno.
La verità è che dopo tanto pontificare di ‘democrazia della rete’,
nel momento esatto in cui Grillo ha risposto picche a chi gli chiedeva
di fare un referendum online per decidere se fare o no il governo con
Bersani (“perché il non-statuto non lo prevede”) è entrato nel Palazzo.
Membro onorario di quella partitocrazia che non prenderà la puzzolente
pecunia romana, visto che restituisce i rimborsi elettorali, ma che
mette l’interesse del suo non-partito davanti a quello dell’Italia.
Per sua fortuna la cresta dell’onda è ancora alta sull’orizzonte dei
sondaggi e degli umori nazionali, al solito creativi. “Alle ultime
elezioni ho votato per qualcuno che non mi piace! Voglio vedere il mio
Paese risplendere e non mi rassegno alla mediocrità della nostra classe
politica, sono un patriota, amo l’Italia”. Ha spiegato, serio, Lapo Elkann a Le Monde, dichiarandosi per il partito di un signore che sostiene, tra l’altro, il raddoppio del prezzo della benzina come eco-terapia d’urto.
Ma, a parte patetici appelli e sondaggi sfornati caldi dai soliti
noti (che proprio non ci stanno dentro), è ovvio che la baracca Italia
ha bisogno di essere governata, anche se fino a quando il precipizio non si profila nitido ognuno
ha una ragionevole quanto bizzarra ragione per pensare che tutto
s’aggiusta sempre. Hai voglia allora a strillare all’inciucio, se pure i
sassi capiscono che anche solo per tornare alle urne c’è bisogno di una
legge elettorale votata da una maggioranza parlamentare.
Così mentre Forrest e Merlino traccheggiano, fra pre-tattica e
terrore, l’ottimismo della ragione consente di scorgere, nelle bizze da
asilo del Pd, un sapiente gioco delle parti. Il segretario uscente e
perdente s’immola nella definitiva parte del vecchio di nobili principi e
riprende a farsi contestare dalla giovane speranza (ultima), che vuole
abolire il finanziamento pubblico ai partiti per “far pace con
l’Italia”.
Sarebbe un bel casino, infatti, se Renzi venisse acclamato dal
politburo a suon di battimani brezneviani. Invece è solo, come prima, e
fuori dal Palazzo. A differenza di Grillo, che c’è dentro fino al collo e
a ogni fanculo, a ogni aut aut, a ogni patetico appello
stracciato, a ogni azienda che chiude, rafforza l’Antivirus che lo
resetterà. Di qui alle prossime, imminenti, elezioni non ci sono solo i
suoi otto milioni e passa di voti, ma pure i quasi dieci di Berlusconi e
compagnia. E sono tutti uguali.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
4 marzo 2013
PRIMA DELL'ESTINZIONE
 Una decina di giorni prima del 25 febbraio 2013, dopo che una pioggia
di meteoriti aveva provocato esplosioni nel cielo degli Urali, un
asteroide di centotrentacinquemila tonnellate e quarantacinque metri di
diametro era sfrecciato a circa ventisettemila chilometri dalla Terra,
alle 20 e 25, ora italiana. Senza apocalissi
di sorta. Anche i più tenaci apologeti dell’Armageddon Maya ritardato
si erano dovuti arrendere alla noiosa evidenza della persistente
sopravvivenza della, cocciuta, specie umana.
Dopo dieci giorni, più o meno alla stessa ora, era ormai chiaro che
in Italia il Maya di turno non era nato tra le nebbie della bassa padana
di Bettola. Di lì a qualche ora l’inviato di Porta a Porta,
imbalsamato nel suo piumotto circonfuso dalle luci di scena e dalla
spettrale quiete residenziale promanante dalla villa del timoniere di
Sant’Ilario, avrebbe spalancato le braccia e il sorriso, disarmante e
disarmato: “non abbiamo contatti con Beppe Grillo, né col suo staff… di
nessun tipo”.
“Gli alieni sono invece introvabili, non sai con chi parlare, sono
inafferrabili, interlocutori politici potenziali e media sono alla
stessa stregua tenuti fuori dalla porta, anzi non c’è la porta, non si
sa dove stanno e che fanno, vai fuori dalla casa di Grillo a Genova o
vai a Bologna dove c’è un’esperienza in Comune o cerchi disperatamente
di vedere se c’è un modello siciliano di omologazione, chissà, non hanno
l’etichetta al citofono, vogliono fare le sentinelle della rete dentro
le istituzioni, la delega ai capi è assoluta, nessuno si sente
autorizzato nemmeno a fingere di avere una opinione per sé, spendibile
politicamente, comunicabile senza passare per l’imbuto del web
controllato dal blogger.”
E pouf. Passa una settimana e l’Italia è Mars Attacks. Alieni, setta, strategia diversiva di matrice neoliberista
o forza di occupazione che dir si voglia: fatto sta che la prima parte
del tanto sbandierato piano di Grillo&Casaleggio è andato
magicamente in porto e l’Italia, le istituzioni repubblicane e tutta la
baracca sono in ostaggio. Dopo anni passati a far le prove,
scimmiottando le Br prima (sul blog venivano pubblicati i “comunicati
politici” con un font tipo ciclostile anni ’70) e scippando poi senza
vergogna Alan Moore, Anonymous e il movimento antagonista dell’icona di Guy Fawkes.
Appena si aprono le urne, come per magia, alcuni dei protagonisti
della storia della Repubblica recente e meno recente non esistono più.
La polizia del karma inghiotte subito Fini, Di Pietro, i comunisti e i
verdi di ogni ordine e grado (già semi-morti), Ingroia, ma anche Casini e
Monti scompaiono presto dai radar delle agenzie dopo le prime,
pallidissime, dichiarazioni di rito. Come previsto dal Piano di
Occupazione Stellare del Nexus 7 con gli occhialoni, rimangono in piedi
solo l’uomo di Bettola e quello di Arcore, nati sotto il segno della
Vergine. Lo stesso giorno.
Vendola, come da programma, comincia a sbarellare e attacca a dare
segni di diserzione ad appena ventiquattrore dalla chiusura dei seggi.
Aveva impiegato fior fior di sonetti e narrazioni per spiegare al popolo
della sinistra e ai fratelli dei media di volta in volta convenuti che
Grillo era un fascista della peggior risma, populista e maschilista
becero, gemello del Berlusca brutto e cattivo, e ora la stessa passione
gli sgorga con medesima ispirata naturalezza per sostenere l’esatto
contrario. Naturalmente ha buon gioco, il timoniere, a prenderlo per il culo senza troppi complimenti.
“Vendola si è ingrillato all’improvviso dopo le elezioni. Si è
vestito di nuovo come le brocche dei biancospini. Sembra un’altra
persona. Ha un rinnovato linguaggio, comunque sempre variegato, e
adopera inusitate e pittoresche proposizioni verso il M5S. Vendola ci
ama: “Grillo non è un fantasma per il quale bisogna convocare
l’esorcista, è un nostro interlocutore”. È lo stesso Vendola che il 20
febbraio 2013, a tre giorni dall’appuntamento elettorale, su La 7
spiegava: “Grillo è un populista di piazza. Grillo è il virtuoso della
demolizione ma chi ricostruirà il Paese? Grillo è un’evoluzione di
Berlusconi.”
Tra l’altro probabilmente è vero. Grillo è un’evoluzione di
Berlusconi tanto quanto il MoVimento a 5 Stelle è un upload di Forza
Italia del 1994. Quello era un partito-azienda e questo sembra assomigliarci parecchio, il timoniere è il leader carismatico assoluto tanto quanto (e forse ancor di più) il Cavaliere Nero
dell’epoca. Casaleggio-Stranamore, poi, è molto più affascinante di
Dell’Utri, anche se con l’ex braccio destro di Berlusconi condivide la
passione bruciante per le cavalcate culturali d’annata.
Dice bene Ferrara: “il punto è che i grillini, nel bene e nel male,
perché questa è la loro novità e la loro forza oltre che la loro
controversa ambiguità, non sono un partito di plastica come fu Forza
Italia, magari, e non sono un partito di terra e sangue come fu la Lega
nord, magari. Non sono proprio, i grillini, un partito o un movimento
materiale, che abbia luoghi di formazione comprensibili e solidi, radici
culturali, un legame anche labile con una tradizione, magari da
ribaltare. Sono leggeri come ultracorpi, body snatchers, invadono lo
spazio pubblico clonandosi e moltiplicandosi con il consenso elettorale
legittimo, ma lasciandosi alle spalle piazze, polmoni e comizi che non
esprimono la loro autentica identità istituzionale, il loro carattere
come soggetto politico, ormai delegato a un esercito di piccole figure
scelte da piccole folle mediatiche sotto la occhiuta sorveglianza di una
società di marketing, la Casaleggio & Associati.”
Sono tutto e niente, festeggiati nell’ultima novecentesca orgia un
po’ lugubre da Dario Fo ed Ernesto Galli Della Loggia, Leonardo Del
Vecchio e “Bifo” (leader del ’77 bolognese), Celentano e Goldman Sachs.
All together. E blanditi e corteggiati, a suon di minacce spuntate e
lusinghe idiote quanto inutili, dall’agonizzante non-vincitore delle
elezioni. Lo scouting dei grillini è una sonora stronzata che permette
al timoniere di gridare al mercato delle vacche, il giorno della
richiesta di quattro anni di carcere a Berlusconi per la presunta
compravendita di senatore.
Dopo aver sbagliato tutto quello che c’era da sbagliare, dalle
primarie blindate agli italiani ai giaguari sul tetto, a quel che resta
del più grande partito della sinistra italiana rimane uno spazio di
manovra molto limitato, ma decisivo. Essersi chiusi nella ridotta di un
piccolo mondo antico immaginario, tra giovani-vecchi spartani
molestatori di blogger e funzionari decrepiti che non rispondono a nulla
se non a patetiche e suicide logiche di corrente, ha impedito sinora di
mostrare al Pd la reale posta in gioco.
Il dopobomba ha l’innegabile vantaggio della nitidezza. E mentre il
duo di Weimar gioca al Joker di Batman e soffia sul caos, aspettando
l’ultimo rantolo di un sistema irriformabile per clonare definitivamente
le istituzioni repubblicane in un software eterodiretto da una
maggioranza di byte “eletti solo dalla Rete”, la gente in carne ed ossa
comincerà presto a farsela sotto. Grillo ha scritto che di qui a sei
mesi non ci saranno più i soldi per pagare pensioni e stipendi:
significa che prevede che in sei mesi salti il banco.
Questo è, ragionevolmente, l’intervallo di tempo rimasto per far
saltare il banco a loro. La seconda parte del geniale piano del
timoniere e del guru capelluto prevede, dopo il blocco della democrazia
repubblicana, il filotto. Si torna a votare, sbaragliano tutti e inizia Brazil.
Per questo sono e saranno indisponibili a qualunque alleanza di
governo, di qualunque genere, con qualunque programma. In questo sta
l’evoluzione, l’upload, rispetto a Forza Italia: nella natura
intrinsecamente totalitaria del loro movimento.
Ma c’è un ma, anche se tenue. La politica: qualcuno è in grado di
portare in Parlamento alcune leggi (poche, radicali e in fretta) che
rispondono all’incazzatura popolare e, rompendo l’incantesimo, mostrano
che si può fare. L’aula sorda e grigia può riformare sé stessa e allora,
si, Grillo potrà serenamente essere mandato affanculo dagli elettori.
Che notoriamente non votano mai per gratitudine.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
29 gennaio 2013
BERSANOIDI ALLA CONQUISTA DEL WEB
 “Uè ragassi, me l’avete menata su tutto il tempo con l’ambaradan
delle Frattocchie 2.0 e sta roba dei 300coslani lì, spartani (che a me
sinceramente stavano anche sulle balle) e poi diobono voi mi mettete su
una cosa vecchia come il cucco, che sembrate quelli che si organizzavano
e partivano in motoretta per andare a fischiare il comizio di quello o
di quell’altro a Porretta Terme e che poi una volta tornati al bar
facevano gli sboroni e si davano di gomito. Tuitter? I socialnetuork? La
campagna vi ci vuole a voi diobono!”
Il commento di Lorenzo riassume alla perfezione il fastidio
epidermico, ben comprensibile per chi ha avuto a che fare coi ciellini
melliflui e implacabili dell’università, che attanaglia dopo un breve
giro nel blog di Mantellini. Dopo aver osato postare il video di Bersani
in macchina che ascolta l’ultimo (inascoltabile) singolo di Vasco
intento a fumare il fido sigaro, titolando “votereste alle elezioni per
uno così?”, lo sdegno organizzato e militante è montato in poche ore.
Di questi tempi elettorali spesso, quando ci si inoltra su Facebook,
Twitter o in qualche blog, capita (è capitato spesso in questi giorni a
diverse persone digitalmente attive) di ritrovarsi sostenitori di questo
o quell’altro politicante candidato, di doversi sorbire una montagna di
inviti, spam, propaganda. Questo è diverso, questa è Sparta (direbbero
loro). Stiamo parlando infatti della war room del Pd, l’unità di guerra elettorale digitale ribattezzata (con sprezzo del ridicolo) per l’appunto “trecento spartani”.
Al netto di veline e velini che impazzano in Rete a compitamente
spiegare quanto sia bella, entusiasmante, collettiva e finalmente
giovane la campagna del Pd, è interessante riflettere sull’operazione
che già dal “manifesto” del blog,
davvero spartano, intende mostrare i muscoli, a suon di dotte citazioni
e paroloni complicati. Poi è ovvio che le chiacchiere stanno a zero, al
Pd di web ci capiscono notoriamente poco e non gli è sembrato vero di
lustrare a nuovo le truppe cammellate di figiciotta memoria.
“È utile quindi considerare il web come estensione agentiva della dimensione analogica (E. Colazzo – Caught in a web, in allonsanfan.it)
e pertanto analizzare quello che succede in rete, e in particolare sui
social media, come qualcosa che vada a completare la sfera offline che
ognuno di noi vive ogni giorno e quindi come una latrice di influenza
che può andare a fissarsi su determinati recettori, se efficacemente
stimolati.” In soldoni: una stanza in via del Nazzareno, qualche
stipendio e uno stuolo di bravi compagni in giro per l’Italia pronti a
menar le mani ogni volta che qualche fighetto parla male del capo.
Dopo il raid al blog, una tipa su Facebook ha commentato: “Ma
Mantellini, di preciso, cosa fa nella vita? Il blogger? Mi sa che aveva
ragione sua madre.” Per poi replicarmi trucida, poco prima di togliermi
l’amicizia: “Grazie al Mantellini rosicone gli Spartani sono
raddoppiati…si metterà l’anima in pace prima o poi, che di web non
capisce solo lui.” La chiave di volta per capire tutta questa baldanza
guerresca è forse proprio la sensazione, immagino liberatoria, di
sentirsi per una volta dei nerd, si, ma fighi.
Non più solo i grillini, quelli dei centri sociali, il popolo viola, gli infidi amici di Civati,
ma adesso che “ci capiscono anche loro di web”, quelli del partitone
doc, non ce n’è più per nessuno. E con la tipica tracotanza degli ultimi
arrivati al party internettiano, giù a dare dello snob e del
fighetto-radical-chic a tutti quelli che si permettono di segnalare che
lo spam elettorale, spesso, porta via voti invece che portarne. E che la
reputazione, sulla Rete, è tutto. Anche per i nativi analogici che
hanno deciso il gran passo, salvo poi trasformarsi in Bersanoidi di scarso appeal politico-elettorale (fuori dai confini della loro Sparta immaginaria).
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
19 gennaio 2013
CAYMANISTAN 2 / IL RITORNO
“Diciamo che la politica va vista con attenzione. Ingroia ora è
un’eversione nera che incide nel profondo il movimentismo ormai smarrito
che si definisce di sinistra, ma che poi si innamora di progetti di
ultradestra come Grillo, Ingroia, Di Pietro. Berlusconi è stato comunque
l’ultimo a fare politica estera e per questo l’han fatto fuori. Se non
altro perché i nemici li preferisco davanti piuttosto che di fianco,
butto anche io Ingroia.”
Il mio vecchio compare di occupazione Fabio Zanon, dopo un acceso e
per certi versi tipico dibattito pre-elettorale su Facebook, risponde
così alla questione che avevo posto all’attenzione dei miei amici
virtuali: “Tra Berlusca e Ingroia giù dalla torre ci spedisco Ingroia”.
Zanon conduce in queste ore un’appassionata e incredula campagna, da
sinistra, contro la candidatura del magistrato palermitano.
La sua incredulità si appunta sull’innegabile dato di fatto che il
calderone politico di tutte le sigle, associazioni, movimenti e
collettivi dell’estrema sinistra (Partito Comunista dei Lavoratori
escluso, se non erro) abbia come leader un magistrato, peraltro di nota
propensione “manettara”, accompagnato da due ex colleghi come il
brillante De Magistris e l’ormai spompato Di Pietro (apripista però di
questa sorta di privatizzazione della politica per via giudiziaria).
Ironica sorte, quella dei militanti dei centri sociali, del movimento
No Tav e di tutte le realtà antagoniste per cui, sinora, il magistrato
di turno era stato fondamentalmente stato il capo delle guardie. Quello
che mandava la perquisizione, faceva sequestrare il computer, arrestare i
compagni di lotta. Ora legalità e questione morale (“intrinsecamente
reazionaria” secondo un altro commentatore su Facebook), diventano erga
omnes il mito fondativo della nuova rivoluzione civile e tengono in
scacco gli altri. “Un po’ come se la Juve entrasse in campo dichiarando:
il nostro obiettivo è rispettare il regolamento”. Sintetizza
efficacemente Zanon.
Spostandosi un po’ a destra, poi, non è che il panorama si rallegri
più di tanto. “Benvenuta Sinistra” ricorda con vago struggimento
“Maledetta Primavera” e i sondaggi consegnano
un poeta pugliese sembra sempre più sfiatato, un po’ dalla competition
col magistrato (che si dichiara gagliardamente pronto a ritornarsene in Guatemala,
dovesse girar male) e un po’ dall’inevitabile abbraccio mortale con la
logica di governo (logica a cui peraltro è ben rodato), fatta più di
compromessi e mezze sconfitte che di narrazioni ispirate.
“Il logo di Monti sarebbe perfetto come nuovo logo del Club Alpino
Italiano, è tristissimo, quasi da pompe funebri e con un font vagamente
fascistoide”. “Scelta civica: con Merkel per l’Italia” è senz’altro il fake
più riuscito del nuovo logo del ressemblement centrista che fa capo a
Monti. Che non è brutto, come dice Toscani, se la pubblicità dev’essere
un modo per rappresentare con efficacia il prodotto.
Perché questo è il prodotto. Ormai a seguire anche distrattamente le
cronache, pare evidente che definire elitario o tecnocratico l’approccio
alla politica di Monti sia piuttosto generico e per certi versi
fuorviante. Il premier si comporta, agisce e interagisce come se fosse
né più né meno, tipo, che il responsabile risorse umane per l’Europa del
Sud della Goldman Sachs o di una Spectre qualsiasi e gli fosse toccata
in sorte la rogna di raddrizzare, secondo logiche aziendali immote e
immutabili, la guappa Italia.
Intanto, nei duri fatti, la gente comincia a toccare con mano quanto e
cosa significa la “cura Monti”. Non solo per una questione di
quattrini, che sono più che sacrosanti sia chiaro, ma in termini di
concezione della vita in comunità. Di spazi di libertà e responsabilità.
Il nuovo redditometro, che inverte l’onere della prova tra Stato e
individuo in materia fiscale, rappresenta assai bene la destinazione
poliziesca a cui conduce il carro funebre dell’austerity montiana.
Gli alleati inevitabili, apparentati coi fratellini di sinistra di
Vendola, sono allo stato attuale l’unico partito in campo. Il Maya di Bettola, confortato dai potenti fiati del destino, ha sparigliato le carte nella sua metà campo (e soprattutto in ditta),
ma ora si trova coi sondaggi che lo inchiodano (di già) alla quasi
ingovernabilità del Senato. Se Ingroia non desiste (e non mi pare il
tipo, visti i precedenti) nelle regioni in bilico (Lombardia, Veneto,
Campania e Sicilia) si fa dura.
Così, dopo le Cayman e il fuoco amico, è partita la corte a Renzi a cui pare stiano cominciando a piovere profferte
di poltrone e primizie. Si dice che il Sindaco di Firenze aspetti il
prossimo giro, il cadavere sul fiume, scommettendo da pokerista sulla
fragilità del sempre più probabile Bersani-Monti-Vendola, per poi
ripresentarsi in camicia bianca col sorrisetto sornione come a dire:
avete visto? Di certo se avesse vinto lui, non si sarebbe assistito al
Ritorno.
L’ennesimo Ritorno, nella partita ventennale tra Berlusconi e il
resto del mondo, la solita incredibile telenovela che inchioda l’Italia a
un’epoca in cui Internet era conosciuto solo da quattro scienziati
occhialuti e il Muro di Berlino era caduto da qualche anno appena. L’Era
televisiva, il passato che non passa, e che giovedì scorso è andato in
onda in prima serata, da Santoro, e ha fatto lo stesso share della
finale del Festival di Sanremo o dei Mondiali.
“Lasciate che vi spieghi com’è questo paese: questo paese non è
governabile” ha esordito Berlusconi nella fossa dei leoni, con un
sorriso smagliante. Chi, come i bagarini inglesi, credeva che
sbroccasse, si mettesse a urlare paonazzo in volto, lasciasse lo studio,
si è dovuto ricredere. “Santoro siamo da lei o siamo a Zelig?” Ha
esclamato a un certo punto in un vertice creativo, quando ormai
l’intrattenimento aveva definitivamente sussunto la politica, prima di
giustiziare il giustiziere: “Lascialo qua, Travaglio, lo voglio guardare
in faccia”. Dopo, come da copione, sono (ri)cominciati i cazzi amari.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
4 gennaio 2013
IL MAYA DI BETTOLA
 “«Il mondo lo hanno distrutto i politici, altro che la profezia dei
Maya!». Il risultato non cambia. Barba bianca e ammirevole coscienza
dell’identità collettiva, «noi valdesi stiamo scappando da seicento
anni», il signor Aldo ricorda di quando il villaggio contava 340 anime e
«le zappe non erano coperte di ruggine, e la farina non era la materia
morta che è adesso ma una cosa buona da mischiare alla segale, per fare
il pane». Nostalgia di un mondo che non c’è più, nel vero senso
dell’espressione? «Distruggere quello che ti dà la vita è puro
autolesionismo. Andate nelle vallate a vedere cos’hanno combinato,
autostrade, dighe, cemento ovunque: se è finita davvero nessun
rimpianto, io me ne sto quassù».”
Non so, francamente, se la farfalla di Bradbury abbia
spiccato il volo, in qualche sperduto angolo del mondo il giorno del
Solstizio d’Inverno del 2012, né se siamo o meno entrati ufficialmente
nell’Era dell’Acquario all’insaputa di tutti, fatta salva naturalmente
l’élite di fulminati new age che ci crede di brutto ed è pronta, ad ogni
aperitivo, a sguainare l’arco nuovo di trinca e ad oliare la zappa. Io
non mi sento così baldanzosamente razionalista da escluderlo. Mi pare
che vedere i bambini che a due anni cercano di cliccare sulle pagine di
carta, quando non hanno per le mani l’iPad, già significhi qualcosa.
Che poi non siamo in salute, che il mondo non stia bene, è chiaro
quasi a tutti. La declinazione ovviamente cambia, ma la sostanza è la
stessa. A che pro? Qual è la posta dello sbattimento? Produci, consuma e
preparati a crepare alla meno peggio? Di quante autostrade avremo
ancora bisogno per capire che il problema non è la coda, ma il week-end?
La gag dei Maya, per chi ha avuto voglia di esplorare, questo è stata:
l’occasione per mettere in fila le priorità, dare ordine alle domande.
“La fine del mondo è la punta Martel, neve, sole e lo spettacolo dei
Tredici Laghi, il torrente dove nuotano superbe trote fario, il volo
dell’aquila reale. L’altro mondo dev’essere finito due tornanti più
sotto, a dar retta ai Maya, e un giorno qualcuno controllerà. Non c’è
nessuna fretta.” Secondo l’aneddotica gossippara il villaggio di
Pradeltorno sulle Alpi Cozie era uno dei tre o quattro buchi del culo
del mondo in cui ci si poteva salvare dall’Armageddon.
Invece
“il settimanale L’Eco del Chisone (…) ha scoperto che la leggenda
piemontese è spuntata su Wikipedia solo il 4 giugno 2011, mentre le
indicazioni su Bugarach affondano le radici nella notte dei tempi. Non
solo: nessuna fonte citata, riscontri zero, e come si sa chiunque può
arricchire le voci di Wikipedia senza alcun controllo. Secondo il
giornale l’anonimo collaboratore della libera enciclopedia telematica
risulta poi essere un utente Vodafone della vicina Pinerolo, c’è anche
il numero dell’apparecchio…”
Ora che comunque l’allineamento non s’è allineato, la Cintura
Fotonica non ci ha fritto come coleotteri maldestri nella lampada
alogena e gli ufo non sono sbarcati su un rosso deserto piallato dal
sole, adesso che alla mezzanotte del 21 dicembre 2012 – ora italiana –
solo lo show un po’ mesto di un sito a caccia di click ha messo in scena il countdown per
la fine di un mondo “che è già finito da un pezzo”, ora che sono
passati pure Natale, Santo Stefano e Capodanno sarà finalmente chiaro a
tutti che l’unico vero Maya in circolazione è nato a Bettola.
Non certo Monti e la sua allegra brigata di banchieri, giannizzeri
finanziari e attempati perdigiorno della politica, di cui su Facebook
circola una simpatica epigrafe virale: «Dopo la saldatura di Monti,
Casini e Montezemolo con il Vaticano, mi aspetto l’appalto a
Finmeccanica per la costruzione della Morte Nera». Monti è stato
benedetto dalla follia nichilista di Berlusconi e forse il 24 febbraio è
abbastanza vicino da non far notare troppo il l’assai poco tecnico
codazzo d’imboscati, ma difficilmente riuscirà a far meglio di Mariotto
Segni diciannove anni fa. Perché dovrebbe?
E certo non sarà una gang di mozzorecchi assortiti, che non ho capito bene se ha sussunto in toto la versione law and order de sinistra 1.0 (l’Idv del buon Tonino, kaputt nei sondaggi dopo l’irruzione della Karma Police) o se ha solo valorizzato i “compagni” più meritevoli e televisionabili, a fare la “rivoluzione civile”
di cui vaneggiano sopra una versione oscenamente post punk del Pellizza
da Volpedo. Bene che va rosicchiano un po’ a Vendola e un po’ a Grillo e
fine della rivoluzione.
Di Berlusconi e della metà campo di destra francamente non vale la
pena parlare. Più che altro non me la sento, già ci capisco poco tra
nuovi partiti annunciati, primarie virtuali, psicodrammi vari, che mi
pare poi si vadano ricomponendo in gioiose rimpatriate sullo skilift, e
in più mi sembra che quella del capo sia una partita un po’ mesta. Se
voleva giocare non doveva tentare di ammazzare Monti, ora non vuole
arrendersi all’idea di non avercela fatta e continua ad alzare la posta
con una coppia di jack in mano. Forse cerca la bella morte, con tutti
quei nipotini. Che tristezza.
Alfine arriviamo a lui, al Maya di Bettola: l’uomo più sottovalutato
del 2012. Proviamo a tornare con la mente, per un attimo, a un anno fa.
Bersani era leader di un partito senza capo ne coda, o meglio con un
capo, lui, assediato da un migliaio di codazzi impazziti convinti di
essere qualcosa o qualcuno. Aveva appena digerito Monti, nonostante i
sondaggi gli avessero ripetuto fino alla noia che se andava a “votare
sotto la neve”, come strizzava l’occhietto il perfido Giuliano Ferrara,
avrebbe fatto cappotto.
Monti aveva cominciato subito a picchiare come un fabbro, proprio là
dove il dente duole: nella sua base di pensionati e aspiranti pensionati
e annunciava sfracelli nel pubblico impiego, proprio là dove il Pd ha
il consenso vero e il Sindacato tiene il suo ultimo bastione. Renzi e i
“giovani”, spalleggiati dagli infingardi media liberali, lo bastonavano
un giorno si, l’altro pure e appena per qualche ragione se ne
dimenticavano o si facevano un week-end in pace, Rosy Bindi rilasciava
un’intervista.
Ora, dopo aver accettato la sfida di Renzi (non era obbligato a
farlo, anzi) e averla vinta di oltre venti punti, ha stupito tutti gli
addetti ai lavori e ha indetto le primarie per la scelta dei
parlamentari: prima assoluta nella storia repubblicana. Naturalmente,
con sardonico cinismo emiliano, ha scelto la data più bulgara possibile,
29 e/o 30 gennaio, si è accaparrato una quota importante di nomine
dirette e ha scatenato un sostanziale delirio politico-organizzativo nel
partito. Chi può dirgli niente?
Risultato: l’uomo contro il partito liquido, del collettivo contro i
personalismi, si è svegliato come il leader più craxiano degli ultimi
vent’anni, al cui potere tecnicamente iperplebiscitario (due primarie
vinte di fila) si somma la “fedeltà di progetto” degli eletti in
Parlamento, del Pd e di Sel (che non a caso ha tenuto analoghe primarie,
gli stessi giorni): gli devono tutto, se fanno casini stavolta li
linciano. Non più caminetti, al massimo qualche pacca sulle spalle alle
vecchie glorie, e azzeramento delle correnti da parte degli elettori.
Una piccola apocalisse, con un solo cavaliere.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
19 novembre 2012
KARMA POLICE
“La vita sulla Terra, come la conosciamo, non sarebbe possibile
senza la protezione esercitata dal campo magnetico. Secondo studi
recenti la magnetosfera sarebbe interessata da un processo
d’indebolimento. Si tratta di un processo lento, ma progressivo”. Non è il solito buco web di untorelli new age (il capovolgimento dei poli magnetici era uno dei must apocalittici in vista del 21/12/2012) ma un comunicato dell’Esa, l’Ente spaziale europeo, che sta lanciando una nuova missione per capire che diavolo sta succedendo: “nei prossimi anni il campo magnetico potrebbe arrivare a un punto di non ritorno, a un livello mai conosciuto dall’uomo”.
A un mese dalla fine del calendario Maya, tutto si può dire fuorché
il mondo scoppi di salute. Con gli occhi ancora colmi delle immagini
della capitale dell’Occidente, sfregiata dagli elementi nell’intimo dei
suoi muscoli architettonici lanciati contro il cielo, la puzza di guerra
che arriva dal Medio Oriente lascia presagire un Natale all’insegna del
terrore. Allo strazio delle vittime e alla disperazione dei bambini
ebrei e palestinesi si aggiunge la paranoia di una guerra vera, con
Israele da una parte, il mondo arabo dall’altra e alcune testate
nucleari (vere e presunte) in mezzo.
Tutto questo dopo che il segretario di stato Usa, Hillary Clinton, ha
annunciato la propria indisponibilità a ricoprire l’incarico nel nuovo
governo di Obama. Gli occhi di tutto il mondo sono ancora una volta
puntati su di lui, l’uomo del discorso del Cairo. Il Papa Nero è stato
appena rieletto, non certo in pompa magna come hanno raccontato con consueta cialtronaggine paesana dalle nostre parti, ma pur sempre con un margine molto superiore ai pronostici della vigilia, sia nel voto nazionale che tra gli stati grandi elettori.
Naturalmente sono tante le ragioni della vittoria di Obama, a partire
dall’inadeguatezza goffamente robotica del suo avversario, ma fra tutte
spicca l’operazione Chrysler. Sergio Marchionne, il nemico giurato
della sinistra italiana, è stato il protagonista dell’evento più atteso
dalla sinistra worldwide: il beniamino dei liberal di
tutto il mondo rieletto presidente grazie al salvataggio di Stato del
colosso dell’auto americana, con i lavoratori a metà stipendio e il
plauso unanime del sindacato.
In coincidenza con la fine del calendario Maya, o forse per via della
perdita di vigore della corazza naturale del magnetismo terrestre, che
impedisce alla Terra di trasformarsi in un Marte o in una Venere, pare
che la polizia del karma si stia incaricando di recapitare i suoi
paradossali verdetti con crescente impazienza. Non solo il Papa Nero made in Fiat, dunque, ma una serie di piccole scorribande di riequilibrio karmico che sembrano proprio non poter aspettare oltremodo.
“Milano è un villaggio. Tutti sapevano tutto di tutti. Lui arrestava,
istruiva processi-bomba, percorreva in favore di telecamere corridoi
fatali accompagnato da avvocaticchi con i quali concordava l’uscita
degli arrestati dalle camere di sicurezza in cui si riscuoteva con la
paura del carcere la confessione, ma già si sapeva tutto di quel
coraggioso magistrato in carriera politica. Si sapeva che non era uno
stinco di santo, che le sue cadute di stile erano piuttosto pesanti, che
il tout Milan era pieno di gente di denari che aveva
avuto rapporti spuri con l’ex poliziotto laureato di fretta e messo lì a
fare da battistrada dei professorini dell’anticorruzione del pool, si
sapeva quel che è venuto fuori pubblicamente dopo, e cioè che aveva
avuto rapporti inconfessabili con un pezzetto dei servizi diplomatici (e
altro) americani, che la sua storia di pm antipartito era la storia
stessa di come veniva calando la cortina di ferro della guerra fredda.”
Il prosaico cade male, nella strapaesana italiana cosiddetta Terza repubblica (in fieri). La faccia di Di Pietro, davanti alla gendarmeria della “commissaria Gabanelli”, come la chiama Giuliano Ferrara nel suo articolo definitivo,
sembrava proprio quella del “mariuolo” di craxiana memoria colto con le
mani nella marmellata. Sadicamente, ma non troppo, in diversi hanno
rievocato la bavetta di Forlani, in aula al processo Enimont: la
giustizia infatti non solo (o non tanto) è uguale per tutti. Ma è –
soprattutto – equilibrio.
E una volta che si mette in moto, il processo di assestamento non si
arresta sino a quando non c’è un equilibrio nuovo. Così capita di
assistere alla triste parabola discendente dell’ex Caimano dei caimani,
ridotto a mitragliare a salve, a giorni alterni, il governo in carica e a
ritrovarsi puntualmente svillaneggiato dai giornali (che un tempo non
troppo lontano lo onoravano di una demonizzazione a nove colonne) a pié
di pagina, in angoletti troppo angusti per l’ipertrofico ego che scalcia
ancora dai titoli.
Oppure di scoprire che dopo tanto bla bla rottamatorio, tra i
“Fantastici 5” candidati alle primarie l’unico che azzarda qualcosa di
politico (la riforma fiscale capace di assorbire l’evasione = mettere i
cittadini in contraddittorio finanziario = fare scaricare tutto a tutti)
e scalda i cuori della sinistra del web
si chiama Bruno Tabacci, ha centotrentacinque anni ed è un cazzuto di
democristiano. Quelli che l’hanno capito per primi, gli agenti segreti
della karma police, sono i Marxisti per Tabacci. Normale, poi, che il compagno Bruno sbugiardi le velleità nuoviste del giovane turco Renzi, menandogli calci negli stinchi per tutta la pallosissima versione-primarie dell’X Factor di Sky.
Il pallido Matteo ormai arranca palesemente e certo non aiuta che due
tra i suoi economisti di riferimento – Alesina e Zingales – abbiano
dichiarato di sostenere Romney. Un amico di tFP, pochi giorni
prima del voto, mi ha scritto che “Obama è diventato lo spartiacque fra
buoni e cattivi”. L’hanno spiegato anche a Renzi? Intanto Casaleggio,
Grillo & associati, liberati ormai dallo stereotipo dei liberatori e
ventre a terra nelle purghe d’autunno, continuano a scavare
indisturbati, lasciando agli esodanti il continuo rimpallo della propria inconcludenza. Manco la legge elettorale sono riusciti a cambiare.
Per quadrare il cerchio, infine, il rottamator cortese si è candidato segretario
del Pd, in Lombardia hanno candidato a furor di partito l’ennesimo
“civico”, di sicuro spessore ma conosciuto dal grande pubblico solo per
il tragico lutto (continuare a tirare in ballo orfani e vedove oltre a
essere macabro e patetico inizia a risultare avvilente), che per prima
cosa ha tentato di abolire le primarie e Crocetta neo-presidente della
Sicilia ha annunciato Franco Battiato neo-assessore alla cultura. Quello di “mandiamoli in pensione i direttori artistici, gli addetti alla cultura”. Addavenì.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
29 ottobre 2012
CAYMANISTAN
 “La Porsche ha chiamato “Cayman” la sua auto più brutta per fare un dispetto a Renzi”, “#Dalema
va ai giardinetti per mangiare i bambini e dice che l’ha mandato
Renzi”, “E’ stato Renzi a bloccare il treno Italo a Firenze Per
dimostrare che #LucadiMontezemolo
non va”, “Le zanzare ad ottobre sono state mandate da Renzi”, “Matteo
Renzi è il vero autore dei libri di Fabio Volo e Federico Moccia”, “Ma
chi paga la lavanderia per tutte quelle camicie bianche?”, “Renzi svela
sempre il finale delle barzellette di Bersani”, “Ma non è che quell’auto
che secondo la Moratti era stata rubata da Pisapia, invece l’ha presa
@matteorenzi?”, “Salterò la pausa pranzo: ho protestato, il mio capo mi
ha detto: #attaccaRenzi.”
L’hashtag di @AsinoMorto dice già tutto. Vendola,
per cui il pm ha appena chiesto venti mesi di galera per abuso
d’ufficio, e Bersani, la cui storica segretaria è stata appena indagata per truffa aggravata, sono riusciti nell’impresa di mettere
Renzi all’angolo. Chi osa non dico spendere parole apertamente
lusinghiere, ma esprimere qualche moderato dubbio circa lo status di “nemico del popolo” affibbiato al sindaco di Firenze, viene lapidato sulla piazza di Facebook.
Oltre alla staliniana trasfigurazione dell’avversario in “nemico”,
già sperimentata con Craxi e Berlusconi (con evidenti benefici per il
paese, in declino da un quarto di secolo sotto tutti i punti di vista),
la tentata sterilizzazione del pericolo – ché quando un moccioso
impudente annuncia di voler tagliare il finanziamento pubblico ai
partiti entro i primi cento giorni di governo di questo si tratta – si
basa sul boicottaggio della partecipazione.
Le primarie sono il mito fondativo del Pd e del centrosinistra,
l’unico, e il mastice che riesce a tenere insieme un elettorato sempre
più scazzato e disilluso. Negli anni passati si sono sempre rivelate
l’unica vera arma in più rispetto ai soldi, al carisma e alla certezza
della leadership che regnava nel campo avversario. Ma anche questa,
ovvia, considerazione non deve aver fatto breccia.
Così mia nonna, che ha quasi novant’anni e fa fatica a scendere le
scale (ma è sempre andata a votare), gli studenti di sedici e
diciassette anni e quelli fuori sede (i pugliesi poi sono veri ultras
del loro governatore) se ne staranno a casa. Invece che presentarsi al
seggio con la carta d’identità e il certificato elettorale (e una volta
sola), come nel 2005, tocca una babele di puttanate burocratiche che, a
parte le patetiche giustificazioni in politichese, significano solo una
cosa: vade retro Renzi.
Spararsi nelle palle per far dispetto alla moglie: dopo che gli analisti hanno spiegato che più alta è la partecipazione più le chances di
vittoria di Renzi aumentano, le varie staffette partigiane sono partite
ad architettar tagliole. Ma se va a votare meno gente perdono tutti,
perché oltre alle primarie bisognerebbe tentar pure di vincere le
secondarie. Arrivarci dopo un flop, proprio adesso che Berlusconi
spariglia di nuovo e patrocina (forse) le primarie del centrodestra,
sarebbe il massimo.
Il quotidiano lancio degli stracci, inoltre, ha definitivamente
eclissato i contenuti dal dibattito, anche riguardo la cosiddetta “fase
2” della campagna di Renzi (che continua a giocare alla lepre).
“Cambiamo l’Italia” ha affiancato il claim “Adesso!”, riconducendo idealmente il sindaco di Firenze al “Change” di Obama, dopo che la fase uno ne aveva già sussunto e italianizzato l’iconografia sin nel minimo dettaglio.
Il particolare è che stiamo sempre parlando dell’Obama del 2008,
quello trionfale e trionfante. Tutti continuano a citare la campagna, le
strategie, lo stile, i contenuti, lo story telling di quell’Obama là. In quanti conoscono il claim del 2012, quello su cui tra pochi giorni il presidente chiede il voto agli americani per altri quattro anni? “Forward”, dalla speranza visionaria al realismo del buon padre di famiglia in una campagna stile Diesel, con un video che sembra il trailer di una serie tv (alla seconda stagione).
Renzi, come gli altri ma col rischio di pagare un prezzo più alto, è
rimasto al 2008, l’epoca del “Se po’ fa’” con cui Veltroni rastrellò il
33% alle politiche. Nel frattempo però è cambiato tutto, diverse volte.
L’altra sera Santoro gli ha chiesto conto a modo suo della “fase due”,
citandogli l’ultimo libro
di Paul Krugman “che si chiama proprio come il suo slogan, adesso!”
(col punto esclamativo pure) e argomenta il fallimento delle politiche
di austerity in Europa e in Italia. “Lei che ne pensa?”
Renzi ha abbassato un po’ gli occhi, ha ripetuto un paio di volte che gli editoriali di Krugman sul New York Times
sono un prezioso contributo all’analisi, ha dato l’impressione di non
averne mai neanche sentito parlare (del libro titolato come il suo claim).
Ora, si può essere d’accordo e meno con Krugman, ma è il caso di avere
un’opinione su quello che scrive, visto quello che scrive, se si ambisce
così tanto a governare un paese (uno qualunque).
Invece la cosa più politica che Renzi ha tirato su fuori sul tema è
che “è una questione di qualità della spesa pubblica” certo “a saldi
invariati”. Spiccicato a Bersani, a Monti, a tutti. Poi nient’altro,
nulla che a poche ore dalla fine della trasmissione potesse rimanermi
impresso, al netto delle gag rottamatorie. Unico guizzo,
vagamente cimiteriale: nei primi cento giorni di governo la mitologica
legge sul conflitto d’interesse. Per dimostrare che non è l’Ambra del vecchio Caimano. Poca roba.
All’ora del conto, infine, la Sicilia non poteva mancare. I primi exit polls
sulle elezioni erano fischiati in rete come ghigliottine al vento.
Anche se i risultati ufficiali sembrano ridimensionare l’uragano,
Caymanistan trema. Più della metà dei siciliani è rimasta a casa e
l’altra ha incoronato campione del caos il “D’Annunzio a Fiume, un
situazionista fuori situazione, un estroso beato nel posto tipico delle
stramberie”. Come aveva predetto Buttafuoco, con bella prosa.
“Non è stato elegante manco in acqua, eppure ha fatto evento. Una
nuotata come quella può farla uno svelto atleta scolpito da Fidia, non
un Satiro attempato e tutta la bellezza di quella traversata s’è
confermata nell’essere lui – l’uomo che viene da fuori – tutto il
contrario di ciò che ha fatto, il più improbabile dei Colapesce. Nessuno
ci credeva che potesse arrivare a nuoto, tutti cominciano a credere che
lunedì possa sfasciare finalmente la regione siciliana.”
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
16 ottobre 2012
BERSANAMENTO
 “È stato un capolavoro di democrazia. Se usciamo bene dalla vicenda
delle primarie non ci ammazza più nessuno”. Di certo adesso faranno più
fatica ad ammazzare lui. Bersani, il segretario, dopo l’Assemblea
nazionale del Pd del 6 ottobre è stato salutato dal coro mediatico come
un generoso liberale che, un po’ per tattica un po’ per convinzione, le
primarie le ha aperte davvero. Con qualche regoletta, certo, ma un po’
di regole ci debbono pur essere, no?
Le regolette,
però, per definizione sono vincolanti e in questo caso la sanzione per
chi non le rispetta è stare a casa, senza se e senza ma. Così, dopo i
primi attimi di entusiasmo, gli aspiranti premier del Pd, outsider
che avevano annunciato la propria candidatura in deroga all’articolo 18
(i casi del destino) dello statuto che prevede che sia il segretario a
rappresentare la ditta alle primarie di coalizione, si sono resi conto
di essere rimasti in braghe di tela.
Alle diciottomila firme di iscritti al Pd (“Una follia, io ci ho
rinunciato già il primo giorno”, dice Puppato) si sono affiancate
pastoie burocratiche stile lasciapassare a 38. Elenchi degli iscritti consultabili solo all’interno delle sezioni del partito, per via della privacy
(che non vale per l’albo pubblico degli elettori, però), blindatura
senza quartiere della maggioranza già bulgara in Assemblea nazionale,
con conseguente difficoltà a trovare le novantacinque firme necessarie
per candidarsi.
“Io posso parlare per esperienza diretta. Diversi delegati che
avevano assicurato di voler sostenere Renzi, hanno cambiato
improvvisamente idea. Alcuni si erano fatti avanti con convinzione, ma
dopo qualche giorno e qualche colloquio privato, hanno fatto un passo
indietro”. Salvatore Vassallo, deputato neo-renziano (ed ex
veltroniano), descrive un clima da “o con noi o contro di noi” che forse
è quello che aveva in testa Bersani quando, con apprezzabile humour emiliano, ha gridato al “capolavoro di democrazia”.
Il Bersani neo-rottamatore (che può già incassare il bye bye
di Veltroni) è uscito bene dall’Assemblea nazionale, garantendo a Renzi
la possibilità di correre (e svincolandosi dai vecchi pachidermi) ma
costringendolo a una silenziosa conta old style di delegati “fedeli” e bastonando senza pietà gli altri outsider in grado di togliergli voti al primo turno. Pare che solo la Puppato riesca a trovare le firme, unica donna “in gamba” per i Bettoliani del secondo turno e/o clone mignon del segretario, per i maligni.
Sarà l’acrilico, ma a me la cartolina di Bettola piace. Forse perché è
talmente fuori dai canoni della comunicazione contemporanea (pure
quella più dadaista) e così sideralmente distante dal “made in Usa”
di Renzi, che al terzo (o quarto) sguardo ha finito per conquistarmi.
Il richiamo familiare, poi, è talmente arcaico da stemperare la
ruffianeria e abbastanza emiliano da non cedere alla retorica (niente
giuramenti, salamelecchi, o poesie strappalacrime). Anche questo merita
rispetto.
Prima ero rimasto un minuto buono, gli occhi sbarrati, a fissare l’immagine sul mio Mac del sito della campagna, “TuttiXBersani”, in effetti molto simile
al “TuttiXMilano” di un paio d’anni prima. Credo che il neologismo
“sciogliocchi” sia il più indicato per definire l’inferno grafico che
circonda il nonsense editoriale di uno strumento che, a
differenza di quello di Renzi, è palese che sia stato fatto proprio
perché non se ne poteva fare a meno. Al contrario della cartolina di
Bettola, che ha un cuore.
L’idea del partito che si legge in controluce, però, è quella che
aleggia sulle belle facce emiliane dell’infanzia di Bersani, che il suo
staff ha fatto circolare in occasione dell’avvio della campagna, a
Bettola (suo paese natale). Un partito pesante come un aratro e duro
come le zolle di terra da spaccare. Niente a che spartire con Renzi,
ovviamente, poco con il partito delle primarie (che ci sono ancora solo
perché Renzi è partito senza chiedere il permesso a nessuno), di Twitter
e Facebook, della mediatizzazione, della personalizzazione della
politica. In una parola della contemporaneità.
Il paradosso è che per affermare questa idea di partito, Bersani sta
mettendo in gioco sé stesso in modo molto più americano del rivale
rottamatore. Paradosso fino a un certo punto, per chi conosce gli
emiliani, a cui fa da contraltare l’altra verità di cui nessuno pare
accorgersi in queste ore. Per le regionali del Lazio c’è Zingaretti e
basta (nisba primarie) e in Lombardia, dove delle primarie parlano solo i
giornalisti,
per ora l’unico candidato certo del centrosinistra è Tabacci. Dopo
Formigoni ci si aspetterebbe anche qualche colpo d’ala, ma questa è
un’altra storia.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
7 ottobre 2012
OUTSIDER TRADING
“Mi avevano chiesto, come si usa, di fare due conti e vedere chi sta
con chi. Ho fatto un sondaggio fra la nostra gente, segretari di circolo
funzionari amministratori: tutto a posto, tutti con Bersani. Poi la
sera che è venuto Renzi a parlare alla festa ho visto, in platea, il
parrucchiere del mio paese, Alfonsine, è da lui che vanno a tagliarsi i
capelli tutti i ragazzi. E ho visto anche il direttore della Conad,
quella dove vanno le donne a fare la spesa. E poi in fondo il fratello
di mia suocera, che fa l’imprenditore e che quando vuol sapere di
politica chiede a me. Ho domandato al parrucchiere. Ma stai con Renzi? E
lui: ma sì, è nuovo è giovane. Poi tanto sono tutti nel Pd, no? Bersani
faccia il segretario, Renzi il presidente del Consiglio”.
Questa,
fuori dalle chiacchiere politicanti è l’aria che tira. C’erano serie
possibilità che l’Assemblea nazionale del Partito Democratico di sabato 6
ottobre fosse l’ultima. Bastava che il fu Partitone assediato si
arroccasse in una Bulgaria di lacci e lacciuoli, tesi a tagliare le
gambe alla volata del camper di Renzi, e Renzi, poi, avrebbe avuto tutto
lo spazio del mondo – e le ragioni – per presentarsi alle elezioni in
libertà. Mostrando dunque di aver fatto bene i suoi conti a iniziare la
sua campagna con un appello agli “altri”.
Sulle “regole del gioco”, con cui si corrono le primarie per la
candidatura alla premiership del centrosinistra italiano, la decisione è
stata assurdamente rimandata per mesi, come quegli esami medici che
dovremmo davvero, ma proprio non abbiamo voglia di fare. Così oggi il Pd
di Bersani si trova a inseguire col fiatone un candidato che già parla
da premier e che l’ultimo sondaggio Ipr gli piazza tre punti dietro. 37 a
34, con Vendola ben sotto il 20 e gli altri (Puppato-Gozi-Tabacci) con
percentuali da prefisso.
Per capire la differenza basta accendere il pc, andare su Google e
dare un’occhiata ai siti internet dei due candidati, uno dietro l’altro.
Due ere geologiche. E questo vale per tutto il resto: dal fund raising
online professionale alla presenza sui social network, dalla perfetta
riproduzione iconografica del cliché stilistico del Pd made in Usa – in
una grafica impeccabile, nel suo stereotipo manifesto – alla mimica del
corpo durante i comizi-show del tour in giro per l’Italia.
Se Renzi vince le primarie, poi, è l’apocalisse Maya. Almeno per le
centinaia di migliaia di famiglie che vedono uno stipendio sicuro
smettere di esserlo. Per ora il corpaccione dell’ex partitone ha retto,
ma se i sondaggi anche solo si attestano su queste proporzioni il cambio
di casacca, dalle ultime file in avanti, a beneficio del quasi
vincitore senza esercito diventerà sempre più sistematico e compulsivo
man mano che la data delle primarie si avvicina minacciosa.
Già ora i maligni insinuano che agli show elettorali di Renzi tra le
spie inviate dai dignitari di Bersani, sempre una dignitosa porzione
della platea del comizio multimediale, pullulino i disertori pronti a
vendersi appena finita la corsetta scenica con cui ad ogni tappa il
sindaco fiorentino raggiunge il palco. Solerti funzionari occhiuti,
rimasti spiazzati da quella inconfondibile puzza di vittoria, così
raramente annusata, e subito folgorati sulla via del camper. Chi primo
arriva…
Fuori dagli attendamenti dei generali sul campo, poi, si aggirano le
candidature di bandiera come quella di Puppato (di cui subito s’è
malignato essere quella di Bersani, la bandiera), Gozi (che pare più
interessato a posizionare ego e cv, più che legittimamente) e Tabacci,
unica candidatura fuori dal, paradossale, coro giovanil-movimentista di
cui Vendola è il massimo campione storico. Nonostante l’età e il
background.
Vale la pena spendere due parole per il governatore della Puglia,
classico ed eterno esempio di radioso futuro alle spalle, che per un
breve ma intenso attimo parve avere la possibilità di dare concretezza
al velleitario. Facendo dell’esperienza di governo il jolly per
accreditarsi anche fuori degli steccati ideologici che presidia da un
trentennio come un credibile leader della sinistra. Si sa com’è andata a
finire, in Puglia e nella sinistra, e la sua eterna campagna per
l’argento alla leadership del centrosinistra senza trattino non
appassiona più da almeno un annetto. Troppa fretta, troppo ego (ma bella campagna: complimenti ai creativi).
Ma forse Bersani è più furbo di quanto vuol far credere e lo sfoggio
di liberalità del 6 ottobre può essere il modo di ottenere tre
risultati: una bella figura e un bel numero di candidati che dipendono
dalla clemenza della tanto vilipesa “struttura”. La conciliazione del 6
ottobre, infatti, è un a buona notizia soprattutto per Renzi: 18.000
firme da raccogliere in una settimana (107 firme all’ora cioè 1,78 firme
al minuto, come conteggiano al volo su Twitter) o almeno il dieci per
cento dei delegati dell’Assemblea nazionale del Pd. Dura per gli
outsider.
Ma l’unica possibilità che Renzi non vinca, a occhio e croce, è che
ci sia qualcun altro in grado di togliergli abbastanza voti, militanti,
volontari, campo. Tutta gente che ora si trova costretta a scegliere fra
la padella e la brace. Qualcuno di giovane, “nuovo”, credibile, ma un
po’ meno marziano del sindaco di Firenze, almeno agli occhi del target
Pd, senza disinvolte gite ad Arcore nello score e con meno brillantini e
paillettes televisive. Qualcuno come Pippo Civati.
La sua rete ha lanciato in questi giorni “Occupy Primarie”, la campagna online che fino al 12 ottobre sforna ogni giorno una cartolina per l’Italia ed è culminata mediaticamente nel “blitz dell’Ergife”, il gotico hotel pullulante di déja-vu dove si è tenuta l’Assemblea del Pd. Sono sempre gli stessi che hanno formulato i sei referendum
per smuovere le acque dentro un partito in cui, senza il ricorso al
pueblo su certi temi non si muove foglia. E che ora chiedono di votarli
insieme alle primarie. Con o senza Civati sulla lista.
Questo pare proprio l’ultimo giro di giostra. Ma che succederà poi,
al Pd, se e quando la rottamazione sarà compiuta? Una volta che i vecchi
oligarchi con cui prendersela sempre avranno davvero levato le tende o
comunque si limiteranno a brontolare, come tutti i bocciatori in là con
l’età? Cosa rimarrà del Pd con un governo a trazione renziana (o
montiana)? Il congresso è oggi, anche questa partita si gioca ora.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. La campagna "Occupy Primarie" è stata realizzata delle Lance Libere.
|
23 maggio 2012
ASSALTO AL PARTITONE: PARMAGRAD
 “La radio al buio e sette operai, sette bicchieri che brindano a
Lenin… e Stalingrado arriva nella cascina e nel fienile, vola un
berretto un uomo ride e prepara il suo fucile. Sulla sua strada gelata
la croce uncinata lo sa… d’ora in poi troverà Stalingrado in ogni
città!” Chissà se a Grillo è passato per la testa il pezzo degli Stormy Six, quando ha dichiarato Parma “la nostra Stalingrado”. Ora che punta a Berlino dovrebbe proprio ascoltarla.
“I parmensi sono come i ravanelli: rossi fuori e bianchi dentro.” Mia zia, bolognese trapiantata a Parma in
gioventù, mi aveva avvertito per tempo. La scorsa settimana, quando
davo la caccia ai candidati al ballottaggio, per il Pd di Parma avevo
chiesto a lei. Mi ha dato il cellulare di un funzionario di Partito,
molto cortese e disponibile, che a sua volta mi ha dato l’e-mail del
“comunicatore”. Che non mi ha mai risposto.
Pizzarotti, dopo un po’ di stalking su Facebook e via mail,
quando mi è scesa la catena e gli ho chiesto se, per caso, non cagare
chi chiedeva un’intervista fosse una “scelta di politica aziendale”, mi
ha risposto. “Nessuna strategia ma mi chiamano da tutta Italia ed è un
casino gestire tutto. Domani vedo cosa riesco a fare.” Il giorno dopo ha
ripreso a non rispondermi, nel frattempo a Parma è arrivato il New York Times, Le Monde e la CNN e io mi sono arreso.
Adesso che i ravanelli parmensi hanno votato e che, a
differenza che nel resto d’Italia, l’hanno fatto in massa (solo tre
punti in meno rispetto al primo turno) è possibile tracciare un primo
bilancio della Campagna d’Emilia, che ha portato Grillo (e Pizzarotti,
che ha fatto di tutto per mostrare ai suoi concittadini di essere un
bravo ragazzo lavoratore, persino un po’ moderato, che pensa e decide in
proprio) al primo successo serio, in grado forse di scardinare la pax partitica imposta dal moribondo governo Monti.
Mentana ha aperto il suo pomeriggio tv dedicato ai ballottaggi con il
sondaggio sulle intenzioni di voto degli italiani. Grillo è balzato al
12%, raddoppiando i consensi rispetto a due settimane fa, e si affaccia
come terza forza politica del paese, col Pd al 25 (in calo), il Pdl al
20 (a picco), la Lega sotto il 5 (ai minimi termini) e pure Udc, Idv,
Sel e Fli in discesa. Tutti i partiti giù, in pratica, con altri
sondaggi che gonfiano ancor di più le vele del Movimento 5 Stelle.
Chissà tra un anno, alla partita vera.
Per l’intanto Grillo può mettere in fila, oltre a Parmagrad, altri
tre municipi espugnati. Alla vittoria al primo turno, per venti voti, di
Roberto Castiglion a Sarego (già sede del “Parlamento padano”), si
aggiunge il trionfo di Marco Fabbri (quasi il 70%) a Comacchio e il rush vincente (52,5% e 26 punti rimontati dal primo turno) dello studente universitario di 26 anni Alvise Maniero a Mira, città d’arte di quasi 40000 abitanti sulla Riviera del Brenta (ed ex roccaforte rossa).
Stalingrado, però, rimane Stalingrado. Parma è una città ricca con un
Comune talmente indebitato (si parla di 600 milioni di euro, interessi
esclusi) che rischia di non poter pagare gli stipendi ai dipendenti, a
giugno. Dopo quattordici anni di giunte di centrodestra il candidato del
Pd si aspettava di vincere facile.
“Io rispetto tutti gli avversari, ma il ballottaggio con il candidato
del Movimento 5 Stelle Federico Pizzarotti sarà come giocare la finale
di Coppa Italia contro una squadra di serie B.”
Dev’essere stata questa certezza (o forse la sensazione che le cose
si stavano mettendo male) che ha spinto Vincenzo Bernazzoli ad
avventurarsi, tra lo stupore generale, a un faccia a faccia con
Pizzarotti organizzato dall’Associazione Gestione Corretta Rifiuti e
Risorse di Parma all’Auditorium Paganini (strapieno, oltre mille
persone). Tema della serata il nuovo inceneritore, piatto forte della
stracittadina elettorale, la cui costruzione è stata approvata dalla
Provincia presieduta proprio da Bernazzoli.
“In Italia si sta andando verso la soluzione senza
inceneritore: Reggio Emilia, la Sicilia, la Provincia di Lucca. L’Europa
prevede dal 2020 il divieto di bruciare materiali riciclabili o compostabili. Ma a Parma vige la “Legge Vincenzo“. Bernazzoli nemmeno risponde alle domande scomode: “Dove metterà le ceneri tossiche dell’inceneritore?“. Non si sa.” La lettera dell’Associazione Gestione Corretta Rifiuti e Risorse, pubblicata sul blog di Beppe Grillo, suona come un epitaffio.
Secondo alcuni,
tra cui anche Pizzarotti (che in un attacco di sincerità ha confidato
alle telecamere che se quelli del Pd mettevano un altro, “magari giovane
e fuori dai giochi”, forse avrebbero vinto al primo turno), è stato un
problema di manico. Bernazzoli si è dovuto difendere per tutta la
campagna elettorale dall’accusa (che a Parma vale triplo) di non voler
mollare la poltrona di Presidente della Provincia. Oltre all’ineleganza
ha dato anche l’impressione di crederci il giusto, alla vittoria. E se
non ci crede lui…
Adesso Grillo e i suoi festeggiano l’avvento col botto (si fa presto a
fare i fatalisti ora, ma il 60% a Parma non se l’aspettava nessuno)
della Terza Repubblica e Bersani la sua vittoria “senza se e senza ma”
ché, se non c’era la “non-vittoria” (spettacolare neologismo) di Parma
sarebbe stato un trionfo. Il mio piccolo viaggio nel Partitone emiliano
assediato finisce così con un due a uno per i barbari e la sensazione
che, sui suoi temi (Casta, ecologia, ecc.), Grillo continuerà a far
male.
(… fine)
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
8 maggio 2012
È NATA UNA STALLA
Un’altra volta. A vent’anni di distanza, tutto si ripete nella
stessa, identica, maniera. Per filo e per segno, le elezioni hanno
scandito il penultimo atto del big bang dei partiti, nel ben
noto copione mediatizzato di mazzette, manette, assalto alla spesa
pubblica e alla moneta corrente (ma senza la lira da svalutare) unito
alla disperante incapacità di fare politica. Vent’anni passati a non
decidere che cosa l’Italia avrebbe dovuto essere e ora, dopo che anche
l’ultimo dei fessi li ha sgamati, tutti a gridare all’antipolitica dei
bruti che minacciano le virtù repubblicane.
Così, come nel 1994 è arrivato il marziano antipolitico magnate dei
media, adesso ce n’è un altro, che conosce quelli nuovi (di media). E sa
(e lo scrive da anni a chiare lettere) che per vincere le elezioni
contro quei morti di sonno da cui è circondato non servono congressi,
tessere o sezioni né rimborsi milionari, che i partiti si spartiscono
come gangster al saloon. Meglio usarli contro di loro,
adesso che la gente fa davvero fatica ad arrivare alla fine del mese e
che il bollettino dei suicidi per debiti se la gioca con quello dei
caduti sul lavoro. Adesso, la gente, ai soldi ci guarda proprio.
La chiamano antipolitica, col riflesso condizionato di chi considera tout court la politica una cosa sporca e prende poco l’autobus. Forse perché, semplicemente, non credono possibile un mondo in cui un consulente informatico
di una banca (che deve prendere le ferie per fare campagna elettorale)
possa realisticamente arrivare al ballottaggio per diventare sindaco di
una città come Parma. E non sono tanto i politici di professione (che si
difendono alla meno peggio) ma la pletora di opinionisti che, eterni
interpreti dell’arte del disincanto, adesso spalancano gli occhioni e
sparano a caratteri cubitali.
La notizia più scioccante di queste elezioni non è l’affermazione di
Grillo, su cui il solito Giuliano Ferrara contro tutti ha sentenziato, a
una smagliante Bianca Berlinguer: “è il vero sconfitto della giornata,
con questo clima mi aspettavo il 20/30 per cento”. La sorpresa vera è
stata la botta d’arresto subita da Casini, Fini & Co. Come alle
amministrative del 1993, al centro si è spalancata una voragine,
considerata la caduta libera del Pdl (con Berlusconi in gita da Putin,
per non saper né leggere né scrivere).
Il Pd dicono che tiene. A regola è il primo partito d’Italia (visto
che il Pdl è via di scioglimento) e, nonostante non riesca a esprimere
candidati nelle grandi città (a Genova è in testa Doria, indipendente, a
Palermo Orlando, Idv, contro Ferrandelli, ex Idv), in termini di lista,
appunto, tiene. Sarà per questo che D’Alema va predicando la fine delle
leadership populiste e di certo, passata (se passerà) la paura dei
ballottaggi, Bersani penserà (forse a ragione) di potersi giovare per un
po’ dell’effetto-Hollande (segretario pacioso, senza grilli per la
testa, vince le elezioni mettendoci la faccia).
Ma c’è un ma. Quel famoso effetto ’94 non c’è alcuna ragione per cui
non debba ripresentarsi, con le stimmate dei giorni nostri. Non è che
gli elettori del Pdl e della Lega (bombardata ma non del tutto
affondata, anche se in via di mutazione grillina) siano scomparsi coi
loro partiti. E se, putacaso, possono bastonare gli odiati post
comunisti, magari votando una giovane faccia pulita senza partito,
perché non dovrebbero farlo? Per paura dell’antipolitica?
Oltre a Parma, dove il candidato è al ballottaggio con quello del
centrosinistra (Pdl quarto, tipo) in Emilia-Romagna la cartina politica
diventa interessante, se letta in controluce. Il Movimento 5 Stelle va
al ballottaggio a Budrio (in provincia di Bologna, roccaforte Pd) e a Comacchio
(in provincia di Ferrara) con risultati sopra il 20 per cento.
Tendenzialmente in regione non scende mai sotto il dieci e sfonda quando
ci sono questioni in grado di dividere la cittadinanza, sul merito
delle proposte politiche (inceneritore, centrale a biomasse, storici
cavalli di battaglia).
Come nel 1993 oggi il centrosinistra tira a festeggiare, occhieggia
speranzosa a Parigi e teme Atene come la peste, mentre Grillo sta
organizzando l’opposizione nelle sue roccaforti (di voti, potere, spina
dorsale), sui contenuti che scaldano davvero il cuore dei suoi, famosi,
militanti di base come fa contro Lega e Pdl dalle loro parti (rivolta
fiscale, nisba cittadinanza agli immigrati nati in Italia). Quando poi i
suoi candidati si dimostrano intelligenti e preparati e i vecchi ras
del villaggio sono troppo bolliti per correre (e/o per piazzare rampolli
presentabili) rischia pure di vincere.
A occhio, a Bersani converrebbe davvero mandare tutti a spendere e
andare a votare con questa legge elettorale. Tra un anno forse è troppo
tardi (anche per l’effetto-Hollande). E a chi, quando sarà il momento,
venisse in mente (Ferrara l’ha già esplicitato prima su Rai Tre, con
evidente sadismo) di proporre qualcosa che assomiglia al governo di
unità nazionale (non c’è bisogno di dichiararlo esplicitamente in via
preventiva, dopo aver approvato una legge elettorale proporzionale, la
gente capisce) perché “c’è bisogno di senso di responsabilità”, si tenga
bene a mente la lezione di Avigliana.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
21 aprile 2012
CACCIA ALLA STREGA
 “Siamo arrivati a dover leggere in un dispaccio di agenzia «se la
‘nera’ non dovesse arretrare dalle sue posizioni…». La Nera è
naturalmente la vicepresidente del Senato Rosy Mauro, coinvolta nel
malaffare che sta travolgendo i vertici della Lega. E se dalla prosa
della cronaca transitiamo ai piani alti del giornalismo, ecco, con
rinnovata passione lombrosiana, corsivisti e grandi firme affondare la
penna non sul reato ma sul corpo, sfregiandolo (la badante, la strega,
la terrona, mamma Ebbe, la virago), fino a insistere sulle sue mani rosse e nodose, come tocco finale di un rogo intellettuale.”
Norma Rangeri sul manifesto inquadra alla perfezione i termini della questione. Il sacerdote pagano, officiante per conto del matriarcato guerriero
della Lega Nord, è stato azzoppato là dove non si può difendere senza
farsi da parte e il lesto salvatore della padana patria s’è fatto sotto.
Si può immaginare pure che, in un classico patto fra maschietti a suon
di puzza di sigaro da circolo della caccia, l’eterno delfino Maroni
abbia concesso clemenza alla family del Capo.
Infatti la direzione leghista, dopo la notte delle scope del
“pulizia! pulizia! pulizia!”, su Bossi jr. ha glissato, cavandosela con
un blando apprezzamento per il senso di responsabilità dimostrato
mollando la cadrega. Belsito, lombrosianamente colpevole per
definizione, andava cacciato di default, e sulla moglie del Bossi,
fondatrice della Lega e negromante in capo, tutti si sono ben guardati
da spiccicar parola.
Rimaneva lei, la goffa e trashissima vicepresidente del Senato dalle
“mani rosse e nodose”, pure terrona di Brindisi. Lei faceva parte della
famiglia solo in quanto “badante”, quindi Maroni & Co. hanno potuto
esigere lo scalpo. Il leghista “buono”, amico di Saviano e del club
dell’antimafia militante, è arrivato ad auspicare la nascita di un
sindacato padano vero, diretto da un padano vero. Un trionfo di
maschilismo e razzismo shakerati insieme, per lisciare il pelo alla
“base”.
“Quando si dice che stiamo assistendo a una Tangentopoli al cubo,
sappiamo che il contraccolpo non sarà un pranzo di gala. E dal lancio
delle monetine siamo passati alla lapidazione.” Probabilmente Maroni,
Tosi e tutta la simpatica compagnia di rinnovatori leghisti credono di
avere a che fare con una manica di rozzi dementi, a cui basta dare in
pasto la donnaccia del Sud e il tesoriere infingardo per potersi
rivendere una catarsi etica talmente rapida da far sorridere anche i più
gonzi.
Maroni ha chiesto e ottenuto il congresso a giugno, perché sa di non
avere rivali con Calderoli mezzo azzoppato dalle inchieste pure lui, ma
per i sondaggi la Lega è in caduta libera e l’ex ministro degli Interni
rischia di fare la fine dell’altro delfino eterno intelligente di
vent’anni fa. Colpisce che la nuova Tangentopoli cali come una mannaia
proprio durante il ventennale delle imprese di Di Pietro e Borrelli. Ma
siamo proprio lì. Con Bossi al posto di Craxi e Maroni-Martelli in fila
da una vita. Intorno a loro, i monatti del mainstream che giocano alla lotta nel fango. Come allora, ma chi è il nuovo Bossi?
“Ma quant’è furbo, da uno a dieci, Beppe Grillo che sta girando
l’Italia per spiegare che lo scandalo della Lega è una trama dei giudici
servi di Monti contro l’opposizione? «Tocca alla Lega, poi a Di Pietro e
quindi a noi!». Quant’è abile a urlare in piazza e su YouTube una tesi
innocentista e complottista a proposito delle porcate della family,
quando perfino Bossi ha dovuto scaricare il figlio e il Cerchio magico.
A corteggiare i leghisti spaesati dagli scandali con il no alla
cittadinanza per i figli d’immigrati, a costo di sfidare le ire dei
blogger, e il ritorno alla parole d’ordine dello sciopero fiscale contro
la corruzione politica.”
L’autorevole monito
ai coscienziosi lettori del giornale-partito di Largo Fochetti di
Curzio Maltese aiuta a mettere le cose nella giusta prospettiva. Il big bang
leghista suona come allarme rosso per tutti, inclusa la bolgia
d’indecisi a tutto del centrosinistra di palude. Nei sondaggi Grillo è
già il terzo partito, 7 per cento e passa, dopo Pd e Pdl poco sopra il
20. Bersani è già lì che ammonisce serio serio, mentre Vendola, che per
un po’ ci aveva pure creduto, dopo la tegola dell’inchiesta sulla nomina
del primario pugliese, ha ancora voglia di tuonare.
“Il rischio è che i voti della Lega vadano nel fiume sporco
dell’antipolitica perché o il centrosinistra sarà in grado di mettere al
centro della sua battaglia la questione sociale e quella morale nel
loro intreccio, oppure il rischio è che possa prevalere il peggio, come
nelle più brutte stagioni della nostra storia. Dopo la crisi dei partiti
nel ’92 è venuto fuori Berlusconi”. Ci vuole un bel coraggio.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
23 gennaio 2012
MEGLIO SOLI
“All’Isola del Giglio, paradiso naturale e perla scheggiata ed
oltraggiata, è naufragata una idea di modernità e di diseguaglianza
selvaggia”. Parola del leader di “Eyjafjallajökull”, nome di battesimo della Fabbrica di Nichi (scelto
in onore del vulcano islandese a pochi giorni dall’eruzione). C’è da
chiedersi cosa potrà arrivare a inventarsi di qui alla fine del 2012,
“Armageddon della nuova sinistra” magari. Per ora si limita a minacciare
che “la tecnocrazia non può congelare il calore della democrazia”.
Vendola, insieme a Grillo e alla segretaria della Cgil, guida il composito fronte della sinistra anti-liberalizzazioni. Secondo Susanna Camusso “c’è
una tendenza a dire che bisogna allungare l’orario di lavoro. È di per
sé una straordinaria trasformazione, siamo tutti vittime dell’idea che
bisogna essere costantemente raggiungibili dall’informazione. Ma bisogna
riflettere sul fatto che non è forse vero che il problema è occupare
tutto il tempo disponibile”, che così si “deprezza la cura delle
persone, la salute, l’idea che si può avere attività che riguardano il
tempo libero, la costruzione della cultura, della lettura”.
Col post “Io sto con i taxisti”, Beppe Grillo lancia direttamente un’opa à la Brecht sulle
categorie in ballo. “Oggi vengono a prendere i tassisti, domani i
notai, dopodomani i farmacisti, la settimana prossima i fruttivendoli.
L’unica categoria che non vanno mai a prendere è quella dei politici.”
Infatti “la caccia all’untore, alla singola categoria sociale, è
iniziata. Una battuta dopo l’altra con i media a demonizzare i redditi
dei tassisti o degli avvocati. I tassisti ricchi sono rari come i
politici onesti. È un lavoro che si sono comprati con i loro soldi, non
attraverso raccomandazioni, conoscenze, leccate di culo.”
Così come Berlusconi lisciava il pelo agli evasori fiscali, con
battute e smentite di forma sull’iniquità dello Stato e sulle ragioni
per cui in fondo bisognava capirli, Grillo si struscia attraverso il
canonico attacco ai media, rei di “demonizzare i redditi dei tassisti o
degli avvocati”. E pazienza se quasi nessuno ricorda di essere riuscito
ad ottenere una ricevuta fiscale su un taxi o se l’Italia è piena di
avvocati, dentisti, idraulici che dichiarano meno di badanti e
ricercatori (che prendono meno delle badanti).
Per non sapere né leggere né scrivere, Grillo integra pure lo sloganino di battaglia con cui chiude tutti i post combat
– Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure – con un
bell’appello elettorale senza se e senza ma, condito con la solita
spruzzata di vittimismo preventivo (che non fa mai male): “Ci vediamo in
Parlamento se non fanno una legge elettorale per impedirlo.”
L’altra sera per sbaglio ho guardato il Tg3. Era un po’ che
non succedeva, anche perché la tv non è molto gettonata in casa nostra, e
non ero più abituato a certe bizzarrie, tipo un servizio (per fortuna
veloce) su Marco Rizzo, leader di non so quale Partito Comunista Docg,
che fissava marziale la telecamera arringando sulla nuova lotta di
classe che unisce taxisti, precari e operai.
La prima manifestazione contro gli ordini professionali io l’ho
organizzata nel 1998 e l’associazione di cui ero responsabile
dell’organizzazione, l’Unione degli Universitari,
aveva sede in Corso Italia e con la Cgil aveva (e ha) un rapporto di
figliolanza politico-sindacale proficuo e (spesso) conflittuale. Quella
volta non dissero niente (se scazzavamo forte la tirata d’orecchi
arrivava puntuale) e anzi, Massimo D’Alema, allora segretario del Pds,
si complimentò con inusuale veemenza.
Com’è andata dopo è noto. Sono passati quattordici anni da quel
corteo e dal nostro elegantissimo slogan – gli ordini professionali non
servono a un cazzo – e Bersani (versione ministro) e i governi di
centrosinistra sono riusciti a fare poco, sudando molto. Quegli altri
invece hanno festeggiato la rivoluzione liberale direttamente in piazza,
assieme ai taxisti romani in camicia nera dopo la vittoria di Alemanno.
Monti ha fatto più di tutti in meno di due mesi, Natale e Capodanno
inclusi. Così come sulle pensioni, sul riordino dei conti pubblici, ora
sul mercato del lavoro e sulle frequenze tv che il centrosinistra – è
bene ricordare agli smemorati – ha continuato a regalare al temibile
Caimano. Perché mai, dopo un anno di questa rumba e con la barca che
magari si rimette ad andare, dovrebbero fare le valigie? Che fanno gli
altri, tornano per riattaccare a smacchiare i giaguari? Bersani fa bene a
bere da solo, altroché.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
16 gennaio 2012
DISORDINI PROFESSIONALI
“#bloccotaxi
ma sì, fate pure la serrata. Quanto durate? 1, 10, 30 giorni? Dopodiché
diventiamo un paese normale.” Uno dei vantaggi della società
dell’informazione è il pluralismo contestatario. Dopo l’annuncio della
serrata nazionale dei taxi per il 23 gennaio e il proliferare di
“assemblee spontanee” (o interruzioni di pubblico servizio, a seconda)
contro le liberalizzazioni del governo Monti, su Twitter è partito lo sciopero degli utenti tre giorni prima. Il 20 gennaio, dunque, #menotaxipertutti.
Gli umori della gente, già bastonata per bene dalle prime misure
anti-deficit oltre che dagli aumenti di benzina e bollette, sembrano
tutt’altro che solidali con le categorie ritenute privilegiate e magari
in odore di evasione. A parte qualche nostalgico del Far West fiscale, infatti, anche un’azione drastica (da “Stato di polizia tributaria” come piace declamare con enfasi un po’ dark) a uso e consumo dei media come quella di Cortina ha ottenuto il plauso della grande maggioranza degli elettori di centro, destra e sinistra.
Non è solo per la speranza che le liberalizzazioni di Monti & Co.
portino più concorrenza e lavoro, soprattutto ai giovani senza
parenti/amici da cui farsi cooptare in una delle varie corporazioni
fortificate, ma per una paradossale questione di equità. Se bastonate
devono essere, che arrivino per tutti e quelli che per una ragione o per
l’altra tentano di scamparla, e finora ce l’hanno fatta, vengono
guardati in cagnesco. Non sarà molto elegante ma forse è l’unica maniera
per scrostare un po’ di Medioevo, magari evitando i forconi.
Un altro modo, ancora più efficace degli scioperi anti-corporazioni
via Twitter (e forse persino delle liberalizzazioni per decreto), è la
tecnologia. Groupon, celebre e celebrato sito di vendita di
prodotti/servizi di varia natura (dai parrucchieri agli alberghi) super
scontati, ha cominciato a pubblicare annunci di professionisti iscritti
ai vari ordini.
Dentisti e avvocati, in particolare, hanno cominciato a pubblicizzare
la propria attività su Groupon a tariffe ben più basse di quelle
“consigliate”. Gli ordini professionali, infatti, già dai tempi delle
famose lenzuolate dell’allora ministro Bersani non hanno più facoltà di
imporre tariffe minime e massime vincolanti ai propri iscritti che una
volta erano una loro prerogativa, per via delle menate sulla deontologia
professionale sotto assedio.
Devono però aver interpretato il termine “consigliate” in modo assai restrittivo, perché negli ultimi mesi sono fioccati i richiami ai professionisti rei di essersi messi online
a prezzi di saldo. A giorni si attende il verdetto dell’Antitrust,
interpellata da Groupon sulla vicenda. Il richiamo non è solo un atto
formale, ma l’anticamera dell’espulsione. Gli ordini hanno dunque
dichiarato definitivamente guerra alla contemporaneità, subodorando
forse aria di estinzione.
Sarà anche vero che “a New York i tassisti poveracci sfruttati del Bangladesh dormono in macchina”, come sostiene
il capo dei tassisti romani, secondo dei non eletti nel 2008 nel
partito della rivoluzione liberale all’amatriciana, ma siamo sempre lì:
bastonate per tutti (più forti per chi non le ha mai prese) oggi è
l’unica giustizia sociale possibile. In un paese normale un tassista non
guadagna il doppio (dichiarato) di un ricercatore.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
9 novembre 2011
DO SOMETHING
 In tempi in cui l’Italia rischia l’11 novembre dei
conti pubblici a causa dell’impotenza dei suoi timonieri, l’azione in
quanto tale assume connotati rivoluzionari. A guardarci bene il rovescio
di popolarità del premier, sia tra gli elettori che sui mercati
finanziari (oltre che tra le élites cosmopolite che lobbeggiano
sull’economia globale, ma questa non è una novità), è dovuto proprio a
questa percezione d’impotenza. Che per “l’uomo del fare” significa la
pietra tombale sul suo carisma.
Così sono saltato sulla sedia quando ho aperto il sito del Corriere e mi sono imbattuto nell’azione di Giuliano Melani, che ha speso oltre ventimila euro per comprarsi una pagina del Corriere
con un accorato (e molto ben scritto) appello agli italiani perché si
comprino il debito, prendendo esempio dai giapponesi (il doppio del
nostro e tutto in casa). “Io non sono Diego Della Valle, ma voglio
essere uno dei portatori sani della soluzione. Questo appello mi è
costato un botto, per favore non fatene carta da macero!”
“Sono circa 4.500 euro a testa: lo so che le medie ci fanno fessi ma
state sicuri che molte persone dispongono di queste cifre”. Melani non
ha fatto il vago, ma si è messo a fare i conti in tasca agli italiani
entrando nel merito dell’investimento. “Vi giuro che ci conviene, negli
ultimi due anni sono state poste in essere manovre per 200 miliardi,
sono andati tutti perduti perché nel frattempo sono saliti i tassi
d’interesse sul debito”. Impeccabile, e subito ipercitato da politici e
banchieri. Sicché mi son detto: pensa se l’avesse detto Bersani a Piazza
San Giovanni.
Invece la ditta, in compagnia dei soci di Vasto, era impegnata
nell’operazione antipatia contro Renzi, uno che sgomita quando i giovani
dovrebbero stare a cuccia e aspettare il proprio turno. Mettersi a
disposizione. Troppo decisionista/protagonista questo Renzi, sembra
Craxi o Berlusconi (ci è pure andato a cena, l’infingardo) a sentire gli
umori della base del Pd, prontamente riportati dai segugi di Repubblica. Il Fatto l’ha paragonato al Duce, per non sapere né leggere né scrivere. Per la Bindi è un provocatore.
Secondo Bersani
alla manifestazione del Pd “c’è stato solo un battibecco. È stata una
cosa spiacevole. Ma vorrei ricordare che Renzi è uno del Pd e io sono
anche il suo segretario.” E poi, naturalmente, bisogna pensare
all’Italia, non ai destini personali, che non coincidono mai con le
ambizioni di chi sta fuori dal cerchio magico. Poi arriva la rasoiata di
Prodi: “Bersani è una persona eccellente, di grandi capacità, posso
dirlo, è stato un mio ministro, ma non riesce a “uscire”… Non è
confortante leggere che, con quel che succede, nei sondaggi il Pd non
riesce a crescere come ci si aspetterebbe”.
Certo l’inazione snervante e inutilmente parolaia del centrosinistra,
quella sinistra sensazione di “indecisi a tutto” che con il governo
dell’Unione aveva rapidamente raggelato ogni speranza di cambiamento
dell’elettorato, contribuisce non poco ai crucci del Professore. Anche
Prodi non fa il vago e presenta il conto al “manico” della ditta, con
tutta la crudele cortesia di cui un bolognese (acquisito) è capace.
L'articolo, con foto, è stato pubblicato su The FrontPage.
|
6 giugno 2011
ATTENTATO ALLA NEGROMANZIA
“A Nichi Vendola voglio bene. Ma quando va in una città che non
conosce dovrebbe ascoltare più che parlare”. Promette proprio bene il
sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, che non ha digerito il
comizietto al solito tempestoso e appassionato con cui il leader di
Sinistra e Libertà ha salutato la sua storica vittoria, in Piazza del
Duomo. Il carisma da trasferta del governatore della Puglia, aspirante
Pisapia nazionale, è stato giudicato inelegante e inopportuno dal
“sindaco di tutti”, che ha puntualizzato stizzito che “a Milano si è
vinto perché abbiamo parlato dei problemi di Milano”.
Il negromante Vendola,
a regola, se la deve guadagnare anche e soprattutto in casa propria e
non basteranno i “comizi d’amore” e l’ispirazione poetica per ottenere
lo scettro di candidato premier del centrosinistra. Anche il carisma
popolano (supponendo che il cosiddetto popolo si disinteressi del tutto
ai congiuntivi) di Antonio Di Pietro sembra essere offuscato dalla nuova
pop star manettara che, fresco dell’immunità concessa dal
Parlamento Europeo nella causa per diffamazione intentatagli da
Mastella, ha sbancato l’elezione a sindaco di Napoli con oltre trenta
punti di scarto sul candidato del Pdl e senza apparentarsi col Pd.
Ma il grande sconfitto, celebrato da tutti i giornali, che s’è
candidato al consiglio comunale di Milano e ha preso la metà dei voti
dell’altra volta, è il negromante-capo. L’attuale (e spesso deprecata a
vuoto) personalizzazione della politica è una sua creatura, così come la
cultura di massa che ha segnato nel bene e nel male l’Italia a colori e
ha preparato il terreno. Ora forse gli è sfuggita di mano. L’era
televisiva è agli sgoccioli e il solo fatto di dare la colpa della sua
sconfitta a Santoro & Co. la dice lunga sulla consapevolezza
dell’uomo circa la contemporaneità e i suoi crucci. Berlusconi è
invecchiato davvero.
Fini, Casini e Rutelli, aspiranti negromanti da una vita, non se la
passano molto meglio. Certo, possono consolarsi con il solito balsamo
della rendita di posizione che, un po’ qui un po’ là, garantisce al
cosiddetto Terzo polo (che al pari degli altri due è diviso su tutto ciò
che in politica è fondamentale: valori, opzioni etiche, visoni del
mondo) qualche scampolo di esistenza che solo l’Italia delle eterne
signorie non rende del tutto effimera. Niente a che spartire con il
sogno finiano della destra legalitaria e liberale che scaldava i cuori
anche a sinistra (non sembra passato un secolo?) o con l’improbabile
riscossa neo-democristiana dai capelli ormai quasi tutti bianchi, ma
ancora abbastanza George Clooney per seguitare a prendere voti in
parrocchia (Casini e Rutelli sono interscambiabili a tale proposito).
Chi pare non avere di questi problemi è il segretario del Pd. Bersani
è unanimemente considerato l’anti-carisma per antonomasia e, di
conseguenza, la nemesi antropologica di negromanti e arruffa-popolo. Di
certo l’insperato trionfo elettorale della sua parte politica si deve a
una nuova leva di negromanti che, per consolidare il potere acchiappato,
si vede costretta ad ammazzare i padri, spesso vecchi e ingombranti. Il
rabdomante Grillo l’ha capito al volo con De Magistris (ogm scoperto
dal comico genovese e impiantato nell’Idv) e ha tentato di azzannare per primo tirando su il solito teatrino all’italiana.
Con la negromanzia berlusconiana al tramonto e i leader “usato
sicuro” di centro, destra e sinistra in potenziale affanno, a Bersani
tocca la scelta. Giocare in proprio, puntando sulla sua immagine di
“affidabile riformista con la testa sulle spalle”, o puntare su un
negromante di partito (c’è?) in grado sia di scaldare i cuori che di
governare l’Italia? Non si sa contro chi correrà ma vista la posta in
gioco conviene puntare sul migliore, anche se significa sacrificare un
po’ di ego. Siam mica qui a smacchiare i giaguari, o no?
|
5 aprile 2011
AI CONFINI CON LA REALTÀ. E OLTRE.
 “Sono pazzi. Hanno fatto una campagna epitaffica, in bianco e nero, tombale: più che Oltre, direi Oltre-tomba.
Il Pd così è morto, e Bersani è il Caro Estinto”. Oliviero Toscani ha
le idee chiare sulla campagna milionaria del Pd (è un esperto di tappezzamenti nonsense su larga scala, come dimostra la campagna per il ministero della salute di Livia Turco, con berrettino da sexy-infermierina come surplus di sadismo creativo), talmente chiare che il Fatto Quotidiano si è sentito in dovere di ospitare, poco dopo, un’intervista ai creativi annunciata come una sorta di surreale par condicio
postuma. Fatto sta che il segretario del Pd, nelle ormai celebri
maniche di camicia, incombe in stazioni, bus e tangenziali, in metro e
per strada accompagnato dal monumentale “oltre”, che si staglia
oltremare contro l’orizzonte.

A parte la campagna, colpisce la
sproporzione tra i quattrini spesi e la modestia dei risultati (sia in
termini di sondaggi che d’immagine percepita). Non è un problema solo di
Bersani, ovviamente, ma il confino della politica su manifesti di tutte
le stazze prima di essere una cosa stupida è un errore. Il calcolo
della redemption a seguito di una campagna di affissioni è un
esercizio divinatorio meramente quantitativo (quanta gente passa in
macchina davanti ad un 6×3, quanti passeggeri leggono una locandina in
treno, ecc.) che non fornisce alcuna indicazione realmente utile circa
l’efficacia del messaggio e la sua capacità di generare consenso, che
dovrebbero essere le ragioni per cui si spende.
In rete e sui social network, invece, è possibile misurare il feedback
degli utenti con millimetrica precisione e comunicare con l’intera
società a partire da micro-target ben precisi. Nonostante
l’analfabetismo tecnologico di massa, che inchioda l’Italia agli ultimi
posti di ogni classifica, i numeri sono tali da rendere internet un
mass-media a tutti gli effetti. Misteriosamente, però, i partiti
continuano a svenarsi per invadere periferie e centri storici di facce e
scritte, solitamente brutte a vedersi, e a farsi massacrare in rete dal
primo popolo viola che passa. Come se Obama non fosse mai esistito.
Poi c’è un problema politico di
appiattimento dei contenuti, che a forza di essere compressi in format
concepiti per vendere pomodori in scatola o bibite gassate, rischiano di
risultare afoni se privi di un’identità precisa. Buona parte delle
parole della politica ormai non significano più niente, tanto sono
inflazionate, se non sono associate a qualcosa (o qualcuno) di
riconoscibile e, almeno, verosimile. Le generiche affermazioni di
principio, frullate da creativi e personale politico fino a diventare
inodore e insapore, come quelle della campagna di Bersani (“oltre la
crisi c’è il coraggio delle imprese” e via stupendo), servono solo a
passare un velo di tristezza sulle gesta di un partito che appare
esausto nonostante abbia appena iniziato la scuola materna.

Poi
ci sono gli originali. A Bologna il candidato sindaco del Pd è Virginio
Merola, ex assessore della giunta di Cofferati, un tipo abbastanza
pimpante da mettere la faccia alle primarie per la seconda volta in due
anni, nonostante alle consultazioni che incoronarono Delbono (dimessosi
pochi mesi dopo per il Cinzia-Gate) fosse arrivato terzo su quattro.
Dopo aver vinto le primarie di quest’anno (con la bizzarra idea di
scopiazzare la stella Virgin per il logo) ha deciso di affidare la comunicazione per le secondarie a un’agenzia bolognese. Non è dato sapere quale fosse l’obiettivo di Merola, ma l’esito è un nuovo e stupefacente vertice surrealista: “se vi va tutto bene, io non vado bene”. Con il “non” sottolineato. Verso l’infinito e oltre, direbbe Buzz Lightyears.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage, da cui sono state tratte anche le immagini.
|
3 dicembre 2010
"MEGLIO IL FUOCO DELLA BATTAGLIA"
“Due canaglie votate al male. Concentrato di malefica intelligenza.
Subodoro una trappola. D’accordo. In chat su fb.” Mauro Zani non ha
dubbi e, brusco e bonario come l’archetipo di emiliano che incarna,
accetta su due piedi la mia intervista per tFP. “È il blog
diretto da Velardi&Rondolino che mi dicono di salutarti (consapevoli
del rischio di essere mandati a cagare per interposta persona) e mi
piacerebbe sapere il tuo parere su Pd, Bologna, rapporto con la Rete. Se
ti piace l’idea possiamo anche fare in chat, qui su Facebook, su Skype o
dove credi.” Dopo un paio di giorni, a sera tarda, abbiamo combinato.
Ecco il copia e incolla di com’è andata.
Zani (Z): “Forza”
Orione
(O): “Dunque, Mauro Zani: consigliere comunale, consigliere
provinciale, presidente della provincia di Bologna, segretario del Pci…”
Z: “Già, eccomi”
O:
“Poi segretario regionale, consigliere regionale, deputato, eurodeputato
e coordinatore della segreteria nazionale Pds-Ds, adesso blogger. Lei
fa il blogger a tempo pieno? Ha smesso di fare politica attiva per
davvero? Come si sente?”
Z:
“Fermo lì. Una cosa per volta. Faccio il blogger certo. La politica la
osservo e se del caso la critico. Son come quei pensionati che
s’aggirano intorno agli operai al lavoro e… mugugnano, e… avanzano
rilievi critici…”
O:
“Ci tiene a rimarcare che ha smesso con la politica attiva, l’ho letto
più volte. Dal distacco etereo del blog com’è, la politica?”
Z:
“Già. Niente politica attiva. Altrimenti mi pensano in agguato dietro
una siepe… il lupo cattivo… La politica non sta tanto bene”
O:
“Lo stato di salute di Pd e Pdl sembrano darle ragione… Perché, secondo
lei, dal ‘92 ad oggi il grado di consunzione di partiti e leader
politici è così alto? A sinistra, in particolare, è un’ecatombe”
Z: “M’interessa più stare a ridosso del Pd naturalmente. E… son così annoiato d’aver sempre ragione”
O: “Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino, Cofferati, Franceschini, Bersani, Prodi… ne ho perso qualcuno?”
Z:
“Beh, consunzione dei leaders? Forse, resta che s’avvicendano più o
meno gli stessi. Li conosco, a memoria… Appunto son quelli”
O:
“Ma perché nessuno molla, come lei? Non lo capisco. Voglio dire, ha una
bella pensione, un sacco di amici sparsi per il mondo, parecchi libri da
leggere in sospeso…”
Z:
“Questione egoica. Hanno poco rispetto per le loro persone… e poi in
pensione non si sta tanto bene. Meglio il fuoco della battaglia. Per
mollare basta andare per cinque anni nel Parlamento Europeo. E non vedi
l’ora che finisca! In sostanza per mollare bisogna fare un apposito
training… io modestamente lo feci”
O: “Si vede… Devo confessarle che all’inizio non ci credeva nessuno…”
Z: “Già. Poi però non mi va di starmene zitto e buonino…”
O: “Nono, intendo che nessuno credeva che fosse lei”
Z: “Prego?”
O: “Alcuni hanno insinuato che fosse un vero e proprio furto d’identità… un gesto dadaista”
Z: “Fantastico, è un mondo pieno di matti!”
O:
“Un erede di Guy Debord si era impadronito del brand ‘Mauro Zani’ e le
stava suonando a tutti di brutto… beh, non era una tesi tanto campata in
aria. C’era una discreta differenza tra il prima e il dopo di Mauro
Zani”
Z: “In verità c’è chi sa bene che io ho sempre suonato, adesso ho semplicemente cambiato strumento. E non mi dispiace”
O:
“Comunque, sono felice che quello che diceva che Zani era morto e il
blogger era uno sciacallo identitario si fosse sbagliato…”
Z: “Comunque quello vero è il blogger, seppur in erba”
O: “Bene: da bolognese chiedo al blogger, che dal cv mi pare informato dei fatti, che sta succedendo a Bologna?”
Z: “Sono informato anche dei misfatti”
O: “Immagino… lo spettacolo penoso che la riportò in città nel ‘99 si sta ripetendo o è una mia idea?”
Z: “A Bologna assistiamo con ogni probabilità all’ultimo atto di una
lunga storia. Quella di una sinistra al governo per mezzo secolo e che
dopo la nascita del Pd s’appresta a passare il testimone ad altri.
Difficile dire adesso come andranno le cose, ma può persin darsi che,
con l’aiuto di Vendola, Dossetti si prenda una rivincita post-mortem.
Naturalmente non ho nulla contro gli eredi di Dossetti, tanto più che
fino a qualche mese addietro, era persin possibile che la rivincita la
prendessero i legittimi inquilini di Via Altabella. Sì, insomma, per i
non bolognesi la Curia. In sostanza non si sta ripetendo semplicemente
lo ‘spettacolo’ del ‘99. Con la meravigliosa idea che ha fatto
frettolosamente nascere il Pd tutto lo scenario è cambiato. Non son
sicuro che a Bologna e a Roma se ne abbia contezza”
O: “Lo
scenario è cambiato, non solo a Bologna e in Italia. Non mi pare che il
Pse goda di ottima salute… I socialisti stanno perdendo ovunque in
Europa, mentre la sinistra conquista il Sudamerica stato dopo stato,
facendo la sinistra per davvero… Qual è la lezione?”
Z:
“Infatti. Perciò, modestamente, a suo tempo spiegai che si trattava di
cercare una nuova (parolone antico) sintesi. Un progetto demosocialista.
L’idea, semplice, che siamo tutti democratici dopo l’89, e che quindi
definirsi semplicemente tali è come cercar d’afferrare il nulla. Calci
al vento. Perché la sinistra in America del sud vince? Semplice: perché
critica la liberaldemocrazia nei fatti e non con la semplice ideologia,
della serie siamo socialisti, punto. O siamo democratici, punto. Morale.
Ci vuole un’identità definita. Per me basterebbe definirsi come democraticiesocialisti tutt’attaccato. Insomma ripartire bisogna, a costo d’attraversare il deserto.”
O: “Ok, e cosa significa, con un esempio, essere democisalisti? Demosocialisti, faccio fatica a scriverlo…”
Z:
“Capire che tutte le democrazie sono alla prova della globalizzazione
dell’economia e dei mercati, ad esempio, e di conseguenza imprimere
efficacia alla democrazia chiudendo la fase (novecentesca) della
liberaldemocrazia. Come? Recuperando e facendo circolare ideali, valori
di giustizia sociale nella democrazia. Ed è chiaro che ciò significa
promuovere taluni interessi contro taluni altri. Se son bigi tutti i
gatti allora le persone stanno a casa. A guardare (quando va bene) la
politica dallo schermo”
O:
“Ultima domanda: perché non si è candidato lei sindaco di Bologna? Lo
sa, vero, che con una buona campagna, lei poteva vincere…?”
Z:
“Per la ragione che avrei avuto contro prima di tutto il Pd. E anche
per il solito egotismo. Della serie: se non mi vogliono peggio per loro.
In più io non son adatto per le autocandidature. Proprio per niente:
all’ego s’aggiunge, paradossalmente, una ritrosia innata. Insomma siam
mal fatti!”
E’ mezzanotte passata, l’intervista è agli sgoccioli e Zani si concede un’ultima zampata.
“Piccolo motto conclusivo per i dirigenti nazionali del Pd: quando i
gatti han lo stesso colore scorazzano le volpi. E non son solo grilline.
Occhio ragazzi!”
Il blog di Mauro Zani è qui. L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
13 luglio 2010
OPPOSIZIONE SUL WEB
 “In assenza di opposizione «esterna» — il centrosinistra, privo di
identità, sembra incapace di essere un’alternativa ideale e
programmatica credibile — il centrodestra si è creato un’opposizione
«interna».” Piero Ostellino sul Corriere della Sera
rinverdisce la quotidiana consuetudine nazionale alla bastonatura di Pd
e soci, rei di non contare nulla (né di fare granché per riuscirci)
proprio durante l’apparente implosione in corso nella maggioranza di
governo in diretta mainstream e con apici di autolesionismo degni,
appunto, della sinistra (il match Bocchino vs resto del Pdl sul caso Verdini è solo l’ultimo e più chiassoso esempio).
Sparare sul Pd è diventato una pratica talmente diffusa e bipartisan (Valentino Parlato domenica
sul Manifesto non è stato certo più tenero di Ostellino con Bersani e
la ditta) da suonare ormai fastidiosamente oziosa. Non che il resto
dell’opposizione brilli per acume progettuale alternativo. Vendola è
impegnato nell’ennesima insopportabile metafora operaista (la Fabbrica
di Nichi), messa in piedi da gente che in fabbrica difficilmente ha mai
messo piedi, capace di sfornare un’altra verbosa kermesse
(gli stati generali, forse i trentesimi convocati da ogni sinistra in
circolazione) e di chiamarla Eyjafjallajökull – Eruzioni di buona
politica – umiliando in termini di dadaismo (involontario nel loro
caso) Rondolino (che su The FrontPage ha declamato il suo “elogio del vulcano islandese”).
Il karma manettaro di Di Pietro gli si sta rivoltando contro (il
figlio sotto inchiesta, le foto con gli spioni, i sospetti sulla
gestione familiare dei fondi del partito) e i compari di tante
crociate (Flores D’Arcais, Grillo, De Magistris) gli stanno voltando le
spalle uno a uno a suon di oblique prese di distanza, fronde interne o
furiose graticole mediatiche. Casini flirta di nuovo col premier in
panne e quindi potenzialmente più generoso (col cinismo realista dei
democristiani), Ferrero fa il doppio lavoro tra Regione e partito e
Pannella vuol mangiarsi pure Bordin.
In questo scenario desolante è uscita la campagna del Pd dell’Emilia-Romagna (realizzata dalle Lance Libere) contro i tagli agli enti locali imposti dalla scure di Tremonti: sito, profilo su Facebook,
450000 cartoline da spedire all’inquilino di via XX Settembre e
molteplici opportunità di partecipazione. Non sarà la rivoluzione
d’ottobre ma si capiscono bene le ragioni concrete per cui i cittadini
(a parere del Pd) dovrebbero essere incazzati col governo. E per una
volta bavagli, amanti, tangenti e P3 non c’entrano niente.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. L'immagine viene da qui.
|
|
|