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 VOTO Per il partito del diavolo. Quello dei mercanti, delle mignotte, dei preventivi.
Che ha inventato il marketing e gli hippie. Principio vitale e creatore, maschio, della contemporaneità. Ora, però, sta perdendo dei colpi. Martiri e beghini non fanno altro che strillare di valori e verità. Tutte balle per il vecchio tiranno, avvezzo alla ruvida legge del business e a quella melliflua del piacere. Parole incomprensibili, sparate in tutto il mondo dalla comunicazione.
Il re si era illuso. Per anni aveva dimenticato: non era solo al suo arrivo. La comunicazione era sempre stata lì. Creatrice, femmina, dell’umanità. Il vecchio aveva creduto di dominarla e in effetti per lungo tempo era andata così. Non aveva più memoria di essere anch'egli una sua creazione. Una funzione. Lei poi se ne stava in un angolo. Zitta e buona, casa e bottega.
Non aveva fatto una piega neanche quando le aveva portato a casa la tecnologia. L'arrivo della nuova amichetta sembrava non turbarla. Anzi: assecondava di buona lena ogni morbosità del veccho pervertito. Poi ci ha preso gusto e ha cominciato a giocare per sé. La nuova non le dispiaceva affatto, era una complice ideale. Efficiente, assecondava ogni voglia con pruriginosa meticolosità. E aumentava sempre la posta.
Dominata e dominatrice, allora, si sono messe a giocare insieme. Proprio sotto gli occhi del re, che non vedeva e si compiaceva: la partita era sempre più eccitante. Ma gli sguardi tradivano e il vecchio era costretto a rincorrere. Sempre più spesso non capiva e passava in rassegna prima l'una poi l’altra, a ripetizione, per afferrare qualcosa. La bocca spalancata.
Loro lo tranquillizzavano, gli facevano le coccole e lo mettevano a dormire. Era stato un re glorioso e non si meritava uno scherno manifesto. Dentro di loro, però, sapevano già come sarebbe finita.
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13 aprile 2013
B COME BALLE
“Non ti
ho tradito. Dico sul serio. Ero… rimasto senza benzina. Avevo una gomma a
terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva
portato il tight. C’era il funerale di mia madre! Era crollata la casa!
C’è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è
stata colpa mia! Lo giuro su Dio!”
Chissà perché ma quando mi è capitato per le mani il volantino del Comitato “B come Bologna”, ribattezzato “B come Bambini” dal sindaco Merola con la grazia di una bombarda, mi è venuto in mente John Belushi.
Sporco fino agli occhi, nella fogna, che si butta in ginocchio ai piedi
della sua ex promessa sposa che ha mollato sull’altare (l’indimenticata
Principessa Layla di Guerre Stellari).
“Se voti
A: verrà abolito il contributo economico alle scuole paritarie
convenzionate, circa 600€ a bambino all’anno… I gestori saranno
costretti ad aumentare la retta annuale di almeno 600€… Questo
provocherà un significativo calo degli iscritti, oltre 400 famiglie, da
subito, abbandoneranno le scuole “paritarie non più convenzionate” e
andranno ad infoltire le liste d’attesa delle scuole comunali e statali.
Con i soldi non dati alle scuole convenzionate il Comune non sarà
assolutamente in grado di dare un posto a tutti…”
Esticazzi
se è un referendum consultivo. Il Pd di Bologna da qui al 26 di maggio
pare non abbia di meglio da fare che andarsene in giro per circoli e
periferie a tentare di convincere operai, casalinghe, pensionati, ex
partigiani, studenti, volontari delle Feste dell’Unità e delle Case del
Popolo, gente che ne ha mandate giù parecchie anche qui ultimamente, che
si, alla fine dei conti, sborsare un milione di euro all’anno alle
scuole private è cosa buona, giusta e inevitabile. Sennò arrivano le
cavallette.
E pace se
c’è la crisi, le scuole pubbliche cadono a pezzi, le liste d’attesa ci
sono lo stesso e il milioncino viene gestito ogni anno in toto dalla
misteriosa Federazione Italiana Scuole Materne, che dietro l’asettico
acronimo FISM
è una roba così: “Oltre le necessarie qualità professionali esigite
dalle leggi civili, l’insegnante dovrà: a) possedere una solida
conoscenza della visione cristiana dell’uomo e della dottrina della
fede; b) accogliere con docile ossequio dell’intelligenza e della
volontà l’insegnamento del Magistero della Chiesa; c) vivere
un’esemplare vita cristiana”.
Pazienza,
pure, se 250 euro e passa al mese di retta (in media) non sono
esattamente a buon mercato: più del doppio della scuola pubblica (dove
si pagano solo i pasti). Il gioco deve valere così tanto la candela da
piazzarci il marchietto del Comune (cosa, credo, senza precedenti) sul
sito internet del comitato “B come Bologna” contrapposto a quello dei
cittadini, “Articolo 33”.
Avanti coi carri, dunque, ora che l’unico cavallo rimasto in pista si
chiama Matteo Renzi, è cattolico, e il suo (ex?) spin doctor pare abbia
preso a cuore la madre di tutte le battaglie di ogni Don Camillo.
Eppure di questi tempi
andare a raccontarla ai propri elettori, sempre più sinistramente
simili all’ex fidanzata di Jake Blues, ci vuole un gran bel fegato.
Anche perché c’è la possibilità che molti di loro si siano trovati, come
me, ad avere a che fare con qualcuna di queste scuole paritarie che,
figurarsi, di certo ce n’è delle bellissime. In quella a cinque minuti a
piedi da casa mia però, nella Romagna profonda, fanno pregare i bimbi
di tre anni due volte al giorno e dentro sembra di stare al mausoleo.
Dal sito
Internet abbiamo pure scoperto che, a parità di punteggio, entrano “i
figli o nipoti in linea retta di soci dell’Asilo”. Lo dice il regolamento, non il gossip di paese, c’è da fidarsi. Beccano anche un sacco di soldi
da tutti, Comune, Provincia, Regione, la retta è il triplo di quanto
spendiamo alla statale (dove con quattro soldi si sbattono per mettere
in piedi una didattica ricca e creativa), ma in compenso è pieno di
bagni. Mai visto tante Madonne, santi e cessi tutti in fila: non meno di
un water ogni tre fanciulli.
E mentre
mi rigiravo per le mani “B come Bologna, più scuole per tutti”,
rimuginavo sul rinnovato matrimonio tra il Pd cittadino, la curia, il
baronato e tutti i presunti poteri forti, coronato da due ali di
battimani sincronizzati di Pdl, Lega e Udc. Proprio mentre l’esploratore
Bersani si faceva infilzare come un tordo da Grillo e pur di evitare
l’abbraccio con l’Impresentabile si lasciava corcare in streaming senza
pietà.
In quel
preciso momento il Pd di Bologna ha deciso, a freddo, di tirarsi
un’atomica a sinistra lasciando da lì in avanti una prateria al
Movimento 5 Stelle, che infatti ha già cominciato
a fare quello che gli viene meglio: mettere il cappello sullo
sbattimento di movimenti e associazioni assortiti. Per poi oscurarli (di
solito son litigiosi e disorganizzati, si squagliano in fretta) e
trasformare il conflitto in voti. Che si tengono tutti per loro.
Bologna,
in fin dei conti, è sempre stata un laboratorio politico per la
sinistra. Perché non dovrebbe esserlo pure nell’ora dell’estremo trash?
Quindi delle due una: o Bersani bluffa e la via crucis con Grillo è
stata una tragicomica gag alla Crozza, buona per andare a veder le carte
del compare astrologico e tentar poi insieme l’omicidio bipartisan di Renzi. Oppure no: in entrambi i casi al Pd tira aria di estinzione. E dare in pasto la scuola pubblica non li salverà. Né dagli altri né, soprattutto, da sé stessi.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. "Mi sono rotto il cazzo" degli Stato Sociale è qui.
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15 marzo 2013
ANTIVIRUS
“Più di così divertirti non puoi… amico sì, sei in alto e lo sai.
Rose su rose, tutti premi per te, non aver dubbi sei un re. Complicità,
quanta gente con te… continuerà fino a quando vorrai. Rose su rose,
ricchi premi e cotillons e non frenare, questo no. Ma no che la vita non
è qui, è più in alto di così ah, cosa dici, sì… ma no, di passato non
ne hai, di futuro non ne vuoi, ma di che mondo sei? Guarda più in là,
quanti amori non hai… amico sì, stare senza non puoi. Rose su rose e con
loro appassirai, resterai solo coi tuoi guai…”
Non so perché, ma quando ho letto la fucilata di Grillo al povero
Bersani (“Se il M5S vota la fiducia lascio la politica”), m’è venuta in
mente Rose su rose. Temo ci sia di mezzo un’altra volta la polizia del karma
e la sua, nota, ineluttabilità. Mina è una gran donna dotata, tra
l’altro, di un’esibizionistica misantropia che mantiene inalterato il
suo appeal. Appena l’irredento Beppe s’è tuffato fra Scilla e Cariddi,
qualche mese addietro all’inizio dello tsunami, lei l’ha letteralmente
frustato sulle chiappe.
“È vero, c’è qualcosa che fai esattamente come Mussolini, come
Stalin, come Mao, come Giannini ed è bere, dormire, mangiare e, orrore,
fare la cacca. Vorrei già richiudere l’oblo e impegnarmi a emulsionare
una buona maionese con le uova fresche, quelle dei giornali
precedentemente citati, appunto. Sarà meglio. Mi concedo solo un piccolo
momento per un’incazzatura. Che bassezza, la povertà di questa
iconografia da strapazzo. Le similitudini per la tua antidemocraticità,
per il tuo qualunquismo, per la tua voglia di reclamizzarti sono pezzi
disordinati di ineleganza, al limite del ridicolo. O della querela. Ne
vedremo delle belle, temo. Tu va’, dritto come un fuso. Corri Forrest,
corri…”.
Giddap! Nessuno però, neanche Mina credo, immaginava che Forrest Grillo arrivasse
al traguardo così primo, benché terzo, e così in fretta. Né che gli
altri fossero già così spompati: il primo troppo rintronato dal gong del
voto e dalle sue temibili ripercussioni
sui prossimi rintocchi di potere nel fortilizio rosso e il secondo
completamente a pelle di leopardo nel tentativo di evitare sbarre, gogna
e/o fuga. B&B, nati sotto il segno della Vergine, destinati a
salvarsi o suicidarsi. Sempre insieme.
“Più di così divertirti non puoi, amico si sei in alto e lo sai”, non
c’è ombra di dubbio. Ma quando arriva Bersani col cappello in mano, con
proposte che messe in fila (una volta riacciuffate all’italiano
corrente) fanno impallidire anche il girotondino più canuto e accanito,
siamo sicuri che sia saggio concedere l’ennesimo bis del celebre mantra
che l’ha coperto di “rose su rose”? Poi, certo, “tutti premi per te, non
aver dubbi sei un re”…
Sfanculare chi sta schiantando trent’anni di carriera politica e si
prende giornalmente sputi in faccia dagli altri e calci negli stinchi
dai suoi, per governare col M5S costi quel che costi: pagherà? Quando
mai Grillo, 100% a parte, si troverà più in una tale condizione, anche
psicologica, di forza? E mentre ballano i ballerini, tutta la notte e al
mattino, la nave Italia corre verso l’iceberg col 55% della gente che
ha problemi economici e cinque imprese su sei che temono di chiudere
bottega entro fine anno.
La verità è che dopo tanto pontificare di ‘democrazia della rete’,
nel momento esatto in cui Grillo ha risposto picche a chi gli chiedeva
di fare un referendum online per decidere se fare o no il governo con
Bersani (“perché il non-statuto non lo prevede”) è entrato nel Palazzo.
Membro onorario di quella partitocrazia che non prenderà la puzzolente
pecunia romana, visto che restituisce i rimborsi elettorali, ma che
mette l’interesse del suo non-partito davanti a quello dell’Italia.
Per sua fortuna la cresta dell’onda è ancora alta sull’orizzonte dei
sondaggi e degli umori nazionali, al solito creativi. “Alle ultime
elezioni ho votato per qualcuno che non mi piace! Voglio vedere il mio
Paese risplendere e non mi rassegno alla mediocrità della nostra classe
politica, sono un patriota, amo l’Italia”. Ha spiegato, serio, Lapo Elkann a Le Monde, dichiarandosi per il partito di un signore che sostiene, tra l’altro, il raddoppio del prezzo della benzina come eco-terapia d’urto.
Ma, a parte patetici appelli e sondaggi sfornati caldi dai soliti
noti (che proprio non ci stanno dentro), è ovvio che la baracca Italia
ha bisogno di essere governata, anche se fino a quando il precipizio non si profila nitido ognuno
ha una ragionevole quanto bizzarra ragione per pensare che tutto
s’aggiusta sempre. Hai voglia allora a strillare all’inciucio, se pure i
sassi capiscono che anche solo per tornare alle urne c’è bisogno di una
legge elettorale votata da una maggioranza parlamentare.
Così mentre Forrest e Merlino traccheggiano, fra pre-tattica e
terrore, l’ottimismo della ragione consente di scorgere, nelle bizze da
asilo del Pd, un sapiente gioco delle parti. Il segretario uscente e
perdente s’immola nella definitiva parte del vecchio di nobili principi e
riprende a farsi contestare dalla giovane speranza (ultima), che vuole
abolire il finanziamento pubblico ai partiti per “far pace con
l’Italia”.
Sarebbe un bel casino, infatti, se Renzi venisse acclamato dal
politburo a suon di battimani brezneviani. Invece è solo, come prima, e
fuori dal Palazzo. A differenza di Grillo, che c’è dentro fino al collo e
a ogni fanculo, a ogni aut aut, a ogni patetico appello
stracciato, a ogni azienda che chiude, rafforza l’Antivirus che lo
resetterà. Di qui alle prossime, imminenti, elezioni non ci sono solo i
suoi otto milioni e passa di voti, ma pure i quasi dieci di Berlusconi e
compagnia. E sono tutti uguali.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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4 marzo 2013
PRIMA DELL'ESTINZIONE
 Una decina di giorni prima del 25 febbraio 2013, dopo che una pioggia
di meteoriti aveva provocato esplosioni nel cielo degli Urali, un
asteroide di centotrentacinquemila tonnellate e quarantacinque metri di
diametro era sfrecciato a circa ventisettemila chilometri dalla Terra,
alle 20 e 25, ora italiana. Senza apocalissi
di sorta. Anche i più tenaci apologeti dell’Armageddon Maya ritardato
si erano dovuti arrendere alla noiosa evidenza della persistente
sopravvivenza della, cocciuta, specie umana.
Dopo dieci giorni, più o meno alla stessa ora, era ormai chiaro che
in Italia il Maya di turno non era nato tra le nebbie della bassa padana
di Bettola. Di lì a qualche ora l’inviato di Porta a Porta,
imbalsamato nel suo piumotto circonfuso dalle luci di scena e dalla
spettrale quiete residenziale promanante dalla villa del timoniere di
Sant’Ilario, avrebbe spalancato le braccia e il sorriso, disarmante e
disarmato: “non abbiamo contatti con Beppe Grillo, né col suo staff… di
nessun tipo”.
“Gli alieni sono invece introvabili, non sai con chi parlare, sono
inafferrabili, interlocutori politici potenziali e media sono alla
stessa stregua tenuti fuori dalla porta, anzi non c’è la porta, non si
sa dove stanno e che fanno, vai fuori dalla casa di Grillo a Genova o
vai a Bologna dove c’è un’esperienza in Comune o cerchi disperatamente
di vedere se c’è un modello siciliano di omologazione, chissà, non hanno
l’etichetta al citofono, vogliono fare le sentinelle della rete dentro
le istituzioni, la delega ai capi è assoluta, nessuno si sente
autorizzato nemmeno a fingere di avere una opinione per sé, spendibile
politicamente, comunicabile senza passare per l’imbuto del web
controllato dal blogger.”
E pouf. Passa una settimana e l’Italia è Mars Attacks. Alieni, setta, strategia diversiva di matrice neoliberista
o forza di occupazione che dir si voglia: fatto sta che la prima parte
del tanto sbandierato piano di Grillo&Casaleggio è andato
magicamente in porto e l’Italia, le istituzioni repubblicane e tutta la
baracca sono in ostaggio. Dopo anni passati a far le prove,
scimmiottando le Br prima (sul blog venivano pubblicati i “comunicati
politici” con un font tipo ciclostile anni ’70) e scippando poi senza
vergogna Alan Moore, Anonymous e il movimento antagonista dell’icona di Guy Fawkes.
Appena si aprono le urne, come per magia, alcuni dei protagonisti
della storia della Repubblica recente e meno recente non esistono più.
La polizia del karma inghiotte subito Fini, Di Pietro, i comunisti e i
verdi di ogni ordine e grado (già semi-morti), Ingroia, ma anche Casini e
Monti scompaiono presto dai radar delle agenzie dopo le prime,
pallidissime, dichiarazioni di rito. Come previsto dal Piano di
Occupazione Stellare del Nexus 7 con gli occhialoni, rimangono in piedi
solo l’uomo di Bettola e quello di Arcore, nati sotto il segno della
Vergine. Lo stesso giorno.
Vendola, come da programma, comincia a sbarellare e attacca a dare
segni di diserzione ad appena ventiquattrore dalla chiusura dei seggi.
Aveva impiegato fior fior di sonetti e narrazioni per spiegare al popolo
della sinistra e ai fratelli dei media di volta in volta convenuti che
Grillo era un fascista della peggior risma, populista e maschilista
becero, gemello del Berlusca brutto e cattivo, e ora la stessa passione
gli sgorga con medesima ispirata naturalezza per sostenere l’esatto
contrario. Naturalmente ha buon gioco, il timoniere, a prenderlo per il culo senza troppi complimenti.
“Vendola si è ingrillato all’improvviso dopo le elezioni. Si è
vestito di nuovo come le brocche dei biancospini. Sembra un’altra
persona. Ha un rinnovato linguaggio, comunque sempre variegato, e
adopera inusitate e pittoresche proposizioni verso il M5S. Vendola ci
ama: “Grillo non è un fantasma per il quale bisogna convocare
l’esorcista, è un nostro interlocutore”. È lo stesso Vendola che il 20
febbraio 2013, a tre giorni dall’appuntamento elettorale, su La 7
spiegava: “Grillo è un populista di piazza. Grillo è il virtuoso della
demolizione ma chi ricostruirà il Paese? Grillo è un’evoluzione di
Berlusconi.”
Tra l’altro probabilmente è vero. Grillo è un’evoluzione di
Berlusconi tanto quanto il MoVimento a 5 Stelle è un upload di Forza
Italia del 1994. Quello era un partito-azienda e questo sembra assomigliarci parecchio, il timoniere è il leader carismatico assoluto tanto quanto (e forse ancor di più) il Cavaliere Nero
dell’epoca. Casaleggio-Stranamore, poi, è molto più affascinante di
Dell’Utri, anche se con l’ex braccio destro di Berlusconi condivide la
passione bruciante per le cavalcate culturali d’annata.
Dice bene Ferrara: “il punto è che i grillini, nel bene e nel male,
perché questa è la loro novità e la loro forza oltre che la loro
controversa ambiguità, non sono un partito di plastica come fu Forza
Italia, magari, e non sono un partito di terra e sangue come fu la Lega
nord, magari. Non sono proprio, i grillini, un partito o un movimento
materiale, che abbia luoghi di formazione comprensibili e solidi, radici
culturali, un legame anche labile con una tradizione, magari da
ribaltare. Sono leggeri come ultracorpi, body snatchers, invadono lo
spazio pubblico clonandosi e moltiplicandosi con il consenso elettorale
legittimo, ma lasciandosi alle spalle piazze, polmoni e comizi che non
esprimono la loro autentica identità istituzionale, il loro carattere
come soggetto politico, ormai delegato a un esercito di piccole figure
scelte da piccole folle mediatiche sotto la occhiuta sorveglianza di una
società di marketing, la Casaleggio & Associati.”
Sono tutto e niente, festeggiati nell’ultima novecentesca orgia un
po’ lugubre da Dario Fo ed Ernesto Galli Della Loggia, Leonardo Del
Vecchio e “Bifo” (leader del ’77 bolognese), Celentano e Goldman Sachs.
All together. E blanditi e corteggiati, a suon di minacce spuntate e
lusinghe idiote quanto inutili, dall’agonizzante non-vincitore delle
elezioni. Lo scouting dei grillini è una sonora stronzata che permette
al timoniere di gridare al mercato delle vacche, il giorno della
richiesta di quattro anni di carcere a Berlusconi per la presunta
compravendita di senatore.
Dopo aver sbagliato tutto quello che c’era da sbagliare, dalle
primarie blindate agli italiani ai giaguari sul tetto, a quel che resta
del più grande partito della sinistra italiana rimane uno spazio di
manovra molto limitato, ma decisivo. Essersi chiusi nella ridotta di un
piccolo mondo antico immaginario, tra giovani-vecchi spartani
molestatori di blogger e funzionari decrepiti che non rispondono a nulla
se non a patetiche e suicide logiche di corrente, ha impedito sinora di
mostrare al Pd la reale posta in gioco.
Il dopobomba ha l’innegabile vantaggio della nitidezza. E mentre il
duo di Weimar gioca al Joker di Batman e soffia sul caos, aspettando
l’ultimo rantolo di un sistema irriformabile per clonare definitivamente
le istituzioni repubblicane in un software eterodiretto da una
maggioranza di byte “eletti solo dalla Rete”, la gente in carne ed ossa
comincerà presto a farsela sotto. Grillo ha scritto che di qui a sei
mesi non ci saranno più i soldi per pagare pensioni e stipendi:
significa che prevede che in sei mesi salti il banco.
Questo è, ragionevolmente, l’intervallo di tempo rimasto per far
saltare il banco a loro. La seconda parte del geniale piano del
timoniere e del guru capelluto prevede, dopo il blocco della democrazia
repubblicana, il filotto. Si torna a votare, sbaragliano tutti e inizia Brazil.
Per questo sono e saranno indisponibili a qualunque alleanza di
governo, di qualunque genere, con qualunque programma. In questo sta
l’evoluzione, l’upload, rispetto a Forza Italia: nella natura
intrinsecamente totalitaria del loro movimento.
Ma c’è un ma, anche se tenue. La politica: qualcuno è in grado di
portare in Parlamento alcune leggi (poche, radicali e in fretta) che
rispondono all’incazzatura popolare e, rompendo l’incantesimo, mostrano
che si può fare. L’aula sorda e grigia può riformare sé stessa e allora,
si, Grillo potrà serenamente essere mandato affanculo dagli elettori.
Che notoriamente non votano mai per gratitudine.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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29 gennaio 2013
BERSANOIDI ALLA CONQUISTA DEL WEB
 “Uè ragassi, me l’avete menata su tutto il tempo con l’ambaradan
delle Frattocchie 2.0 e sta roba dei 300coslani lì, spartani (che a me
sinceramente stavano anche sulle balle) e poi diobono voi mi mettete su
una cosa vecchia come il cucco, che sembrate quelli che si organizzavano
e partivano in motoretta per andare a fischiare il comizio di quello o
di quell’altro a Porretta Terme e che poi una volta tornati al bar
facevano gli sboroni e si davano di gomito. Tuitter? I socialnetuork? La
campagna vi ci vuole a voi diobono!”
Il commento di Lorenzo riassume alla perfezione il fastidio
epidermico, ben comprensibile per chi ha avuto a che fare coi ciellini
melliflui e implacabili dell’università, che attanaglia dopo un breve
giro nel blog di Mantellini. Dopo aver osato postare il video di Bersani
in macchina che ascolta l’ultimo (inascoltabile) singolo di Vasco
intento a fumare il fido sigaro, titolando “votereste alle elezioni per
uno così?”, lo sdegno organizzato e militante è montato in poche ore.
Di questi tempi elettorali spesso, quando ci si inoltra su Facebook,
Twitter o in qualche blog, capita (è capitato spesso in questi giorni a
diverse persone digitalmente attive) di ritrovarsi sostenitori di questo
o quell’altro politicante candidato, di doversi sorbire una montagna di
inviti, spam, propaganda. Questo è diverso, questa è Sparta (direbbero
loro). Stiamo parlando infatti della war room del Pd, l’unità di guerra elettorale digitale ribattezzata (con sprezzo del ridicolo) per l’appunto “trecento spartani”.
Al netto di veline e velini che impazzano in Rete a compitamente
spiegare quanto sia bella, entusiasmante, collettiva e finalmente
giovane la campagna del Pd, è interessante riflettere sull’operazione
che già dal “manifesto” del blog,
davvero spartano, intende mostrare i muscoli, a suon di dotte citazioni
e paroloni complicati. Poi è ovvio che le chiacchiere stanno a zero, al
Pd di web ci capiscono notoriamente poco e non gli è sembrato vero di
lustrare a nuovo le truppe cammellate di figiciotta memoria.
“È utile quindi considerare il web come estensione agentiva della dimensione analogica (E. Colazzo – Caught in a web, in allonsanfan.it)
e pertanto analizzare quello che succede in rete, e in particolare sui
social media, come qualcosa che vada a completare la sfera offline che
ognuno di noi vive ogni giorno e quindi come una latrice di influenza
che può andare a fissarsi su determinati recettori, se efficacemente
stimolati.” In soldoni: una stanza in via del Nazzareno, qualche
stipendio e uno stuolo di bravi compagni in giro per l’Italia pronti a
menar le mani ogni volta che qualche fighetto parla male del capo.
Dopo il raid al blog, una tipa su Facebook ha commentato: “Ma
Mantellini, di preciso, cosa fa nella vita? Il blogger? Mi sa che aveva
ragione sua madre.” Per poi replicarmi trucida, poco prima di togliermi
l’amicizia: “Grazie al Mantellini rosicone gli Spartani sono
raddoppiati…si metterà l’anima in pace prima o poi, che di web non
capisce solo lui.” La chiave di volta per capire tutta questa baldanza
guerresca è forse proprio la sensazione, immagino liberatoria, di
sentirsi per una volta dei nerd, si, ma fighi.
Non più solo i grillini, quelli dei centri sociali, il popolo viola, gli infidi amici di Civati,
ma adesso che “ci capiscono anche loro di web”, quelli del partitone
doc, non ce n’è più per nessuno. E con la tipica tracotanza degli ultimi
arrivati al party internettiano, giù a dare dello snob e del
fighetto-radical-chic a tutti quelli che si permettono di segnalare che
lo spam elettorale, spesso, porta via voti invece che portarne. E che la
reputazione, sulla Rete, è tutto. Anche per i nativi analogici che
hanno deciso il gran passo, salvo poi trasformarsi in Bersanoidi di scarso appeal politico-elettorale (fuori dai confini della loro Sparta immaginaria).
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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19 gennaio 2013
CAYMANISTAN 2 / IL RITORNO
“Diciamo che la politica va vista con attenzione. Ingroia ora è
un’eversione nera che incide nel profondo il movimentismo ormai smarrito
che si definisce di sinistra, ma che poi si innamora di progetti di
ultradestra come Grillo, Ingroia, Di Pietro. Berlusconi è stato comunque
l’ultimo a fare politica estera e per questo l’han fatto fuori. Se non
altro perché i nemici li preferisco davanti piuttosto che di fianco,
butto anche io Ingroia.”
Il mio vecchio compare di occupazione Fabio Zanon, dopo un acceso e
per certi versi tipico dibattito pre-elettorale su Facebook, risponde
così alla questione che avevo posto all’attenzione dei miei amici
virtuali: “Tra Berlusca e Ingroia giù dalla torre ci spedisco Ingroia”.
Zanon conduce in queste ore un’appassionata e incredula campagna, da
sinistra, contro la candidatura del magistrato palermitano.
La sua incredulità si appunta sull’innegabile dato di fatto che il
calderone politico di tutte le sigle, associazioni, movimenti e
collettivi dell’estrema sinistra (Partito Comunista dei Lavoratori
escluso, se non erro) abbia come leader un magistrato, peraltro di nota
propensione “manettara”, accompagnato da due ex colleghi come il
brillante De Magistris e l’ormai spompato Di Pietro (apripista però di
questa sorta di privatizzazione della politica per via giudiziaria).
Ironica sorte, quella dei militanti dei centri sociali, del movimento
No Tav e di tutte le realtà antagoniste per cui, sinora, il magistrato
di turno era stato fondamentalmente stato il capo delle guardie. Quello
che mandava la perquisizione, faceva sequestrare il computer, arrestare i
compagni di lotta. Ora legalità e questione morale (“intrinsecamente
reazionaria” secondo un altro commentatore su Facebook), diventano erga
omnes il mito fondativo della nuova rivoluzione civile e tengono in
scacco gli altri. “Un po’ come se la Juve entrasse in campo dichiarando:
il nostro obiettivo è rispettare il regolamento”. Sintetizza
efficacemente Zanon.
Spostandosi un po’ a destra, poi, non è che il panorama si rallegri
più di tanto. “Benvenuta Sinistra” ricorda con vago struggimento
“Maledetta Primavera” e i sondaggi consegnano
un poeta pugliese sembra sempre più sfiatato, un po’ dalla competition
col magistrato (che si dichiara gagliardamente pronto a ritornarsene in Guatemala,
dovesse girar male) e un po’ dall’inevitabile abbraccio mortale con la
logica di governo (logica a cui peraltro è ben rodato), fatta più di
compromessi e mezze sconfitte che di narrazioni ispirate.
“Il logo di Monti sarebbe perfetto come nuovo logo del Club Alpino
Italiano, è tristissimo, quasi da pompe funebri e con un font vagamente
fascistoide”. “Scelta civica: con Merkel per l’Italia” è senz’altro il fake
più riuscito del nuovo logo del ressemblement centrista che fa capo a
Monti. Che non è brutto, come dice Toscani, se la pubblicità dev’essere
un modo per rappresentare con efficacia il prodotto.
Perché questo è il prodotto. Ormai a seguire anche distrattamente le
cronache, pare evidente che definire elitario o tecnocratico l’approccio
alla politica di Monti sia piuttosto generico e per certi versi
fuorviante. Il premier si comporta, agisce e interagisce come se fosse
né più né meno, tipo, che il responsabile risorse umane per l’Europa del
Sud della Goldman Sachs o di una Spectre qualsiasi e gli fosse toccata
in sorte la rogna di raddrizzare, secondo logiche aziendali immote e
immutabili, la guappa Italia.
Intanto, nei duri fatti, la gente comincia a toccare con mano quanto e
cosa significa la “cura Monti”. Non solo per una questione di
quattrini, che sono più che sacrosanti sia chiaro, ma in termini di
concezione della vita in comunità. Di spazi di libertà e responsabilità.
Il nuovo redditometro, che inverte l’onere della prova tra Stato e
individuo in materia fiscale, rappresenta assai bene la destinazione
poliziesca a cui conduce il carro funebre dell’austerity montiana.
Gli alleati inevitabili, apparentati coi fratellini di sinistra di
Vendola, sono allo stato attuale l’unico partito in campo. Il Maya di Bettola, confortato dai potenti fiati del destino, ha sparigliato le carte nella sua metà campo (e soprattutto in ditta),
ma ora si trova coi sondaggi che lo inchiodano (di già) alla quasi
ingovernabilità del Senato. Se Ingroia non desiste (e non mi pare il
tipo, visti i precedenti) nelle regioni in bilico (Lombardia, Veneto,
Campania e Sicilia) si fa dura.
Così, dopo le Cayman e il fuoco amico, è partita la corte a Renzi a cui pare stiano cominciando a piovere profferte
di poltrone e primizie. Si dice che il Sindaco di Firenze aspetti il
prossimo giro, il cadavere sul fiume, scommettendo da pokerista sulla
fragilità del sempre più probabile Bersani-Monti-Vendola, per poi
ripresentarsi in camicia bianca col sorrisetto sornione come a dire:
avete visto? Di certo se avesse vinto lui, non si sarebbe assistito al
Ritorno.
L’ennesimo Ritorno, nella partita ventennale tra Berlusconi e il
resto del mondo, la solita incredibile telenovela che inchioda l’Italia a
un’epoca in cui Internet era conosciuto solo da quattro scienziati
occhialuti e il Muro di Berlino era caduto da qualche anno appena. L’Era
televisiva, il passato che non passa, e che giovedì scorso è andato in
onda in prima serata, da Santoro, e ha fatto lo stesso share della
finale del Festival di Sanremo o dei Mondiali.
“Lasciate che vi spieghi com’è questo paese: questo paese non è
governabile” ha esordito Berlusconi nella fossa dei leoni, con un
sorriso smagliante. Chi, come i bagarini inglesi, credeva che
sbroccasse, si mettesse a urlare paonazzo in volto, lasciasse lo studio,
si è dovuto ricredere. “Santoro siamo da lei o siamo a Zelig?” Ha
esclamato a un certo punto in un vertice creativo, quando ormai
l’intrattenimento aveva definitivamente sussunto la politica, prima di
giustiziare il giustiziere: “Lascialo qua, Travaglio, lo voglio guardare
in faccia”. Dopo, come da copione, sono (ri)cominciati i cazzi amari.
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4 gennaio 2013
IL MAYA DI BETTOLA
 “«Il mondo lo hanno distrutto i politici, altro che la profezia dei
Maya!». Il risultato non cambia. Barba bianca e ammirevole coscienza
dell’identità collettiva, «noi valdesi stiamo scappando da seicento
anni», il signor Aldo ricorda di quando il villaggio contava 340 anime e
«le zappe non erano coperte di ruggine, e la farina non era la materia
morta che è adesso ma una cosa buona da mischiare alla segale, per fare
il pane». Nostalgia di un mondo che non c’è più, nel vero senso
dell’espressione? «Distruggere quello che ti dà la vita è puro
autolesionismo. Andate nelle vallate a vedere cos’hanno combinato,
autostrade, dighe, cemento ovunque: se è finita davvero nessun
rimpianto, io me ne sto quassù».”
Non so, francamente, se la farfalla di Bradbury abbia
spiccato il volo, in qualche sperduto angolo del mondo il giorno del
Solstizio d’Inverno del 2012, né se siamo o meno entrati ufficialmente
nell’Era dell’Acquario all’insaputa di tutti, fatta salva naturalmente
l’élite di fulminati new age che ci crede di brutto ed è pronta, ad ogni
aperitivo, a sguainare l’arco nuovo di trinca e ad oliare la zappa. Io
non mi sento così baldanzosamente razionalista da escluderlo. Mi pare
che vedere i bambini che a due anni cercano di cliccare sulle pagine di
carta, quando non hanno per le mani l’iPad, già significhi qualcosa.
Che poi non siamo in salute, che il mondo non stia bene, è chiaro
quasi a tutti. La declinazione ovviamente cambia, ma la sostanza è la
stessa. A che pro? Qual è la posta dello sbattimento? Produci, consuma e
preparati a crepare alla meno peggio? Di quante autostrade avremo
ancora bisogno per capire che il problema non è la coda, ma il week-end?
La gag dei Maya, per chi ha avuto voglia di esplorare, questo è stata:
l’occasione per mettere in fila le priorità, dare ordine alle domande.
“La fine del mondo è la punta Martel, neve, sole e lo spettacolo dei
Tredici Laghi, il torrente dove nuotano superbe trote fario, il volo
dell’aquila reale. L’altro mondo dev’essere finito due tornanti più
sotto, a dar retta ai Maya, e un giorno qualcuno controllerà. Non c’è
nessuna fretta.” Secondo l’aneddotica gossippara il villaggio di
Pradeltorno sulle Alpi Cozie era uno dei tre o quattro buchi del culo
del mondo in cui ci si poteva salvare dall’Armageddon.
Invece
“il settimanale L’Eco del Chisone (…) ha scoperto che la leggenda
piemontese è spuntata su Wikipedia solo il 4 giugno 2011, mentre le
indicazioni su Bugarach affondano le radici nella notte dei tempi. Non
solo: nessuna fonte citata, riscontri zero, e come si sa chiunque può
arricchire le voci di Wikipedia senza alcun controllo. Secondo il
giornale l’anonimo collaboratore della libera enciclopedia telematica
risulta poi essere un utente Vodafone della vicina Pinerolo, c’è anche
il numero dell’apparecchio…”
Ora che comunque l’allineamento non s’è allineato, la Cintura
Fotonica non ci ha fritto come coleotteri maldestri nella lampada
alogena e gli ufo non sono sbarcati su un rosso deserto piallato dal
sole, adesso che alla mezzanotte del 21 dicembre 2012 – ora italiana –
solo lo show un po’ mesto di un sito a caccia di click ha messo in scena il countdown per
la fine di un mondo “che è già finito da un pezzo”, ora che sono
passati pure Natale, Santo Stefano e Capodanno sarà finalmente chiaro a
tutti che l’unico vero Maya in circolazione è nato a Bettola.
Non certo Monti e la sua allegra brigata di banchieri, giannizzeri
finanziari e attempati perdigiorno della politica, di cui su Facebook
circola una simpatica epigrafe virale: «Dopo la saldatura di Monti,
Casini e Montezemolo con il Vaticano, mi aspetto l’appalto a
Finmeccanica per la costruzione della Morte Nera». Monti è stato
benedetto dalla follia nichilista di Berlusconi e forse il 24 febbraio è
abbastanza vicino da non far notare troppo il l’assai poco tecnico
codazzo d’imboscati, ma difficilmente riuscirà a far meglio di Mariotto
Segni diciannove anni fa. Perché dovrebbe?
E certo non sarà una gang di mozzorecchi assortiti, che non ho capito bene se ha sussunto in toto la versione law and order de sinistra 1.0 (l’Idv del buon Tonino, kaputt nei sondaggi dopo l’irruzione della Karma Police) o se ha solo valorizzato i “compagni” più meritevoli e televisionabili, a fare la “rivoluzione civile”
di cui vaneggiano sopra una versione oscenamente post punk del Pellizza
da Volpedo. Bene che va rosicchiano un po’ a Vendola e un po’ a Grillo e
fine della rivoluzione.
Di Berlusconi e della metà campo di destra francamente non vale la
pena parlare. Più che altro non me la sento, già ci capisco poco tra
nuovi partiti annunciati, primarie virtuali, psicodrammi vari, che mi
pare poi si vadano ricomponendo in gioiose rimpatriate sullo skilift, e
in più mi sembra che quella del capo sia una partita un po’ mesta. Se
voleva giocare non doveva tentare di ammazzare Monti, ora non vuole
arrendersi all’idea di non avercela fatta e continua ad alzare la posta
con una coppia di jack in mano. Forse cerca la bella morte, con tutti
quei nipotini. Che tristezza.
Alfine arriviamo a lui, al Maya di Bettola: l’uomo più sottovalutato
del 2012. Proviamo a tornare con la mente, per un attimo, a un anno fa.
Bersani era leader di un partito senza capo ne coda, o meglio con un
capo, lui, assediato da un migliaio di codazzi impazziti convinti di
essere qualcosa o qualcuno. Aveva appena digerito Monti, nonostante i
sondaggi gli avessero ripetuto fino alla noia che se andava a “votare
sotto la neve”, come strizzava l’occhietto il perfido Giuliano Ferrara,
avrebbe fatto cappotto.
Monti aveva cominciato subito a picchiare come un fabbro, proprio là
dove il dente duole: nella sua base di pensionati e aspiranti pensionati
e annunciava sfracelli nel pubblico impiego, proprio là dove il Pd ha
il consenso vero e il Sindacato tiene il suo ultimo bastione. Renzi e i
“giovani”, spalleggiati dagli infingardi media liberali, lo bastonavano
un giorno si, l’altro pure e appena per qualche ragione se ne
dimenticavano o si facevano un week-end in pace, Rosy Bindi rilasciava
un’intervista.
Ora, dopo aver accettato la sfida di Renzi (non era obbligato a
farlo, anzi) e averla vinta di oltre venti punti, ha stupito tutti gli
addetti ai lavori e ha indetto le primarie per la scelta dei
parlamentari: prima assoluta nella storia repubblicana. Naturalmente,
con sardonico cinismo emiliano, ha scelto la data più bulgara possibile,
29 e/o 30 gennaio, si è accaparrato una quota importante di nomine
dirette e ha scatenato un sostanziale delirio politico-organizzativo nel
partito. Chi può dirgli niente?
Risultato: l’uomo contro il partito liquido, del collettivo contro i
personalismi, si è svegliato come il leader più craxiano degli ultimi
vent’anni, al cui potere tecnicamente iperplebiscitario (due primarie
vinte di fila) si somma la “fedeltà di progetto” degli eletti in
Parlamento, del Pd e di Sel (che non a caso ha tenuto analoghe primarie,
gli stessi giorni): gli devono tutto, se fanno casini stavolta li
linciano. Non più caminetti, al massimo qualche pacca sulle spalle alle
vecchie glorie, e azzeramento delle correnti da parte degli elettori.
Una piccola apocalisse, con un solo cavaliere.
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19 novembre 2012
KARMA POLICE
“La vita sulla Terra, come la conosciamo, non sarebbe possibile
senza la protezione esercitata dal campo magnetico. Secondo studi
recenti la magnetosfera sarebbe interessata da un processo
d’indebolimento. Si tratta di un processo lento, ma progressivo”. Non è il solito buco web di untorelli new age (il capovolgimento dei poli magnetici era uno dei must apocalittici in vista del 21/12/2012) ma un comunicato dell’Esa, l’Ente spaziale europeo, che sta lanciando una nuova missione per capire che diavolo sta succedendo: “nei prossimi anni il campo magnetico potrebbe arrivare a un punto di non ritorno, a un livello mai conosciuto dall’uomo”.
A un mese dalla fine del calendario Maya, tutto si può dire fuorché
il mondo scoppi di salute. Con gli occhi ancora colmi delle immagini
della capitale dell’Occidente, sfregiata dagli elementi nell’intimo dei
suoi muscoli architettonici lanciati contro il cielo, la puzza di guerra
che arriva dal Medio Oriente lascia presagire un Natale all’insegna del
terrore. Allo strazio delle vittime e alla disperazione dei bambini
ebrei e palestinesi si aggiunge la paranoia di una guerra vera, con
Israele da una parte, il mondo arabo dall’altra e alcune testate
nucleari (vere e presunte) in mezzo.
Tutto questo dopo che il segretario di stato Usa, Hillary Clinton, ha
annunciato la propria indisponibilità a ricoprire l’incarico nel nuovo
governo di Obama. Gli occhi di tutto il mondo sono ancora una volta
puntati su di lui, l’uomo del discorso del Cairo. Il Papa Nero è stato
appena rieletto, non certo in pompa magna come hanno raccontato con consueta cialtronaggine paesana dalle nostre parti, ma pur sempre con un margine molto superiore ai pronostici della vigilia, sia nel voto nazionale che tra gli stati grandi elettori.
Naturalmente sono tante le ragioni della vittoria di Obama, a partire
dall’inadeguatezza goffamente robotica del suo avversario, ma fra tutte
spicca l’operazione Chrysler. Sergio Marchionne, il nemico giurato
della sinistra italiana, è stato il protagonista dell’evento più atteso
dalla sinistra worldwide: il beniamino dei liberal di
tutto il mondo rieletto presidente grazie al salvataggio di Stato del
colosso dell’auto americana, con i lavoratori a metà stipendio e il
plauso unanime del sindacato.
In coincidenza con la fine del calendario Maya, o forse per via della
perdita di vigore della corazza naturale del magnetismo terrestre, che
impedisce alla Terra di trasformarsi in un Marte o in una Venere, pare
che la polizia del karma si stia incaricando di recapitare i suoi
paradossali verdetti con crescente impazienza. Non solo il Papa Nero made in Fiat, dunque, ma una serie di piccole scorribande di riequilibrio karmico che sembrano proprio non poter aspettare oltremodo.
“Milano è un villaggio. Tutti sapevano tutto di tutti. Lui arrestava,
istruiva processi-bomba, percorreva in favore di telecamere corridoi
fatali accompagnato da avvocaticchi con i quali concordava l’uscita
degli arrestati dalle camere di sicurezza in cui si riscuoteva con la
paura del carcere la confessione, ma già si sapeva tutto di quel
coraggioso magistrato in carriera politica. Si sapeva che non era uno
stinco di santo, che le sue cadute di stile erano piuttosto pesanti, che
il tout Milan era pieno di gente di denari che aveva
avuto rapporti spuri con l’ex poliziotto laureato di fretta e messo lì a
fare da battistrada dei professorini dell’anticorruzione del pool, si
sapeva quel che è venuto fuori pubblicamente dopo, e cioè che aveva
avuto rapporti inconfessabili con un pezzetto dei servizi diplomatici (e
altro) americani, che la sua storia di pm antipartito era la storia
stessa di come veniva calando la cortina di ferro della guerra fredda.”
Il prosaico cade male, nella strapaesana italiana cosiddetta Terza repubblica (in fieri). La faccia di Di Pietro, davanti alla gendarmeria della “commissaria Gabanelli”, come la chiama Giuliano Ferrara nel suo articolo definitivo,
sembrava proprio quella del “mariuolo” di craxiana memoria colto con le
mani nella marmellata. Sadicamente, ma non troppo, in diversi hanno
rievocato la bavetta di Forlani, in aula al processo Enimont: la
giustizia infatti non solo (o non tanto) è uguale per tutti. Ma è –
soprattutto – equilibrio.
E una volta che si mette in moto, il processo di assestamento non si
arresta sino a quando non c’è un equilibrio nuovo. Così capita di
assistere alla triste parabola discendente dell’ex Caimano dei caimani,
ridotto a mitragliare a salve, a giorni alterni, il governo in carica e a
ritrovarsi puntualmente svillaneggiato dai giornali (che un tempo non
troppo lontano lo onoravano di una demonizzazione a nove colonne) a pié
di pagina, in angoletti troppo angusti per l’ipertrofico ego che scalcia
ancora dai titoli.
Oppure di scoprire che dopo tanto bla bla rottamatorio, tra i
“Fantastici 5” candidati alle primarie l’unico che azzarda qualcosa di
politico (la riforma fiscale capace di assorbire l’evasione = mettere i
cittadini in contraddittorio finanziario = fare scaricare tutto a tutti)
e scalda i cuori della sinistra del web
si chiama Bruno Tabacci, ha centotrentacinque anni ed è un cazzuto di
democristiano. Quelli che l’hanno capito per primi, gli agenti segreti
della karma police, sono i Marxisti per Tabacci. Normale, poi, che il compagno Bruno sbugiardi le velleità nuoviste del giovane turco Renzi, menandogli calci negli stinchi per tutta la pallosissima versione-primarie dell’X Factor di Sky.
Il pallido Matteo ormai arranca palesemente e certo non aiuta che due
tra i suoi economisti di riferimento – Alesina e Zingales – abbiano
dichiarato di sostenere Romney. Un amico di tFP, pochi giorni
prima del voto, mi ha scritto che “Obama è diventato lo spartiacque fra
buoni e cattivi”. L’hanno spiegato anche a Renzi? Intanto Casaleggio,
Grillo & associati, liberati ormai dallo stereotipo dei liberatori e
ventre a terra nelle purghe d’autunno, continuano a scavare
indisturbati, lasciando agli esodanti il continuo rimpallo della propria inconcludenza. Manco la legge elettorale sono riusciti a cambiare.
Per quadrare il cerchio, infine, il rottamator cortese si è candidato segretario
del Pd, in Lombardia hanno candidato a furor di partito l’ennesimo
“civico”, di sicuro spessore ma conosciuto dal grande pubblico solo per
il tragico lutto (continuare a tirare in ballo orfani e vedove oltre a
essere macabro e patetico inizia a risultare avvilente), che per prima
cosa ha tentato di abolire le primarie e Crocetta neo-presidente della
Sicilia ha annunciato Franco Battiato neo-assessore alla cultura. Quello di “mandiamoli in pensione i direttori artistici, gli addetti alla cultura”. Addavenì.
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29 ottobre 2012
CAYMANISTAN
 “La Porsche ha chiamato “Cayman” la sua auto più brutta per fare un dispetto a Renzi”, “#Dalema
va ai giardinetti per mangiare i bambini e dice che l’ha mandato
Renzi”, “E’ stato Renzi a bloccare il treno Italo a Firenze Per
dimostrare che #LucadiMontezemolo
non va”, “Le zanzare ad ottobre sono state mandate da Renzi”, “Matteo
Renzi è il vero autore dei libri di Fabio Volo e Federico Moccia”, “Ma
chi paga la lavanderia per tutte quelle camicie bianche?”, “Renzi svela
sempre il finale delle barzellette di Bersani”, “Ma non è che quell’auto
che secondo la Moratti era stata rubata da Pisapia, invece l’ha presa
@matteorenzi?”, “Salterò la pausa pranzo: ho protestato, il mio capo mi
ha detto: #attaccaRenzi.”
L’hashtag di @AsinoMorto dice già tutto. Vendola,
per cui il pm ha appena chiesto venti mesi di galera per abuso
d’ufficio, e Bersani, la cui storica segretaria è stata appena indagata per truffa aggravata, sono riusciti nell’impresa di mettere
Renzi all’angolo. Chi osa non dico spendere parole apertamente
lusinghiere, ma esprimere qualche moderato dubbio circa lo status di “nemico del popolo” affibbiato al sindaco di Firenze, viene lapidato sulla piazza di Facebook.
Oltre alla staliniana trasfigurazione dell’avversario in “nemico”,
già sperimentata con Craxi e Berlusconi (con evidenti benefici per il
paese, in declino da un quarto di secolo sotto tutti i punti di vista),
la tentata sterilizzazione del pericolo – ché quando un moccioso
impudente annuncia di voler tagliare il finanziamento pubblico ai
partiti entro i primi cento giorni di governo di questo si tratta – si
basa sul boicottaggio della partecipazione.
Le primarie sono il mito fondativo del Pd e del centrosinistra,
l’unico, e il mastice che riesce a tenere insieme un elettorato sempre
più scazzato e disilluso. Negli anni passati si sono sempre rivelate
l’unica vera arma in più rispetto ai soldi, al carisma e alla certezza
della leadership che regnava nel campo avversario. Ma anche questa,
ovvia, considerazione non deve aver fatto breccia.
Così mia nonna, che ha quasi novant’anni e fa fatica a scendere le
scale (ma è sempre andata a votare), gli studenti di sedici e
diciassette anni e quelli fuori sede (i pugliesi poi sono veri ultras
del loro governatore) se ne staranno a casa. Invece che presentarsi al
seggio con la carta d’identità e il certificato elettorale (e una volta
sola), come nel 2005, tocca una babele di puttanate burocratiche che, a
parte le patetiche giustificazioni in politichese, significano solo una
cosa: vade retro Renzi.
Spararsi nelle palle per far dispetto alla moglie: dopo che gli analisti hanno spiegato che più alta è la partecipazione più le chances di
vittoria di Renzi aumentano, le varie staffette partigiane sono partite
ad architettar tagliole. Ma se va a votare meno gente perdono tutti,
perché oltre alle primarie bisognerebbe tentar pure di vincere le
secondarie. Arrivarci dopo un flop, proprio adesso che Berlusconi
spariglia di nuovo e patrocina (forse) le primarie del centrodestra,
sarebbe il massimo.
Il quotidiano lancio degli stracci, inoltre, ha definitivamente
eclissato i contenuti dal dibattito, anche riguardo la cosiddetta “fase
2” della campagna di Renzi (che continua a giocare alla lepre).
“Cambiamo l’Italia” ha affiancato il claim “Adesso!”, riconducendo idealmente il sindaco di Firenze al “Change” di Obama, dopo che la fase uno ne aveva già sussunto e italianizzato l’iconografia sin nel minimo dettaglio.
Il particolare è che stiamo sempre parlando dell’Obama del 2008,
quello trionfale e trionfante. Tutti continuano a citare la campagna, le
strategie, lo stile, i contenuti, lo story telling di quell’Obama là. In quanti conoscono il claim del 2012, quello su cui tra pochi giorni il presidente chiede il voto agli americani per altri quattro anni? “Forward”, dalla speranza visionaria al realismo del buon padre di famiglia in una campagna stile Diesel, con un video che sembra il trailer di una serie tv (alla seconda stagione).
Renzi, come gli altri ma col rischio di pagare un prezzo più alto, è
rimasto al 2008, l’epoca del “Se po’ fa’” con cui Veltroni rastrellò il
33% alle politiche. Nel frattempo però è cambiato tutto, diverse volte.
L’altra sera Santoro gli ha chiesto conto a modo suo della “fase due”,
citandogli l’ultimo libro
di Paul Krugman “che si chiama proprio come il suo slogan, adesso!”
(col punto esclamativo pure) e argomenta il fallimento delle politiche
di austerity in Europa e in Italia. “Lei che ne pensa?”
Renzi ha abbassato un po’ gli occhi, ha ripetuto un paio di volte che gli editoriali di Krugman sul New York Times
sono un prezioso contributo all’analisi, ha dato l’impressione di non
averne mai neanche sentito parlare (del libro titolato come il suo claim).
Ora, si può essere d’accordo e meno con Krugman, ma è il caso di avere
un’opinione su quello che scrive, visto quello che scrive, se si ambisce
così tanto a governare un paese (uno qualunque).
Invece la cosa più politica che Renzi ha tirato su fuori sul tema è
che “è una questione di qualità della spesa pubblica” certo “a saldi
invariati”. Spiccicato a Bersani, a Monti, a tutti. Poi nient’altro,
nulla che a poche ore dalla fine della trasmissione potesse rimanermi
impresso, al netto delle gag rottamatorie. Unico guizzo,
vagamente cimiteriale: nei primi cento giorni di governo la mitologica
legge sul conflitto d’interesse. Per dimostrare che non è l’Ambra del vecchio Caimano. Poca roba.
All’ora del conto, infine, la Sicilia non poteva mancare. I primi exit polls
sulle elezioni erano fischiati in rete come ghigliottine al vento.
Anche se i risultati ufficiali sembrano ridimensionare l’uragano,
Caymanistan trema. Più della metà dei siciliani è rimasta a casa e
l’altra ha incoronato campione del caos il “D’Annunzio a Fiume, un
situazionista fuori situazione, un estroso beato nel posto tipico delle
stramberie”. Come aveva predetto Buttafuoco, con bella prosa.
“Non è stato elegante manco in acqua, eppure ha fatto evento. Una
nuotata come quella può farla uno svelto atleta scolpito da Fidia, non
un Satiro attempato e tutta la bellezza di quella traversata s’è
confermata nell’essere lui – l’uomo che viene da fuori – tutto il
contrario di ciò che ha fatto, il più improbabile dei Colapesce. Nessuno
ci credeva che potesse arrivare a nuoto, tutti cominciano a credere che
lunedì possa sfasciare finalmente la regione siciliana.”
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23 ottobre 2012
LOMBARDIA CANAGLIA
 Dopo Er Batman, la Polverini in contromano con l’auto blu per andare a
comprare le scarpe, la fine ingloriosa del Formigoni V, ora potrebbe toccare a Errani.
Il 2012, pur non accogliendo le astronavi aliene sul Viale dei Morti
di Teotihuacan, sembra proprio l’anno del piazza pulita congiunto di
governo e parlamento italiano, Lazio, Emilia-Romagna e Lombardia. Oltre
alla Sicilia, che va al voto a fine mese. Il tutto in uno scenario
politico vagamente apocalittico.
Grillo, che ha l’età di D’Alema anno più anno meno, si fa lo Stretto
di Messina a nuoto per lanciare la campagna elettorale “separatista” del
M5S per le regionali della Sicilia. I sondaggi
dicono che rischia di ritrovarsi primo partito dell’isola e secondo a
livello nazionale, al 21 per cento e passa. Il Pdl è poco sopra il 14 e
il Pd è quasi al 26, l’Idv torna intorno al 4, l’Udc verso il 5 mentre
Lega e Sel si attestano sul 6. Si votasse domani tornerebbe Monti.
Naturalmente non è indifferente, in termini politici e/o elettorali,
il risultato delle primarie del centrosinistra. La coalizione del Pd con
Sel e il Psi in caso di vittoria di Renzi potrebbe andare in pezzi:
Vendola, col suo classico cinismo gabellato da coerenza, si smarcherebbe
per incassare da sinistra i cocci dell’ex Pd (o del più probabile esodo
di funzionari e attendenti).
A sentire Renzi, invece, il Pd a trazione renziana vale il 40%, come neanche nei sogni più bagnati del neo autorottamato
Veltroni, già teorico della vocazione maggioritaria (e arrivato a onore
del vero all’ineguagliato 33%). E quindi forse avrebbe i numeri per
riuscire a vincere e a governare, senza bisogno di supplenti o
parenti-serpenti. Certo, se gli ultimi sondaggi sulle primarie si confermeranno sarà dura verificare.
Secondo il più incazzato il Bersani neo-rottamatore
che mette D’Alema alla porta senza troppi complimenti sta giocando una
partita “gesuitico-stalinoide” e mostra che “una famiglia politica che
non sa rispettare se stessa, la propria storia e dignità, è condannata
alla dissoluzione.” Secondo i bersaniani (che i botteghini danno in
aumento, a prescindere dalle polemiche miserabili sulle Cayman e i
giardinetti) il vero rinnovatore è lui, lo smacchia-giaguari che ha passato gli ultimi anni in Tv a sganasciarsi con Crozza.
Una buona occasione per dimostrare che è vero, che il rinnovatore è
lui, è la scelta del candidato governatore della Lombardia, nel caso in
cui il Celeste riesca a mandare tutti a spendere prima di Natale (e
sotto profezia Maya). Ad oggi il nome più papabile, fra quelli che
circolano (Ambrosoli ha declinato), è quello di Bruno “prezzemolo”
Tabacci (senza offesa, s’intende, l’uomo è intelligente). Lo score –
deputato e assessore a Milano in contemporanea, presidente della
Lombardia cinque lustri fa sotto il segno di Ciriaco De Mita – non ne fa
proprio il frontman ideale per l’assalto dei grillini.
Non è un dettaglio da poco, il nome, nelle elezioni della Lombardia.
Se c’è una cosa che il ventennio celestiale ha lasciato è l’enorme
aspettativa per il dopo. Per chi verrà dopo, perché gli elettori capita
che siano più avanti dei politici (specie di quelli di centrosinistra) e
che gli importi fino a un certo punto di salamelecchi programmatici e
guazzabugli organizzativi. Quando si tratta di governare una regione che
è uno stato di dieci milioni di abitanti, tra i più avanzati d’Europa,
il manico fa la sua brava differenza.
Naturalmente per fare un nome che funzioni bisogna avere un’idea di
che cosa si vuol fare e, prima ancora, di chi ci si crede (o
modestamente si vorrebbe) essere. La celebre e celebrata “soggettività
politica collettiva” che, nel bene e nel male, a Milano ha espresso un
sindaco di sinistra dopo un altro ventennio, ora preme per il bis.
Quindi delle due una: o si fanno le primarie o il nome che esce dal
conclave deve essere all’altezza di quest’aspettativa. Dello zeitgeist, fotografato dall’immancabile sondaggio sul giornalone dell’editore-tessera numero uno del Pd (e main sponsor dell’usato sicuro Bersani alle primarie nazionali), che ha permesso la presa di Palazzo Marino.
Poi bisogna mettersi d’accordo su cosa s’intenda per “avanzato” e
forse le primarie sono uno dei ring migliori per uscire con una risposta
condivisa. La Lombardia di Formigoni, tra un arresto e l’altro, ha pure
trovato il tempo di mandare nel panico per quasi un mese i malati di
epilessia, mettendo a pagamento
due farmaci di largo consumo. Poter essere presi in ostaggio, senza
nessuna ragione, dal pensiero di 150 euro al mese di più, che possono
significare l’addio alle ferie del 2013 o alla settimana bianca, alla
camera del figlio, o alla pizza e alla palestra: questo significa essere
malati.
“Avanzato”, per i malati (ma anche non), coincide con il contrario
della paranoia gratuita procurata dall’incuria politica di un Titanic
incastrato fra le nuvole del Pirellone. Essere liberi di curarsi come si
crede, dovendo risponderne solo a sé stessi, ai propri medici e alla
propria famiglia, senza moralismi puntati. La Toscana del bersaniano
Rossi ha scelto la
strada della libertà di cura, disciplinando l’uso farmacologico dei
derivati della canapa indiana, in modo da evitare ai malati
l’umiliazione del bavero alzato e del centone che sguscia in cambio del
pacchettino furtivo. Col rischio di perdere il lavoro e/o la custodia
dei figli, farsi ritirare il passaporto o magari qualche giorno di
galera.
L’avanzato centrosinistra lombardo può permettersi un’Agenda Rossi? La rottamazione bettoliana
è davvero una posa tattica un po’ meschina (e col fiato corto) o sotto
lo stanco termine “rinnovamento” c’è qualcosa di politico? Se il tenore
della tenzone sarà Albertini (o Lupi) vs Tabacci, in assenza di
primarie, è facile che certi contenuti diventino un’esclusiva del
Movimento 5 Stelle. Che in più ha il vantaggio di non aver bisogno di
spiegare, di sottilizzare, di specificare. E ha tutto da vincere, anche
perché se succede davvero, poi, non si sa come va a finire.
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16 ottobre 2012
BERSANAMENTO
 “È stato un capolavoro di democrazia. Se usciamo bene dalla vicenda
delle primarie non ci ammazza più nessuno”. Di certo adesso faranno più
fatica ad ammazzare lui. Bersani, il segretario, dopo l’Assemblea
nazionale del Pd del 6 ottobre è stato salutato dal coro mediatico come
un generoso liberale che, un po’ per tattica un po’ per convinzione, le
primarie le ha aperte davvero. Con qualche regoletta, certo, ma un po’
di regole ci debbono pur essere, no?
Le regolette,
però, per definizione sono vincolanti e in questo caso la sanzione per
chi non le rispetta è stare a casa, senza se e senza ma. Così, dopo i
primi attimi di entusiasmo, gli aspiranti premier del Pd, outsider
che avevano annunciato la propria candidatura in deroga all’articolo 18
(i casi del destino) dello statuto che prevede che sia il segretario a
rappresentare la ditta alle primarie di coalizione, si sono resi conto
di essere rimasti in braghe di tela.
Alle diciottomila firme di iscritti al Pd (“Una follia, io ci ho
rinunciato già il primo giorno”, dice Puppato) si sono affiancate
pastoie burocratiche stile lasciapassare a 38. Elenchi degli iscritti consultabili solo all’interno delle sezioni del partito, per via della privacy
(che non vale per l’albo pubblico degli elettori, però), blindatura
senza quartiere della maggioranza già bulgara in Assemblea nazionale,
con conseguente difficoltà a trovare le novantacinque firme necessarie
per candidarsi.
“Io posso parlare per esperienza diretta. Diversi delegati che
avevano assicurato di voler sostenere Renzi, hanno cambiato
improvvisamente idea. Alcuni si erano fatti avanti con convinzione, ma
dopo qualche giorno e qualche colloquio privato, hanno fatto un passo
indietro”. Salvatore Vassallo, deputato neo-renziano (ed ex
veltroniano), descrive un clima da “o con noi o contro di noi” che forse
è quello che aveva in testa Bersani quando, con apprezzabile humour emiliano, ha gridato al “capolavoro di democrazia”.
Il Bersani neo-rottamatore (che può già incassare il bye bye
di Veltroni) è uscito bene dall’Assemblea nazionale, garantendo a Renzi
la possibilità di correre (e svincolandosi dai vecchi pachidermi) ma
costringendolo a una silenziosa conta old style di delegati “fedeli” e bastonando senza pietà gli altri outsider in grado di togliergli voti al primo turno. Pare che solo la Puppato riesca a trovare le firme, unica donna “in gamba” per i Bettoliani del secondo turno e/o clone mignon del segretario, per i maligni.
Sarà l’acrilico, ma a me la cartolina di Bettola piace. Forse perché è
talmente fuori dai canoni della comunicazione contemporanea (pure
quella più dadaista) e così sideralmente distante dal “made in Usa”
di Renzi, che al terzo (o quarto) sguardo ha finito per conquistarmi.
Il richiamo familiare, poi, è talmente arcaico da stemperare la
ruffianeria e abbastanza emiliano da non cedere alla retorica (niente
giuramenti, salamelecchi, o poesie strappalacrime). Anche questo merita
rispetto.
Prima ero rimasto un minuto buono, gli occhi sbarrati, a fissare l’immagine sul mio Mac del sito della campagna, “TuttiXBersani”, in effetti molto simile
al “TuttiXMilano” di un paio d’anni prima. Credo che il neologismo
“sciogliocchi” sia il più indicato per definire l’inferno grafico che
circonda il nonsense editoriale di uno strumento che, a
differenza di quello di Renzi, è palese che sia stato fatto proprio
perché non se ne poteva fare a meno. Al contrario della cartolina di
Bettola, che ha un cuore.
L’idea del partito che si legge in controluce, però, è quella che
aleggia sulle belle facce emiliane dell’infanzia di Bersani, che il suo
staff ha fatto circolare in occasione dell’avvio della campagna, a
Bettola (suo paese natale). Un partito pesante come un aratro e duro
come le zolle di terra da spaccare. Niente a che spartire con Renzi,
ovviamente, poco con il partito delle primarie (che ci sono ancora solo
perché Renzi è partito senza chiedere il permesso a nessuno), di Twitter
e Facebook, della mediatizzazione, della personalizzazione della
politica. In una parola della contemporaneità.
Il paradosso è che per affermare questa idea di partito, Bersani sta
mettendo in gioco sé stesso in modo molto più americano del rivale
rottamatore. Paradosso fino a un certo punto, per chi conosce gli
emiliani, a cui fa da contraltare l’altra verità di cui nessuno pare
accorgersi in queste ore. Per le regionali del Lazio c’è Zingaretti e
basta (nisba primarie) e in Lombardia, dove delle primarie parlano solo i
giornalisti,
per ora l’unico candidato certo del centrosinistra è Tabacci. Dopo
Formigoni ci si aspetterebbe anche qualche colpo d’ala, ma questa è
un’altra storia.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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7 ottobre 2012
OUTSIDER TRADING
“Mi avevano chiesto, come si usa, di fare due conti e vedere chi sta
con chi. Ho fatto un sondaggio fra la nostra gente, segretari di circolo
funzionari amministratori: tutto a posto, tutti con Bersani. Poi la
sera che è venuto Renzi a parlare alla festa ho visto, in platea, il
parrucchiere del mio paese, Alfonsine, è da lui che vanno a tagliarsi i
capelli tutti i ragazzi. E ho visto anche il direttore della Conad,
quella dove vanno le donne a fare la spesa. E poi in fondo il fratello
di mia suocera, che fa l’imprenditore e che quando vuol sapere di
politica chiede a me. Ho domandato al parrucchiere. Ma stai con Renzi? E
lui: ma sì, è nuovo è giovane. Poi tanto sono tutti nel Pd, no? Bersani
faccia il segretario, Renzi il presidente del Consiglio”.
Questa,
fuori dalle chiacchiere politicanti è l’aria che tira. C’erano serie
possibilità che l’Assemblea nazionale del Partito Democratico di sabato 6
ottobre fosse l’ultima. Bastava che il fu Partitone assediato si
arroccasse in una Bulgaria di lacci e lacciuoli, tesi a tagliare le
gambe alla volata del camper di Renzi, e Renzi, poi, avrebbe avuto tutto
lo spazio del mondo – e le ragioni – per presentarsi alle elezioni in
libertà. Mostrando dunque di aver fatto bene i suoi conti a iniziare la
sua campagna con un appello agli “altri”.
Sulle “regole del gioco”, con cui si corrono le primarie per la
candidatura alla premiership del centrosinistra italiano, la decisione è
stata assurdamente rimandata per mesi, come quegli esami medici che
dovremmo davvero, ma proprio non abbiamo voglia di fare. Così oggi il Pd
di Bersani si trova a inseguire col fiatone un candidato che già parla
da premier e che l’ultimo sondaggio Ipr gli piazza tre punti dietro. 37 a
34, con Vendola ben sotto il 20 e gli altri (Puppato-Gozi-Tabacci) con
percentuali da prefisso.
Per capire la differenza basta accendere il pc, andare su Google e
dare un’occhiata ai siti internet dei due candidati, uno dietro l’altro.
Due ere geologiche. E questo vale per tutto il resto: dal fund raising
online professionale alla presenza sui social network, dalla perfetta
riproduzione iconografica del cliché stilistico del Pd made in Usa – in
una grafica impeccabile, nel suo stereotipo manifesto – alla mimica del
corpo durante i comizi-show del tour in giro per l’Italia.
Se Renzi vince le primarie, poi, è l’apocalisse Maya. Almeno per le
centinaia di migliaia di famiglie che vedono uno stipendio sicuro
smettere di esserlo. Per ora il corpaccione dell’ex partitone ha retto,
ma se i sondaggi anche solo si attestano su queste proporzioni il cambio
di casacca, dalle ultime file in avanti, a beneficio del quasi
vincitore senza esercito diventerà sempre più sistematico e compulsivo
man mano che la data delle primarie si avvicina minacciosa.
Già ora i maligni insinuano che agli show elettorali di Renzi tra le
spie inviate dai dignitari di Bersani, sempre una dignitosa porzione
della platea del comizio multimediale, pullulino i disertori pronti a
vendersi appena finita la corsetta scenica con cui ad ogni tappa il
sindaco fiorentino raggiunge il palco. Solerti funzionari occhiuti,
rimasti spiazzati da quella inconfondibile puzza di vittoria, così
raramente annusata, e subito folgorati sulla via del camper. Chi primo
arriva…
Fuori dagli attendamenti dei generali sul campo, poi, si aggirano le
candidature di bandiera come quella di Puppato (di cui subito s’è
malignato essere quella di Bersani, la bandiera), Gozi (che pare più
interessato a posizionare ego e cv, più che legittimamente) e Tabacci,
unica candidatura fuori dal, paradossale, coro giovanil-movimentista di
cui Vendola è il massimo campione storico. Nonostante l’età e il
background.
Vale la pena spendere due parole per il governatore della Puglia,
classico ed eterno esempio di radioso futuro alle spalle, che per un
breve ma intenso attimo parve avere la possibilità di dare concretezza
al velleitario. Facendo dell’esperienza di governo il jolly per
accreditarsi anche fuori degli steccati ideologici che presidia da un
trentennio come un credibile leader della sinistra. Si sa com’è andata a
finire, in Puglia e nella sinistra, e la sua eterna campagna per
l’argento alla leadership del centrosinistra senza trattino non
appassiona più da almeno un annetto. Troppa fretta, troppo ego (ma bella campagna: complimenti ai creativi).
Ma forse Bersani è più furbo di quanto vuol far credere e lo sfoggio
di liberalità del 6 ottobre può essere il modo di ottenere tre
risultati: una bella figura e un bel numero di candidati che dipendono
dalla clemenza della tanto vilipesa “struttura”. La conciliazione del 6
ottobre, infatti, è un a buona notizia soprattutto per Renzi: 18.000
firme da raccogliere in una settimana (107 firme all’ora cioè 1,78 firme
al minuto, come conteggiano al volo su Twitter) o almeno il dieci per
cento dei delegati dell’Assemblea nazionale del Pd. Dura per gli
outsider.
Ma l’unica possibilità che Renzi non vinca, a occhio e croce, è che
ci sia qualcun altro in grado di togliergli abbastanza voti, militanti,
volontari, campo. Tutta gente che ora si trova costretta a scegliere fra
la padella e la brace. Qualcuno di giovane, “nuovo”, credibile, ma un
po’ meno marziano del sindaco di Firenze, almeno agli occhi del target
Pd, senza disinvolte gite ad Arcore nello score e con meno brillantini e
paillettes televisive. Qualcuno come Pippo Civati.
La sua rete ha lanciato in questi giorni “Occupy Primarie”, la campagna online che fino al 12 ottobre sforna ogni giorno una cartolina per l’Italia ed è culminata mediaticamente nel “blitz dell’Ergife”, il gotico hotel pullulante di déja-vu dove si è tenuta l’Assemblea del Pd. Sono sempre gli stessi che hanno formulato i sei referendum
per smuovere le acque dentro un partito in cui, senza il ricorso al
pueblo su certi temi non si muove foglia. E che ora chiedono di votarli
insieme alle primarie. Con o senza Civati sulla lista.
Questo pare proprio l’ultimo giro di giostra. Ma che succederà poi,
al Pd, se e quando la rottamazione sarà compiuta? Una volta che i vecchi
oligarchi con cui prendersela sempre avranno davvero levato le tende o
comunque si limiteranno a brontolare, come tutti i bocciatori in là con
l’età? Cosa rimarrà del Pd con un governo a trazione renziana (o
montiana)? Il congresso è oggi, anche questa partita si gioca ora.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. La campagna "Occupy Primarie" è stata realizzata delle Lance Libere.
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20 maggio 2012
ASSALTO AL PARTITONE: COMACCHIO
 “Beh, a voi elettori di Comacchio la scelta: il rinnovamento oppure
un ritorno al passato con Pierotti, già due volte sindaco, che ha
comunque sempre manovrato dietro le quinte le ultime amministrazioni
comunali. Quindi abbiamo una grossa opportunità: riprenderci tutti
insieme, tutti i cittadini, il governo di questo nostro territorio così
splendido…”.
Quando ho visto il video di Marco Fabbri, candidato del Movimento 5 Stelle, su YouTube
mi è tornato in mente l’esondazione sprezzante e vagamente sconsolata
della mamma di due compagni di musica di mio figlio, sulla classe
politica (senza distinzioni) che ha amministrato Comacchio negli ultimi
quindici anni. “Poi hanno pure la faccia tosta di presentarsi adesso
come quelli che vogliono cambiare tutto.”
Il Comune di Comacchio (Cmâc’
nel dialetto locale) conta poco più di ventitremila abitanti
sparpagliati su un territorio che comprende i sette lidi (Lido degli
Estensi, delle Nazioni, di Pomposa, degli Scacchi, di Spina, di Volano e
Porto Garibaldi) che si allargano su spiagge californiane lungo la
costa che congiunge la foce del Reno e il Po di Volano, tocca il Parco
regionale del Delta del Po e fa capo all’antico borgo, le cui vestigia
risalgono ad oltre duemila anni fa.
Il simbolo architettonico della piccola Venezia, “sorta
sull’unione di tredici piccole isole (cordoni dunosi litoranei)
formatisi dall’intersecarsi della foce del Po di Primaro col mare”, è il
Trepponti (nella foto), creato nel 1694 dall’architetto Luca
Danesi e costituito da cinque ampie scalinate (tre anteriori e due
posteriori), culminanti in un piano in pietra d’Istria. Un simbolo
perfetto anche per il barocco politico cittadino (velenoso, invelenito
ma grondante speranza), una girandola di parole che lunedì sera
condurrà, comunque, a un unico “piano in pietra d’Istria”: una e una
sola faccia al timone di Comacchio.
Quella di Alessandro Pierotti, avvocato navigato che corre con una
coalizione formata da Pd, Udc, Lista Civica Futura Comacchio e Lista
Civica l’Onda e ha ottenuto l’appoggio di Fli al Bagno Ippopotamus di Porto Garibaldi, è una faccia spavalda. Al comizio
di chiusura, dopo quindici giorni a testa bassa contro Fabbri e Grillo
(“è lui il primo a non essere incensurato”), anziché parlare del suo
programma “ormai già sentito in tutte le salse” ha preferito bastonare
“Fantomas Fabbri”, che “negli ultimi quindici giorni non si è mai
presentato ad un confronto con me”, e quello che liquida come “un
programma invisibile, un copia-incolla scaricabile da internet”.
Poi passa alle blandizie di vecchia scuola e addita tutto il grillume
che potrebbe urtare note sensibilità. Sostiene che quelli del M5S non
parlano delle vongole che “danno da lavorare a trecentocinquanta
persone” e, con un crescendo berlusconiano quasi epico, che con i loro
canoni sbandierati di legalità diventerebbe fuorilegge l’80% delle
seconde case (che i comacchiesi affittano ai lidi). Alla fine si dice
certo che “se si vorrà votare con la benda sugli occhi è certo che si
ritornerà al voto tra sei mesi”. O Pierotti o il diluvio.
Marco Fabbri è un giovanotto col gel e la faccia da alieno (almeno
rispetto ai canoni lombrosiani del giovane politico contemporaneo).
“Sono nato a Comacchio, dove vivo tutt’ora nella frazione di Lido
Estensi, ho 29 anni, sono laureato presso la Facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Bologna e sono un dipendente pubblico (ma
non un fannullone!)”. Scrive di sé stesso sulla sua pagina del sito “Comacchio a 5 Stelle”, dove compare con casco e sorriso in groppa a una Ducati.
Nel video su YouTube rilancia i temi-bandiera della sua campagna
elettorale col botto (oltre il 22% dietro a Pierotti che supera di poco
il 36, con quasi l’intero arco costituzionale dietro), primo fra tutti
il “no alla chiusura dell’Ospedale San Camillo deciso da Provincia e
Regione.” La mamma di Comacchio che ho intervistato al posto di
Fabbri-Pierotti è stata la prima cosa che mi ha detto. Poi c’è il
rilancio del turismo declinante su cui anche lui, come tutti, ha la sua
ricetta.
“Una delle prime lotte sarà quella contro la cementificazione del
territorio. In questi anni si è costruito troppo e male: quasi 30000
case, molte delle quali invendute e sfitte… Occorre valorizzare questo
splendido territorio che non è fatto solo di mare, ma anche di valli, di
saline. Siamo nel Delta del Po, i comacchiesi hanno un’occasione unica
per ridare dignità e fiducia a questo posto, che negli ultimi anni ha
perso presenze turistiche nell’ordine di oltre un milione.”
Via libera di fatto a
Fabbri (“oggi l’inesperienza è necessaria”) arriva anche dal candidato
del “Centrosinistra per Comacchio”, che sul Delta del Po evidentemente
non comprende il Pd ma solo Rifondazione, Sel e l’Idv. Fabio Cavallari,
trentadue anni, allenatore di pallavolo e “responsabile postvendita
estero per una multinazionale”, ha superato l’undici per cento dei
consensi al primo turno, arrivando di poco quarto dopo il neanche il 15%
di Antonio Di Munno e il suo Pdl in caduta libera (il sindaco uscente
di centrodestra, Paolo Carli, aveva preso quasi il 60% due anni fa).
Il terzo candidato “giovane” al primo turno, Alberto Lealini della
lista “Voce giovane per Comacchio”, ha sfiorato il dieci per cento dei
voti e si è classificato al quarto posto, davanti alla Lega Nord (poco
sopra il sei). Per qualche giorno è circolata la voce, poi smentita, di
un apparentamento suo con Fabbri e i grillini ma se si sommano i
consensi ottenuti dai “trepponti” della nuova Comacchio (Fabbri,
Cavallari e Lealini) si arriva al 43%.
Forse davvero “la Terza Repubblica nascerà da Comacchio”, come ha profetizzato
Grillo con usuale sobrietà all’ultimo, gettonatissimo, comizio in città
o semplicemente gli elettori stanno prendendo a schiaffoni i partiti
che hanno gestito la baracca fino ad ora. Di certo essere giovani e/o
fuori dai giochi sembra essere la carta vincente per aspirare a fare il
sindaco della piccola Venezia. E Grillo lo ha capito per primo. Staremo a vedere.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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18 maggio 2012
ASSALTO AL PARTITONE: BUDRIO
“Piccolo motto conclusivo per i dirigenti nazionali del Pd: quando i
gatti han lo stesso colore scorazzano le volpi. E non son solo grilline.
Occhio ragazzi!” Mauro Zani, ex leader comunista (e per un po’ pure
post), chiudeva così la sua intervista a FrontPage.
È passato un anno e mezzo, sembra cambiato ancora una volta il mondo e
le volpi (solo) grilline scorrazzano nell’intera regione
all’inseguimento del Pd.
A parte Piacenza, dove la Seconda Repubblica tiene e centrosinistra e
centrodestra si misurano nella classica bipolar tenzone, a Parma,
Comacchio e Budrio Pd & soci (a formazioni variabili) se la devono
vedere con i candidati del Movimento 5 Stelle. Il centrodestra e la Lega
Nord, esclusi dai ballottaggi e prosciugati elettoralmente, si
attestano su una schizofrenia politica che fa propendere i caporioni
locali per Grillo, per l’astensione o (senza dichiararlo a chiare
lettere) per il centrosinistra.
“La piccola comunità di Budrio, con eroico coraggio e indomito
spirito patriottico, contribuiva alla lotta di Liberazione, dando
ospitalità e rifugio a gruppi di partigiani. Subiva una feroce e cieca
rappresaglia da parte delle truppe tedesche che trucidarono civili
inermi, tra cui donne e giovani adolescenti e incendiarono alcuni
edifici. Ammirevole esempio di spirito di sacrificio ed amor patrio.”
Budrio,
medaglia d’argento al valor civile, è un paese di quasi 18000 abitanti
in provincia di Bologna, sulla strada per il mare, le cui più antiche
vestigia risalgono ai temi dei romani. La cittadina sulla San Vitale è
celebre in tutto il mondo per l’ocarina, uno strumento musicale
inventato dal budriese Giuseppe Donati e il candidato sindaco del Pd,
Giulio Pierini, suona la sesta ocarina nell’Ocarina Ensemble Budrio.
Pierini lo conosco da dieci anni, da quando faceva il segretario
della Sinistra Giovanile (i giovani dei Ds) di Bologna e gli curavo le
campagne di comunicazione. Ora di anni ne ha quasi trentaquattro e dopo
aver fatto il responsabile comunicazione per il Pd bolognese e
l’assessore alla cultura e al bilancio di Budrio è stato scelto come
candidato unico a sindaco, senza primarie (“non c’erano sfidanti”).
Ha accettato di confrontarsi sui temi più spinosi della sua campagna
elettorale: centrali a biomasse di Mezzolara, centro commerciale e Imu
(il “super-Imu” di Budrio, secondo le gazzette locali). Contro le
centrali è sorto un comitato di cittadini capitanato dal magistrato Enzo
Roi e si è cementato il consenso della lista di Grillo il cui
candidato, Antonio Giacon, non ha risposto alla richiesta d’intervista
via e-mail né ai messaggi su Facebook.
Giulio Pierini, reduce da una campagna particolarmente dura (“con
attacchi personali gratuiti e offensivi”), ha accettato di raccontarsi
sulla chat di Facebook e quello che segue è il copia e incolla di com’è
andata.
Giulio Pierini, candidato sindaco di Budrio, ti aspettavi il ballottaggio?
“Eravamo sette candidati a sindaco; il ballottaggio poteva starci. Con
il M5S al 20% e la lista “Noi per Budrio” al 14% arrivare così vicini al
50% è stato un bel risultato. Ci poteva stare…”
La lista Noi per Budrio è frutto di una scissione del centrosinistra, o sbaglio? “Non è esattamente una scissione. È una lista politica
formata da cittadini ma soprattutto da ex amministratori, che negli
anni scorsi erano all’interno del centrosinistra.”
Quali sono le differenze fondamentali fra il centrosinistra,
diciamo così, storico, la lista Noi Budrio e il Movimento 5 Stelle?
Perché a occhio parte del 62% preso dal sindaco uscente, Castelli, è
andato lì…
“Con coloro che hanno formato la lista Noi per Budrio non ci siamo
trovati d’accordo sul giudizio sull’amministrazione uscente. Nonostante
ne abbiano fatto parte per dieci anni, hanno deciso di esprimere un
giudizio negativo sul Sindaco Castelli. Per noi questo era semplicemente
sbagliato. Con il Movimento 5 Stelle, invece, non abbiamo mai avuto
nessun confronto. Se escludiamo idee diverse sui temi dello spostamento
dello stabilimento Pizzoli, la nascita di un centro commerciale e la
strumentalizzazione delle biomasse a Mezzolara, il M5S ha un programma
in buona parte condivisibile e su molti punti già realizzato o in via di
realizzazione.”
Perché dici “strumentalizzazione delle biomasse a Mezzolara?” Io ho letto che sono contrari al progetto, ho visto il video dell’area
che dovrebbe ospitare il sito delle quattro (?) centrali e assistito a
progetti di questo genere, un po’ in tutta la regione… Qual è l’idea del
Pd e del suo candidato? Mi spiego meglio: a cosa serve? Chi ci
guadagna? Ci sono rischi per la salute? Cosa cambia per l’ambiente? Per
la Valle dei Benni?
Pierini: “Strumentalizzazione perché, se il progetto è ben fatto, i
comuni hanno pochissimi poteri in merito: è un impianto privato su area
privata autorizzato dalla Conferenza dei Servizi provinciale sulla base
di una legge nazionale. In Italia, tutti i ricorsi dei comuni e dei
comitati hanno avuto esito negativo. Il Comune di Budrio, con il dialogo
e il confronto serrato nel merito dei problemi, ha convinto il privato a
modificare il progetto: spostamento del sito in una zona lontana dal
centro abitato, riduzione dell’impianto a 2 MW; trasporto delle materie
prime fuori dei centri abitati; controllo continuo delle emissioni
prodotte da parte dei cittadini e degli enti preposti… Deve cambiare la
legislazione nazionale per ridare agli enti locali il potere di
individuare i siti e le modalità di alimentazione degli impianti, in
modo da premiare gli impianti piccoli che utilizzano scarti della
produzione agricola e zootecnica. Gli impianti a biomasse possono
rappresentare così un’integrazione al reddito degli agricoltori,
contribuendo a sviluppare fonti energetiche alternative, senza
sacrificare il paesaggio né la vocazione agricola del territorio, sennò
chi ci guadagna sono grandi investitori. Se ci sono rischi per la salute
gli enti preposti in Conferenza dei Servizi bloccano il progetto
rigettandolo. Sulla Valle Benni, poi, conviene sfatare un mito: l’area
umida non verrà intaccata per nulla e comunque anche quella è un’area
privata attualmente inaccessibile ai cittadini e utilizzata per la
caccia.”
Quindi se tu diventi sindaco e decidi che la campagna deve
rimanere campagna e che nessun mega-impianto dev’essere costruito, a
parte quelli piccoli di produzione del biogas, non hai il potere di
farlo?
Pierini: “Nessun sindaco ha il potere di farlo, se i progetti sono ben
fatti sulla base della legge nazionale e delle prescrizioni regionali.
In assenza di una vera autonomia dei comuni su questa materia, quello
che si può fare è una sorta di “moral suasion” che permetta di difendere il territorio e rispondere alle preoccupazioni di cittadini e agricoltori.”
Sono previsti sconti sulle bollette dell’energia per chi abita nei pressi della centrale?
“La legge non prevede compensazioni di questo tipo. Gli impianti a
biomasse in realtà producono una certa quantità di calore che in gran
parte viene dispersa: con il teleriscaldamento si potrebbe
riutilizzarlo, ma nel caso di Mezzolara è impossibile, con
l’allontanamento dell’impianto che anche il Comune ha chiesto.”
Ma perché il M5S è contrario al centro commerciale?
“Non hanno compreso che senza un investimento come quello di un centro
commerciale (che va poi a utilizzare una potenzialità prevista dal 1997)
l’azienda Pizzoli se ne sarebbe andata da Budrio in un’altra regione o
all’estero. In questo modo invece siamo riusciti ad avere la mole
adeguata di investimenti per realizzare la prima APEA (area produttiva
ecologicamente attrezzata) della provincia di Bologna. Perché nel 1997
gli amministratori decisero per un possibile centro commerciale? Io ero
minorenne, ma probabilmente già allora era chiaro che senza strutture
medio-grandi i budriesi facevano le loro spese in gran parte fuori dal
loro Comune.”
Ultima domanda, forse la più spinosa: il super-Imu di cui
parlano i giornali? A parte le ragioni di bilancio, quasi tutti i comuni
sono messi male dopo dieci anni di tagli e di aumento della spesa di
stato e regioni… Ma proprio adesso? A un mese dal voto?
“L’Imu è una tassa ingiusta, soprattutto sulla prima casa, ed è pesante
anche da spiegare e gestire in piena campagna elettorale. La cosa più
brutta, insieme all’esborso per i cittadini, è che non c’è ancora nulla
di chiaro e certo. I comuni hanno poca autonomia e sono praticamente
esattori dello Stato. Bisogna insistere per rendere l’Imu più equa e
meno pesante: servono ulteriori detrazioni prima casa per le famiglie a
basso reddito, agevolazioni alle persone in difficoltà (per esempio chi
ha perso il lavoro, anziani soli); riduzioni per i comodati gratuiti a
familiari e per la proprietà indivisa; aliquote più basse per le
imprese, per il commercio e per i terreni coltivati direttamente dai
proprietari.”
Vabbè, ma Budrio ha applicato quasi l’aliquota massima, sia
per terreni che per seconde case… e pure sulla prima casa ha picchiato
duro. O no?
“Assolutamente no. Innanzitutto non abbiamo ancora applicato niente
perché con le modifiche alla legge “Salva-Italia” bisogna rifare i
conti. Noi abbiamo trovato un equilibrio, in un quadro comunque pesante:
lo 0,48% per la prima casa (il massimo è 0,6) e lo 0,92 sulle seconde
(il massimo è 1,06) con riduzioni per artigianato e commercio allo 0,84 e
forti agevolazioni per i comodati gratuiti e la proprietà indivisa. Sui
terreni agricoli, quando abbiamo approvato la nostra variazione di
bilancio, non erano ancora possibili riduzioni specifiche, ma adesso
sulla modalità di conteggio in agricoltura cambierà tutto e confidiamo
in un alleggerimento del prelievo perché c’è il rischio concreto che
molte aziende agricole chiudano perché non possono pagare l’Imu.”
Meglio l’usato sicuro del buon vecchio Partitone, quindi… Perché, in una battuta? “Qui non c’è la Casta e non ci sono privilegi: gli
amministratori sono cittadini che si impegnano per il bene della loro
comunità. Continuiamo con le buone politiche dell’amministrazione
uscente, ma insieme a questo innoviamo e riformiamo profondamente il
welfare che oggi non regge più di fronte ai nuovi bisogni, investiamo in
politiche ambientali, energetiche e della mobilità sostenibile,
valorizziamo il nostro patrimonio di eccellenze produttive e culturali.”
(2 – continua)
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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15 maggio 2012
ASSALTO AL PARTITONE
Dalle mie parti il Pd si chiama ancora Partito, con la “p”
maiuscola”. Al di là degli aspetti folk (tortellini e cappelletti fatti a
mano alle feste dell’Unità, volontari che distribuiscono il giornale al
mattino, ecc.), la presenza dell’organizzazione erede del più grande
partito comunista d’Occidente si fa sentire in pressoché tutti gli
ambiti della società e della vita biologica di chiunque ne faccia parte,
a qualunque livello.
L’intreccio fra Partito, Sindacato e Lega (che da queste parti
significa ancora Lega delle cooperative) è la cifra distintiva del
sistema emiliano, che nel corso degli anni ha definito comunità omogenee
sotto il profilo politico, economico e culturale. Per lavorare, fare
impresa, aprire una scuola di yoga o di tango argentino, farsi una
partita a tressette con gli amici, presentare la dichiarazione dei
redditi o farsi controllore i contributi per la pensione, andare a
ballare o a sentire un concerto rock, in una maniera o nell’altra
s’incoccia quasi sempre un qualche nipotino di Gramsci e Togliatti.
Quasi ogni paese, città, Provincia, oltre che la Regione, sono stati
governati per sessant’anni dalla stessa famiglia politica e dalle
filiazioni che da essa sono scaturite, al punto che quando queste
stagioni sono state interrotte bruscamente dalla vittoria degli “altri”
(Parma nel 1998 e Bologna nel 1999, i casi più celebri) sulle gazzette
locali (ma anche nazionali ed estere) si è gridato all’evento.
Intendiamoci: mediamente la qualità amministrativa è alta e gli asili
nido della regione, per citare un esempio noto, hanno fatto scuola in
tutto il mondo.
L’altra faccia della medaglia è l’aria da regime che, soprattutto in
provincia, tira più o meno forte a seconda dei personaggi che si trovano
al timone. Sarà banale dirlo ma la fine dell’ideologia, intese come
religione civile che tutto teneva (non solo la grinta per tirare la
pasta sfoglia dei tortellini o le ferie prese per fare volontariato allo
stand della pesca gigante, ma anche l’omertà pietosa rispetto ad abusi e
ruberie in nome del partito o del proprio conto corrente), ha fatto
tracimare sovente ambizioni e appetiti.
Se a parole si cantano le lodi del libero mercato e del partito
aperto e contendibile, nel profondo rosso padano si affilano i coltelli
per scannare chiunque si avvicini al bandolo della matassa di potere,
che tutto avvinghia. Il gap ideale e progettuale con un passato
in cui, altro che Facebook, nel bene e nel male si faceva notte in
sezione per determinare la “linea” fa il resto. Così la fedeltà è
reclamata non più sulla base di notti trascorsi a sputar fumo e
presentar mozioni, ma sempre più spesso sul terrore di non lavorare più o
di essere esclusi, in una maniera o nell’altra, dai giochi.
Far finta che l’Italia non sia, da sempre, una congrega di congreghe
(chiuse come ricci ad ogni minacciosa novità) è una della ribalderie più
ricorrenti degli osanna al libero mercato, che tutti i mali spazza via.
Ma c’è un momento in cui ogni congrega omogenea (pace sociale mixata
con omologazione e conformismo) va in crisi: quando non è più in grado
di assicurare benessere e qualità della vita (seppur minima) alla
maggior parte di chi ci vive e, magari, i suoi capitani non si stanno
dimostrando abbastanza coraggiosi.
In Emilia-Romagna, prima un po’ la Lega (Nord) poi Grillo hanno preso
a scavare come talpe sotto i piedi del consenso consolidato del
Partitone, apparentemente inossidabile. Ma mentre le sparate contro le
moschee o altre bizzarrie tipo la Romagna indipendente (“Nazione
Romagna” era lo slogan leghista, se non ricordo male) lasciano il tempo
(e i voti) che trovano, la guerra per la salute (effetto collaterale di
partite di business già chiuse in partenza) del Movimento a 5 Stelle comincia a pagare.
Acqua, ambiente, trasporti, connettività e sviluppo sono le cinque
stelle polari che orientano l’azione del movimento sul territorio,
mentre la democrazia diretta (assemblee pubbliche e forum online
al posto delle riunioni nelle sezioni di partito) è lo strumento di
partecipazione, sedicente rivoluzionario. Naturalmente il web già
pullula di leggende metropolitane circa lo stalinismo di Grillo e le mire occulte dei suoi spin doctor
di Casaleggio&Associati, veri registi occulti di tutta la baracca
(secondo l’inevitabile vulgata complottarda) e assertori di un nuovo ordine mondiale, vagamente orwelliano. Stiamo alla politica.
“Parma è una città indebitata, con un grave dissesto economico. Il
MoVimento 5 Stelle è un salto nell’ignoto, nel domani. Gli altri sono la
continuità con il passato, la certezza del suicidio assistito. Vincenzo Bernazzoli,
il candidato del Pdmenoelle è presidente della Provincia di Parma (ma
le Province non dovrebbero essere abolite?) in carica (così se perde
conserva il posto di lavoro) e sostenitore dell’inceneritore (che causa
neoplasie), ha spiegato che il futuro di Parma è nel maggiore
indebitamento bancario e che (nessuna paura) i suoi uomini sanno come
trattare con i banchieri.”
Oltre che con Federico Pizzarotti a Parma (amministrata dal centrodestra da quasi quindici anni), definita nello stesso post da Grillo “la nostra piccola Stalingrado”, il M5S è al ballottaggio a Budrio (in provincia di Bologna) con Antonio Giacon vs Giulio Pierini (Pd) e a Comacchio (in provincia di Ferrara) con Marco Fabbri vs Alessandro Pieroni
(centrosinistra allargato all’Udc). In tutti e tre i comuni della
Regione in cui si vota lo scontro è tra il Partitone e i nuovi barbari
di Grillo.
Da qui a domenica cercherò di raccontare le disfide elettorali, i
protagonisti e le ragioni del contendere. Proverò a tracciare piccoli
affreschi di paese in grado di sgombrare il campo dalla fuga nello
stereotipo che caratterizza il mainstream nostrano e di capirci qualcosa
nel piccolo terremoto in corso.
Per ora l’unico che ha accettato di parlare con tFP, il
candidato sindaco del Pd a Budrio, mi ha stupito lamentando una
strumentalizzazione “tutta nazionale” di un voto locale. E io che
pensavo che fossero proprio i temi locali il cavallo di battaglia delle
liste legate al brand Grillo. Spero che i candidati del M5S,
contattati su Facebook nei giorni scorsi, sappiano far luce su questo
piccolo mistero e sul resto. Diversamente dovrò affidarmi solo alla
ricerca e il racconto sarà inevitabilmente più sfuocato.
(1 – continua)
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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8 maggio 2012
È NATA UNA STALLA
Un’altra volta. A vent’anni di distanza, tutto si ripete nella
stessa, identica, maniera. Per filo e per segno, le elezioni hanno
scandito il penultimo atto del big bang dei partiti, nel ben
noto copione mediatizzato di mazzette, manette, assalto alla spesa
pubblica e alla moneta corrente (ma senza la lira da svalutare) unito
alla disperante incapacità di fare politica. Vent’anni passati a non
decidere che cosa l’Italia avrebbe dovuto essere e ora, dopo che anche
l’ultimo dei fessi li ha sgamati, tutti a gridare all’antipolitica dei
bruti che minacciano le virtù repubblicane.
Così, come nel 1994 è arrivato il marziano antipolitico magnate dei
media, adesso ce n’è un altro, che conosce quelli nuovi (di media). E sa
(e lo scrive da anni a chiare lettere) che per vincere le elezioni
contro quei morti di sonno da cui è circondato non servono congressi,
tessere o sezioni né rimborsi milionari, che i partiti si spartiscono
come gangster al saloon. Meglio usarli contro di loro,
adesso che la gente fa davvero fatica ad arrivare alla fine del mese e
che il bollettino dei suicidi per debiti se la gioca con quello dei
caduti sul lavoro. Adesso, la gente, ai soldi ci guarda proprio.
La chiamano antipolitica, col riflesso condizionato di chi considera tout court la politica una cosa sporca e prende poco l’autobus. Forse perché, semplicemente, non credono possibile un mondo in cui un consulente informatico
di una banca (che deve prendere le ferie per fare campagna elettorale)
possa realisticamente arrivare al ballottaggio per diventare sindaco di
una città come Parma. E non sono tanto i politici di professione (che si
difendono alla meno peggio) ma la pletora di opinionisti che, eterni
interpreti dell’arte del disincanto, adesso spalancano gli occhioni e
sparano a caratteri cubitali.
La notizia più scioccante di queste elezioni non è l’affermazione di
Grillo, su cui il solito Giuliano Ferrara contro tutti ha sentenziato, a
una smagliante Bianca Berlinguer: “è il vero sconfitto della giornata,
con questo clima mi aspettavo il 20/30 per cento”. La sorpresa vera è
stata la botta d’arresto subita da Casini, Fini & Co. Come alle
amministrative del 1993, al centro si è spalancata una voragine,
considerata la caduta libera del Pdl (con Berlusconi in gita da Putin,
per non saper né leggere né scrivere).
Il Pd dicono che tiene. A regola è il primo partito d’Italia (visto
che il Pdl è via di scioglimento) e, nonostante non riesca a esprimere
candidati nelle grandi città (a Genova è in testa Doria, indipendente, a
Palermo Orlando, Idv, contro Ferrandelli, ex Idv), in termini di lista,
appunto, tiene. Sarà per questo che D’Alema va predicando la fine delle
leadership populiste e di certo, passata (se passerà) la paura dei
ballottaggi, Bersani penserà (forse a ragione) di potersi giovare per un
po’ dell’effetto-Hollande (segretario pacioso, senza grilli per la
testa, vince le elezioni mettendoci la faccia).
Ma c’è un ma. Quel famoso effetto ’94 non c’è alcuna ragione per cui
non debba ripresentarsi, con le stimmate dei giorni nostri. Non è che
gli elettori del Pdl e della Lega (bombardata ma non del tutto
affondata, anche se in via di mutazione grillina) siano scomparsi coi
loro partiti. E se, putacaso, possono bastonare gli odiati post
comunisti, magari votando una giovane faccia pulita senza partito,
perché non dovrebbero farlo? Per paura dell’antipolitica?
Oltre a Parma, dove il candidato è al ballottaggio con quello del
centrosinistra (Pdl quarto, tipo) in Emilia-Romagna la cartina politica
diventa interessante, se letta in controluce. Il Movimento 5 Stelle va
al ballottaggio a Budrio (in provincia di Bologna, roccaforte Pd) e a Comacchio
(in provincia di Ferrara) con risultati sopra il 20 per cento.
Tendenzialmente in regione non scende mai sotto il dieci e sfonda quando
ci sono questioni in grado di dividere la cittadinanza, sul merito
delle proposte politiche (inceneritore, centrale a biomasse, storici
cavalli di battaglia).
Come nel 1993 oggi il centrosinistra tira a festeggiare, occhieggia
speranzosa a Parigi e teme Atene come la peste, mentre Grillo sta
organizzando l’opposizione nelle sue roccaforti (di voti, potere, spina
dorsale), sui contenuti che scaldano davvero il cuore dei suoi, famosi,
militanti di base come fa contro Lega e Pdl dalle loro parti (rivolta
fiscale, nisba cittadinanza agli immigrati nati in Italia). Quando poi i
suoi candidati si dimostrano intelligenti e preparati e i vecchi ras
del villaggio sono troppo bolliti per correre (e/o per piazzare rampolli
presentabili) rischia pure di vincere.
A occhio, a Bersani converrebbe davvero mandare tutti a spendere e
andare a votare con questa legge elettorale. Tra un anno forse è troppo
tardi (anche per l’effetto-Hollande). E a chi, quando sarà il momento,
venisse in mente (Ferrara l’ha già esplicitato prima su Rai Tre, con
evidente sadismo) di proporre qualcosa che assomiglia al governo di
unità nazionale (non c’è bisogno di dichiararlo esplicitamente in via
preventiva, dopo aver approvato una legge elettorale proporzionale, la
gente capisce) perché “c’è bisogno di senso di responsabilità”, si tenga
bene a mente la lezione di Avigliana.
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4 aprile 2012
DROGARSI MENO, DROGARSI TUTTI
“Io oggi ho cambiato idea, nel senso che penso che dopo i
cinquant’anni dev’essere lecito fumare la marijuana…”. Un po’ come i
preti dell’Anno che verrà di Dalla che “potranno sposarsi ma
soltanto a una certa età”, per Giuliano Ferrara l’età giusta (e lecita)
per cominciare a farsi le canne è dai cinquanta in avanti. La battuta,
ennesimo siparietto di un interminabile duello con Pannella a Radio Radicale, ha il suo perché.
Forse per il conservatore Ferrara, che da studente comunista ha fatto
una tesi su Leo Strauss e si è trovato così avvantaggiato rispetto ai
neoconservatori arrembanti “che dovevano comprarlo su Internet perché in
libreria non si trovava” (rievoca durante la tenzone l’arbitro Bordin),
non sono i giovani che hanno bisogno di sedativi naturali, ma i vecchi.
E visto che è noto – alle persone di buon senso – che psicofarmaci e
alcol siano una consolazione anche peggiore, meglio le canne.
Sulla marijuana il dibattito si è riaperto dopo la pubblicazione, lo scorso anno, del rapporto della Global Commission on Drug Policy delle
Nazioni Unite. “La guerra mondiale alla droga ha fallito con devastanti
conseguenze per gli individui e le comunità di tutto il mondo. Le
politiche di criminalizzazione e le misure repressive – rivolte ai
produttori, ai trafficanti e ai consumatori – hanno chiaramente fallito
nello sradicarla. Le apparenti vittorie nell’eliminazione di una fonte
di traffico organizzato sono annullate quasi istantaneamente
dall’emergenza di altre fonti e trafficanti”.
Qualcuno potrà pensare di assistere all’esibizionismo post moderno di
una qualche bislacca adunata di fricchettoni lautamente stipendiati
dall’Onu: sbagliato. Ai lavori della Commissione hanno partecipato
alcuni tra i protagonisti della fallimentare politica proibizionista su
scala globale: l’ex presidente dell’Onu Kofi Annan, Ferdinando Cardoso,
George Schultz, George Papandreu, Paul Volcker, Mario Varga Llosa,
Branson.
Ora, secondo loro, bisogna “sostituire la criminalizzazione e la
punizione della gente che usa droga con l’offerta di trattamento
sanitario, incoraggiando la sperimentazione di modelli di legalizzazione
e rompere il tabù sul dibattito e sulla riforma”. Nientemeno. Un po’
come ha fatto, qui al bar senza birra,
Alfonso Papa nel suo coraggioso articolo sull’antiproibizionismo,
forgiato nei giorni della privazione della sua libertà per motivi
politico-giudiziari a me francamente incomprensibili.
“Mi sono rotto il cazzo che se vince la sinistra vince la droga e mai
che mi invitino a un festino. Mi sono rotto il cazzo del più grande
partito riformista d’Europa, dal facciamo quadrato nel grande centro,
dei girotondi, del partito dell’amore, del governo ombra…”.
Per fortuna che c’è Lo Stato Sociale, scoperto su FrontPage
come karma comanda (avevo appena finito di maledire i cinquantenni
quando questi maledetti giovani, usciti a mia insaputa dalla “mia” radio
bolognese, hanno fatto irruzione nella mia tardo-trentennale
quotidianità). Tocca ai ventenni come loro trovare le parole.
“Il Partito negli ultimi vent’anni è andato a puttane come il re, e
come il re ha iniziato ha sparare, e con il re tornerà sifilitico col
colpo sempre in canna per la gioia di ogni massaia drogata.” Anche per
le canne dev’essere la Cassazione o
un Alfonso Papa di passaggio, o il solito Pannella o Ferrara “ma
soltanto a una certa età” e non, mai, un cazzo di leader del Pd a
mettere nero su bianco che coltivare una pianta di marijuana “non mette
in pericolo il bene della salute pubblica o della sicurezza pubblica”.
Non più di un tavor o del nocino della nonna.
E in California, Svizzera o Israele dove con una ricetta del medico
ti danno la marijuana in farmacia, perché è noto che funziona per le
terapie contro il dolore, l’anoressia, le malattie neurodegenerative
come il Parkinson, l’epilessia? Dice, ma qui c’è la Chiesa, il Papa, la
Dc, le cavallette e allora ciccia, lasciamo stare: facciamo un bel
dibattito sulla legge elettorale. Sarà meglio maggioritaria o
proporzionale, o magari tutte e due? C’è da fare quadrato nel grande
centro, bisogna dirlo ai giovani.
“Abbiamo vinto la guerra e non era mica facile e già che avanzavano
cartucce siamo rimasti per vincere anche la pace, ma lei si è arresa a
tavolino e siccome che c’era il tavolino poi sono arrivate le bottiglie:
quelle le han portate gli amici del sindacato.”
Precari o disoccupati, eterni studenti senza pensione, condannati al
fancazzismo dal futuro nebuloso, senza famiglia se gay, in galera per
una canna. Su internet, all’estero, in campagna o con una canzone: la soluzione è la diserzione.
“E meno male che c’è la salute che se non ci fosse bisognerebbe
inventarla. D’altronde che c’è di più bello della vita e io l’ho vista
da struccata appena sveglia. Ma non perdere la speranza di andare in
vacanza senza mai lavorare… possibili code su raccordi stradali,
riunioni aziendali, fanculo, a cui non andare.”
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23 marzo 2012
LA LEGGE DI CAMERON
 “E a chi ha delle riserve, io dico: sì, si tratta di uguaglianza, ma è
anche qualcos’altro: l’impegno. I conservatori credono nei legami, che
la società sia più forte quando c’impegniamo a vicenda e ci sosteniamo
l’un l’altro. Quindi io non appoggio il matrimonio gay a dispetto del
mio essere conservatore. Lo faccio proprio perché sono un conservatore”.
Ci voleva David Cameron per dare uno straccio di ragione valoriale (ma post-ideologica) a una scelta politica?
Con un discorso che resterà nella storia pluricentenaria dei Tories,
il premier britannico ha annunciato che entro il 2015 i matrimoni gay
saranno legge anche in Inghilterra, dopo Olanda, Spagna e Canada. E a
chi gli venisse in mente che possa trattarsi solo del narcisismo nuovista
di un “giovane” rampante ansioso di bruciare le tappe che lo separano,
appunto, dai libri di storia, converrebbe riflettere su quel termine
brandito da Cameron per spiegare il colpo di teatro: conservatore.
Si potrebbe ipotizzare, allora, che le chiese, i media e i circoli old tories
del Regno Unito siano in via di frivolezze progressiste, del tutto
fuori portata nel paese del Vaticano, del Papa, di Alberto Sordi e don
Abbondio. Nemmeno
per sogno. Cameron è intenzionato a tirare diritto e ha una ottima
ragione per farlo: è la scelta politica più genuinamente conservatrice,
per un paese che vuole camminare. La fine delle discriminazioni
significa la disoccupazione per i professionisti delle cause giuste. La
mafia crea l’antimafia, Berlusconi l’antiberlusconismo, il Medioevo
italiano il Gay Pride quotidiano.
La legge di Cameron, invece, chiede responsabilità a fronte di
libertà, diritti contro doveri, anche alle persone dello stesso sesso
che intendono metter su famiglia. Quando per famiglia s’intende una
comunità solidale di affetti e affari, la cellula di ogni società in
buona salute. Conservatoristicamente parlando. Fine del teatrino omofobo
di trogloditi che dal Parlamento esondano su radio, tv e web e stop
all’eterno Gay Pride degli appelli, delle manifestazioni, degli osceni
dibattiti su cosa è o non è contro natura, degli slogan vittimistici e
stantii che ti fanno venir voglia di applaudire Sgarbi.
“Io sono contrario al matrimonio in quanto tale. A tutti i matrimoni!
Che cazzo me ne frega a me di far sposare uno di settant’anni con uno
di trenta? Così quando il vecchio crepa quell’altro si becca la pensione
di reversibilità per tutta la vita… Tutta una questione di soldi, se
davvero c’entrasse l’amore, gay o non gay, quando uno crepa l’altro non
becca un soldo. Arrivederci e grazie…”.
In una puntata della Zanzara di Radio24 più odiosa delle
altre, l’intervento urlante dell’ex sindaco di Salemi è suonato come una
boccata di aria fresca. Il truce conformismo dell’ironia brutale e
giaculatoria del co-conduttore satirico, supportata con furore dal
collega serio (teoricamente il poliziotto buono della ditta), aveva da
poco preso di mira un presunto collaboratore dell’onorevole Scilipoti,
reo di aver dichiarato contro natura il sesso anale (ma solo fra culi
maschili).
Il malcapitato, in palese e servile imbarazzo, era stato brutalizzato
senza pietà né costrutto per tentare di strappare una ghignata
all’indirizzo di Scilipoti, bersaglio dell’ineffabile duo della radio di
Confidustria in quanto simbolo del rococò politicante e castale,
ma parente povero del potere e dei potenti. Forti con i deboli, i due
hanno poi bastonato un ascoltatore che tentava di argomentare in difesa
(“faceva solo il suo mestiere”) dell’oscura voce che aveva risposto al
numero del parlamentare-target.
Legalizzare i matrimoni gay permetterebbe di liberarsi di
trasmissioni così miserabili, dell’inevitabile alleanza di
avanspettacolo fra capre omofobe e cinismo liberal. Di non doversi sorbire più lo squallore dichiaratorio a proposito del funerale di un gay celebre, che aveva osato non esibirsi nel canonico coming out
richiesto dall’etichetta del politicamente corretto, o di quelle che
circondano ogni benedetto Gay Pride, che regolarmente ci regalano
l’istantanea truccata di un’Italia inchiodata sul set di un film anni
‘50.
Ci volevano i giudici per fare politica. C’è voluta una sentenza della Corte di Cassazione, più che lo storico voto
del Parlamento europeo che chiede alla Commissione di trovare il modo
per regolamentare i matrimoni gay tra cittadini di diversi paesi
dell’Unione (l’Europa si fa Stato), per spazzare via il vuoto pneumatico
in cui galleggia il Pd e il centrosinistra dei Pacs e dei Dico. C’è
stato bisogno di leggere le motivazioni di una sentenza con cui l’Alta
Corte ha respinto un ricorso di due omosessuali olandesi, che chiedevano
di vedersi convalidare le nozze contratte regolarmente in patria.
È bastato dire che la coppia ha diritto legale a “un trattamento
omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”, anche
se la legge italiana impedisce di “far valere il diritto a contrarre
matrimonio, né il diritto alla trascrizione del matrimonio celebrato
all’estero”. Per i giudici, però, le coppie gay hanno il diritto alla
famiglia come quelle etero. È bastato dire questo e sono andati tutti in
crisi, a parte i conservatori seri che hanno ancora in testa una
società da conservare.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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9 novembre 2011
DO SOMETHING
 In tempi in cui l’Italia rischia l’11 novembre dei
conti pubblici a causa dell’impotenza dei suoi timonieri, l’azione in
quanto tale assume connotati rivoluzionari. A guardarci bene il rovescio
di popolarità del premier, sia tra gli elettori che sui mercati
finanziari (oltre che tra le élites cosmopolite che lobbeggiano
sull’economia globale, ma questa non è una novità), è dovuto proprio a
questa percezione d’impotenza. Che per “l’uomo del fare” significa la
pietra tombale sul suo carisma.
Così sono saltato sulla sedia quando ho aperto il sito del Corriere e mi sono imbattuto nell’azione di Giuliano Melani, che ha speso oltre ventimila euro per comprarsi una pagina del Corriere
con un accorato (e molto ben scritto) appello agli italiani perché si
comprino il debito, prendendo esempio dai giapponesi (il doppio del
nostro e tutto in casa). “Io non sono Diego Della Valle, ma voglio
essere uno dei portatori sani della soluzione. Questo appello mi è
costato un botto, per favore non fatene carta da macero!”
“Sono circa 4.500 euro a testa: lo so che le medie ci fanno fessi ma
state sicuri che molte persone dispongono di queste cifre”. Melani non
ha fatto il vago, ma si è messo a fare i conti in tasca agli italiani
entrando nel merito dell’investimento. “Vi giuro che ci conviene, negli
ultimi due anni sono state poste in essere manovre per 200 miliardi,
sono andati tutti perduti perché nel frattempo sono saliti i tassi
d’interesse sul debito”. Impeccabile, e subito ipercitato da politici e
banchieri. Sicché mi son detto: pensa se l’avesse detto Bersani a Piazza
San Giovanni.
Invece la ditta, in compagnia dei soci di Vasto, era impegnata
nell’operazione antipatia contro Renzi, uno che sgomita quando i giovani
dovrebbero stare a cuccia e aspettare il proprio turno. Mettersi a
disposizione. Troppo decisionista/protagonista questo Renzi, sembra
Craxi o Berlusconi (ci è pure andato a cena, l’infingardo) a sentire gli
umori della base del Pd, prontamente riportati dai segugi di Repubblica. Il Fatto l’ha paragonato al Duce, per non sapere né leggere né scrivere. Per la Bindi è un provocatore.
Secondo Bersani
alla manifestazione del Pd “c’è stato solo un battibecco. È stata una
cosa spiacevole. Ma vorrei ricordare che Renzi è uno del Pd e io sono
anche il suo segretario.” E poi, naturalmente, bisogna pensare
all’Italia, non ai destini personali, che non coincidono mai con le
ambizioni di chi sta fuori dal cerchio magico. Poi arriva la rasoiata di
Prodi: “Bersani è una persona eccellente, di grandi capacità, posso
dirlo, è stato un mio ministro, ma non riesce a “uscire”… Non è
confortante leggere che, con quel che succede, nei sondaggi il Pd non
riesce a crescere come ci si aspetterebbe”.
Certo l’inazione snervante e inutilmente parolaia del centrosinistra,
quella sinistra sensazione di “indecisi a tutto” che con il governo
dell’Unione aveva rapidamente raggelato ogni speranza di cambiamento
dell’elettorato, contribuisce non poco ai crucci del Professore. Anche
Prodi non fa il vago e presenta il conto al “manico” della ditta, con
tutta la crudele cortesia di cui un bolognese (acquisito) è capace.
L'articolo, con foto, è stato pubblicato su The FrontPage.
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19 maggio 2011
LA MARCHESA DEL GRILLO
Se fosse venuta la tentazione di considerare quella di Bologna una
mezza vittoria per il Pd, un 50,41% che impallidisce non solo davanti
all’impresa di Pisapia a Milano e al colpo di teatro napoletano di De
Magistris, ma pure di fronte al successo di Fassino a Torino, basti
ricordare che due anni fa a Delbono occorse il secondo turno prima di
piegare Cazzola. E che nel 1999, prima della parata trionfale del commissario del popolo
Sergio Gaetano Cofferati, a salutare l’ingresso di Guazzaloca a Palazzo
D’Accursio come primo e ultimo sindaco di centrodestra c’erano le
bandiere di Ordine Nuovo e diversi gentiluomini con la testa rasata e il
braccio teso.
Il centrosinistra bolognese è stato capace, in mezzo secolo e
passa di governo della città, di mettere in piedi un sistema economico,
produttivo e di potere che ha garantito una qualità della vita, dei
servizi e delle tutele che per lunghi anni ha reso la vecchia signora dai fianchi un po’ molli, col seno sul piano padano ed il culo sui colli, come l’ha cantata Guccini, una fra le mete più ambite per studiare, lavorare, metter su famiglia, giocare ai bissanot (in dialetto, letteralmente, “mastica-notte”). Ora il modello mostra la corda.
Le cause prime non sono imputabili alla politica. Globalizzazione dei
gusti e dei problemi, omogeneizzazione tecnologica e culturale,
invecchiamento della popolazione e conseguente gap di
comunicazione con la popolazione studentesca (vera e propria città nella
città), affitti e costo della vita alle stelle hanno congiurato per
trasformare Bologna in una cittadina medioevale fra le tante. Tutta la
mistica che ne ha accompagnato l’immagine, quindi (grassa, tollerante,
solidale, godereccia, ecc.), ha iniziato a sgretolarsi innanzitutto fra i
bolognesi stessi, che hanno cominciato a non crederci più.
Le responsabilità della classe dirigente iniziano qui. L’avere
giocato di rimessa, senza prendere di petto il cambiamento (o declino a
sentire i pessimisti) che avveniva sotto gli occhi dei bolognesi (che
ne parlano fra loro, nei bar e nelle osterie, da vent’anni), si è
trasformato in una sorta di silente complicità. Il cambiamento, si sa, o
lo si governa o lo si subisce e il centrosinistra bolognese ha optato
per la seconda strada, arroccandosi in un autoesilio politico-culturale
fatto di faide continue, personalismi, navigazione a vista che ha
finito per far smarrire il senso del progetto, quell’impostazione
felicemente sovietica (pianificazione) che aveva permesso a Dozza,
Fanti e Zangheri di fare Bologna.
Il Movimento 5 Stelle è stata l’unica forza politica capace
d’interpretare questo sentimento/sensazione di disillusione/disincanto,
diffuso tra i bolognesi ben al di là delle percentuali ottenute dalla
lista di Grillo, e di formulare un’offerta politica conseguente e
vincente. Significativamente i maggiori successi, in Italia, il hanno
ottenuti laddove il centrosinistra è figlio di un passato glorioso,
ininterrottamente al potere da decenni, ma appare fiacco perché privo di
strategia e/o di leadership carismatiche: Bologna, Rimini e Ravenna (tutti e tre tra il 9 e l’11%).
Una sorta di Lega di sinistra, o forse la versione italiana del
successo delle liste ecologiste in tutta Europa (uno dei loro punti di
forza progettuale è quello), una nuova opposizione che si annuncia
sempre più ingombrante e decisiva in vista dei ballottaggi e dei
prossimi appuntamenti elettorali. La sensazione, per quanto riguarda il
centrosinistra, è che l’appeal della sua proposta è
inversamente proporzionale a quello del candidato grilino (come a
Milano). Non a caso Grillo, a Bologna, ha dato del busone (gay in italo-bolognese) a Vendola: si sta già mettendo avanti col lavoro.
"Bologna" di Francesco Guccini è qui. L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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26 aprile 2011
REALITY BOLOGNA
 “Ebbene sì: Teorema, la società di servizi fiscali convenzionata con
il Caaf della Cgil Emilia-Romagna, ha pensato bene di uscire con lo
slogan «Non fidarti degli sconosciuti».
Per mostrare attenzione verso le donne, suppongo (vedi l’immagine),
ma in realtà sfruttando – e confermando, e rinforzando – la paura degli
«sconosciuti». Che sotto sotto c’è in tutti, donne e
uomini. Di destra e sinistra. Di qui alla paura dell’altro, dello
straniero, del diverso, il passo è più che breve, è lo stesso identico
passo: quello della Lega. Ma la Cgil non era di sinistra?”
Se Giovanna Cosenza, allieva di Umberto Eco e docente di semiotica
all’Università di Bologna, fosse stata leghista probabilmente avrebbe tuonato contro
il Caaf della Cgil che tappezza Bologna di messaggi subliminali pro-Pd.
Nella città di Dozza e Fanti le elezioni sono alle porte e gli
sconosciuti, gli stranieri, sono i barbari leghisti più che i migranti
nordafricani. L’eventualità che la bandiera di Alberto da Giussano possa
sventolare a Palazzo d’Accursio, dopo il ballottaggio che gli ultimi sondaggi danno
per probabile per quanto difficile, non è più così remota. Di qui,
forse, lo stato confusionale della sinistra e l’analisi un po’ fantasy
della professoressa Cosenza sulla campagna delle Lance Libere.
A Bologna la Lega, al 3% fino a due anni fa, candida Manes
Bernardini, avvocato di trentotto anni sostenuto da un Pdl mugugnante,
bella presenza e “leghista dal volto umano”, secondo il sin troppo lusinghiero ritratto che ne fa Michele Brambilla su La Stampa.
I sondaggi lo accreditano tra il 24 e il 33 per cento ed è l’unico ad
essersi presentato, il 21 aprile, alla festa per la Liberazione della
città (forse per far dimenticare di aver dichiarato che era avvenuta a
“ottobre del 1945”). Non c’era Aldrovandi, il terzopolista sostenuto dall’unico ex sindaco di centrodestra Giorgio Guazzaloca e accreditato dell’8-9 per cento dei consensi né Bugani, il grillino che rischia di andare in doppia cifra e alla domanda “chi era Dossetti?” ha risposto mesto “non lo so”, né Merola.
“Atos Solieri contesta: «Uno scivolone può passare, due mica tanto,
ora siamo alle comiche! Se uno si dimentica questi appuntamenti qui, a
sem a post!»”. Virginio Merola, fresco trionfatore delle primarie del
centrosinistra con venti punti di scarto sulla candidata di Sinistra e
Libertà, è impegnato in una sorta di guerra alla comunicazione
contemporanea. Il claim della sua campagna “Se
vi va tutto bene, io non vado bene” è diventato un
tormentone-scioglilingua cittadino e le sue spettacolari gaffes (“spero
che il Bologna torni in serie A”) hanno già fatto storia, entrando di
diritto nella narrativa da bar di cui Bologna, alla faccia di chi le
vuole male, è ancora capitale morale. Per i sondaggi è in bilico. Tra il
45 e il 51 per cento significa rischio ballottaggio e l’incubo del ’99,
diserzione elettorale della sinistra e vittoria dei cattivi, si profila
nuovamente all’orizzonte.
Bologna, reduce da un anno e mezzo di commissariamento (record
italiano) a causa delle repentine dimissioni di Delbono dopo le accuse
di Cinzia Cracchi (ora capolista di una lista civica), non è solo “la
città dei rancori”, come l’ha ritratta la puntata di Report dell’illustre
cittadina Milena Gabanelli, ma nel dibattito pubblico prevale
quell’aria da reality un po’ sfigato che la trasmissione ha catturato
impietosamente nelle interviste sempre più sconsolate (da parte del
giornalista visibilmente provato) agli aspiranti primo cittadino e agli
esponenti della claustrofobica classe dirigente locale. Quando a
Maurizio Cevenini, record man di matrimoni celebrati, quasi-candidato sindaco
e capolista del Pd alle elezioni, è stato chiesto con qualche imbarazzo
(“non sono riuscito a trovarli da nessuna parte”) che programmi avesse,
lui ha risposto con un sorriso disarmante, da tronista in castigo, “eh
lo so, è un mio difetto”.
Il teatrino di paese non riesce a nascondere la realtà di una città
ferma, incapace di prendere decisioni, con 49 filobus su gomma Civis figli di nessuno costati
oltre 150 milioni di euro (per ora) e parcheggiati al Caab, la stazione
in eterno cantiere e deliranti progetti alla Blade Runner (people mover
e altri dadaismi ingegneristici) sulla rampa di lancio. Una
metropolitana in una città da 400.000 abitanti, per dire, fa un po’
ridere eppure se ne parla da due lustri, anche se non c’è verso di
decidere. Invece la chiusura del centro storico alle auto, votata dal
70% dei bolognesi nel referendum del 1985, non è mai stata fatta. Forse
basterebbe partire da quello che c’è, una città medioevale colma di
tesori architettonici, dove si mangia bene e si sa vivere, valorizzarlo,
e magari cominciare a dirlo un po’ in giro.
L'articolo è stato pubblicato (insieme con la foto) su The FrontPage.
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