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 VOTO Per il partito del diavolo. Quello dei mercanti, delle mignotte, dei preventivi.
Che ha inventato il marketing e gli hippie. Principio vitale e creatore, maschio, della contemporaneità. Ora, però, sta perdendo dei colpi. Martiri e beghini non fanno altro che strillare di valori e verità. Tutte balle per il vecchio tiranno, avvezzo alla ruvida legge del business e a quella melliflua del piacere. Parole incomprensibili, sparate in tutto il mondo dalla comunicazione.
Il re si era illuso. Per anni aveva dimenticato: non era solo al suo arrivo. La comunicazione era sempre stata lì. Creatrice, femmina, dell’umanità. Il vecchio aveva creduto di dominarla e in effetti per lungo tempo era andata così. Non aveva più memoria di essere anch'egli una sua creazione. Una funzione. Lei poi se ne stava in un angolo. Zitta e buona, casa e bottega.
Non aveva fatto una piega neanche quando le aveva portato a casa la tecnologia. L'arrivo della nuova amichetta sembrava non turbarla. Anzi: assecondava di buona lena ogni morbosità del veccho pervertito. Poi ci ha preso gusto e ha cominciato a giocare per sé. La nuova non le dispiaceva affatto, era una complice ideale. Efficiente, assecondava ogni voglia con pruriginosa meticolosità. E aumentava sempre la posta.
Dominata e dominatrice, allora, si sono messe a giocare insieme. Proprio sotto gli occhi del re, che non vedeva e si compiaceva: la partita era sempre più eccitante. Ma gli sguardi tradivano e il vecchio era costretto a rincorrere. Sempre più spesso non capiva e passava in rassegna prima l'una poi l’altra, a ripetizione, per afferrare qualcosa. La bocca spalancata.
Loro lo tranquillizzavano, gli facevano le coccole e lo mettevano a dormire. Era stato un re glorioso e non si meritava uno scherno manifesto. Dentro di loro, però, sapevano già come sarebbe finita.
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16 ottobre 2012
BERSANAMENTO
 “È stato un capolavoro di democrazia. Se usciamo bene dalla vicenda
delle primarie non ci ammazza più nessuno”. Di certo adesso faranno più
fatica ad ammazzare lui. Bersani, il segretario, dopo l’Assemblea
nazionale del Pd del 6 ottobre è stato salutato dal coro mediatico come
un generoso liberale che, un po’ per tattica un po’ per convinzione, le
primarie le ha aperte davvero. Con qualche regoletta, certo, ma un po’
di regole ci debbono pur essere, no?
Le regolette,
però, per definizione sono vincolanti e in questo caso la sanzione per
chi non le rispetta è stare a casa, senza se e senza ma. Così, dopo i
primi attimi di entusiasmo, gli aspiranti premier del Pd, outsider
che avevano annunciato la propria candidatura in deroga all’articolo 18
(i casi del destino) dello statuto che prevede che sia il segretario a
rappresentare la ditta alle primarie di coalizione, si sono resi conto
di essere rimasti in braghe di tela.
Alle diciottomila firme di iscritti al Pd (“Una follia, io ci ho
rinunciato già il primo giorno”, dice Puppato) si sono affiancate
pastoie burocratiche stile lasciapassare a 38. Elenchi degli iscritti consultabili solo all’interno delle sezioni del partito, per via della privacy
(che non vale per l’albo pubblico degli elettori, però), blindatura
senza quartiere della maggioranza già bulgara in Assemblea nazionale,
con conseguente difficoltà a trovare le novantacinque firme necessarie
per candidarsi.
“Io posso parlare per esperienza diretta. Diversi delegati che
avevano assicurato di voler sostenere Renzi, hanno cambiato
improvvisamente idea. Alcuni si erano fatti avanti con convinzione, ma
dopo qualche giorno e qualche colloquio privato, hanno fatto un passo
indietro”. Salvatore Vassallo, deputato neo-renziano (ed ex
veltroniano), descrive un clima da “o con noi o contro di noi” che forse
è quello che aveva in testa Bersani quando, con apprezzabile humour emiliano, ha gridato al “capolavoro di democrazia”.
Il Bersani neo-rottamatore (che può già incassare il bye bye
di Veltroni) è uscito bene dall’Assemblea nazionale, garantendo a Renzi
la possibilità di correre (e svincolandosi dai vecchi pachidermi) ma
costringendolo a una silenziosa conta old style di delegati “fedeli” e bastonando senza pietà gli altri outsider in grado di togliergli voti al primo turno. Pare che solo la Puppato riesca a trovare le firme, unica donna “in gamba” per i Bettoliani del secondo turno e/o clone mignon del segretario, per i maligni.
Sarà l’acrilico, ma a me la cartolina di Bettola piace. Forse perché è
talmente fuori dai canoni della comunicazione contemporanea (pure
quella più dadaista) e così sideralmente distante dal “made in Usa”
di Renzi, che al terzo (o quarto) sguardo ha finito per conquistarmi.
Il richiamo familiare, poi, è talmente arcaico da stemperare la
ruffianeria e abbastanza emiliano da non cedere alla retorica (niente
giuramenti, salamelecchi, o poesie strappalacrime). Anche questo merita
rispetto.
Prima ero rimasto un minuto buono, gli occhi sbarrati, a fissare l’immagine sul mio Mac del sito della campagna, “TuttiXBersani”, in effetti molto simile
al “TuttiXMilano” di un paio d’anni prima. Credo che il neologismo
“sciogliocchi” sia il più indicato per definire l’inferno grafico che
circonda il nonsense editoriale di uno strumento che, a
differenza di quello di Renzi, è palese che sia stato fatto proprio
perché non se ne poteva fare a meno. Al contrario della cartolina di
Bettola, che ha un cuore.
L’idea del partito che si legge in controluce, però, è quella che
aleggia sulle belle facce emiliane dell’infanzia di Bersani, che il suo
staff ha fatto circolare in occasione dell’avvio della campagna, a
Bettola (suo paese natale). Un partito pesante come un aratro e duro
come le zolle di terra da spaccare. Niente a che spartire con Renzi,
ovviamente, poco con il partito delle primarie (che ci sono ancora solo
perché Renzi è partito senza chiedere il permesso a nessuno), di Twitter
e Facebook, della mediatizzazione, della personalizzazione della
politica. In una parola della contemporaneità.
Il paradosso è che per affermare questa idea di partito, Bersani sta
mettendo in gioco sé stesso in modo molto più americano del rivale
rottamatore. Paradosso fino a un certo punto, per chi conosce gli
emiliani, a cui fa da contraltare l’altra verità di cui nessuno pare
accorgersi in queste ore. Per le regionali del Lazio c’è Zingaretti e
basta (nisba primarie) e in Lombardia, dove delle primarie parlano solo i
giornalisti,
per ora l’unico candidato certo del centrosinistra è Tabacci. Dopo
Formigoni ci si aspetterebbe anche qualche colpo d’ala, ma questa è
un’altra storia.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
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7 ottobre 2012
OUTSIDER TRADING
“Mi avevano chiesto, come si usa, di fare due conti e vedere chi sta
con chi. Ho fatto un sondaggio fra la nostra gente, segretari di circolo
funzionari amministratori: tutto a posto, tutti con Bersani. Poi la
sera che è venuto Renzi a parlare alla festa ho visto, in platea, il
parrucchiere del mio paese, Alfonsine, è da lui che vanno a tagliarsi i
capelli tutti i ragazzi. E ho visto anche il direttore della Conad,
quella dove vanno le donne a fare la spesa. E poi in fondo il fratello
di mia suocera, che fa l’imprenditore e che quando vuol sapere di
politica chiede a me. Ho domandato al parrucchiere. Ma stai con Renzi? E
lui: ma sì, è nuovo è giovane. Poi tanto sono tutti nel Pd, no? Bersani
faccia il segretario, Renzi il presidente del Consiglio”.
Questa,
fuori dalle chiacchiere politicanti è l’aria che tira. C’erano serie
possibilità che l’Assemblea nazionale del Partito Democratico di sabato 6
ottobre fosse l’ultima. Bastava che il fu Partitone assediato si
arroccasse in una Bulgaria di lacci e lacciuoli, tesi a tagliare le
gambe alla volata del camper di Renzi, e Renzi, poi, avrebbe avuto tutto
lo spazio del mondo – e le ragioni – per presentarsi alle elezioni in
libertà. Mostrando dunque di aver fatto bene i suoi conti a iniziare la
sua campagna con un appello agli “altri”.
Sulle “regole del gioco”, con cui si corrono le primarie per la
candidatura alla premiership del centrosinistra italiano, la decisione è
stata assurdamente rimandata per mesi, come quegli esami medici che
dovremmo davvero, ma proprio non abbiamo voglia di fare. Così oggi il Pd
di Bersani si trova a inseguire col fiatone un candidato che già parla
da premier e che l’ultimo sondaggio Ipr gli piazza tre punti dietro. 37 a
34, con Vendola ben sotto il 20 e gli altri (Puppato-Gozi-Tabacci) con
percentuali da prefisso.
Per capire la differenza basta accendere il pc, andare su Google e
dare un’occhiata ai siti internet dei due candidati, uno dietro l’altro.
Due ere geologiche. E questo vale per tutto il resto: dal fund raising
online professionale alla presenza sui social network, dalla perfetta
riproduzione iconografica del cliché stilistico del Pd made in Usa – in
una grafica impeccabile, nel suo stereotipo manifesto – alla mimica del
corpo durante i comizi-show del tour in giro per l’Italia.
Se Renzi vince le primarie, poi, è l’apocalisse Maya. Almeno per le
centinaia di migliaia di famiglie che vedono uno stipendio sicuro
smettere di esserlo. Per ora il corpaccione dell’ex partitone ha retto,
ma se i sondaggi anche solo si attestano su queste proporzioni il cambio
di casacca, dalle ultime file in avanti, a beneficio del quasi
vincitore senza esercito diventerà sempre più sistematico e compulsivo
man mano che la data delle primarie si avvicina minacciosa.
Già ora i maligni insinuano che agli show elettorali di Renzi tra le
spie inviate dai dignitari di Bersani, sempre una dignitosa porzione
della platea del comizio multimediale, pullulino i disertori pronti a
vendersi appena finita la corsetta scenica con cui ad ogni tappa il
sindaco fiorentino raggiunge il palco. Solerti funzionari occhiuti,
rimasti spiazzati da quella inconfondibile puzza di vittoria, così
raramente annusata, e subito folgorati sulla via del camper. Chi primo
arriva…
Fuori dagli attendamenti dei generali sul campo, poi, si aggirano le
candidature di bandiera come quella di Puppato (di cui subito s’è
malignato essere quella di Bersani, la bandiera), Gozi (che pare più
interessato a posizionare ego e cv, più che legittimamente) e Tabacci,
unica candidatura fuori dal, paradossale, coro giovanil-movimentista di
cui Vendola è il massimo campione storico. Nonostante l’età e il
background.
Vale la pena spendere due parole per il governatore della Puglia,
classico ed eterno esempio di radioso futuro alle spalle, che per un
breve ma intenso attimo parve avere la possibilità di dare concretezza
al velleitario. Facendo dell’esperienza di governo il jolly per
accreditarsi anche fuori degli steccati ideologici che presidia da un
trentennio come un credibile leader della sinistra. Si sa com’è andata a
finire, in Puglia e nella sinistra, e la sua eterna campagna per
l’argento alla leadership del centrosinistra senza trattino non
appassiona più da almeno un annetto. Troppa fretta, troppo ego (ma bella campagna: complimenti ai creativi).
Ma forse Bersani è più furbo di quanto vuol far credere e lo sfoggio
di liberalità del 6 ottobre può essere il modo di ottenere tre
risultati: una bella figura e un bel numero di candidati che dipendono
dalla clemenza della tanto vilipesa “struttura”. La conciliazione del 6
ottobre, infatti, è un a buona notizia soprattutto per Renzi: 18.000
firme da raccogliere in una settimana (107 firme all’ora cioè 1,78 firme
al minuto, come conteggiano al volo su Twitter) o almeno il dieci per
cento dei delegati dell’Assemblea nazionale del Pd. Dura per gli
outsider.
Ma l’unica possibilità che Renzi non vinca, a occhio e croce, è che
ci sia qualcun altro in grado di togliergli abbastanza voti, militanti,
volontari, campo. Tutta gente che ora si trova costretta a scegliere fra
la padella e la brace. Qualcuno di giovane, “nuovo”, credibile, ma un
po’ meno marziano del sindaco di Firenze, almeno agli occhi del target
Pd, senza disinvolte gite ad Arcore nello score e con meno brillantini e
paillettes televisive. Qualcuno come Pippo Civati.
La sua rete ha lanciato in questi giorni “Occupy Primarie”, la campagna online che fino al 12 ottobre sforna ogni giorno una cartolina per l’Italia ed è culminata mediaticamente nel “blitz dell’Ergife”, il gotico hotel pullulante di déja-vu dove si è tenuta l’Assemblea del Pd. Sono sempre gli stessi che hanno formulato i sei referendum
per smuovere le acque dentro un partito in cui, senza il ricorso al
pueblo su certi temi non si muove foglia. E che ora chiedono di votarli
insieme alle primarie. Con o senza Civati sulla lista.
Questo pare proprio l’ultimo giro di giostra. Ma che succederà poi,
al Pd, se e quando la rottamazione sarà compiuta? Una volta che i vecchi
oligarchi con cui prendersela sempre avranno davvero levato le tende o
comunque si limiteranno a brontolare, come tutti i bocciatori in là con
l’età? Cosa rimarrà del Pd con un governo a trazione renziana (o
montiana)? Il congresso è oggi, anche questa partita si gioca ora.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. La campagna "Occupy Primarie" è stata realizzata delle Lance Libere.
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