<%if foto<>"0" then%>
|
|
|
 VOTO Per il partito del diavolo. Quello dei mercanti, delle mignotte, dei preventivi.
Che ha inventato il marketing e gli hippie. Principio vitale e creatore, maschio, della contemporaneità. Ora, però, sta perdendo dei colpi. Martiri e beghini non fanno altro che strillare di valori e verità. Tutte balle per il vecchio tiranno, avvezzo alla ruvida legge del business e a quella melliflua del piacere. Parole incomprensibili, sparate in tutto il mondo dalla comunicazione.
Il re si era illuso. Per anni aveva dimenticato: non era solo al suo arrivo. La comunicazione era sempre stata lì. Creatrice, femmina, dell’umanità. Il vecchio aveva creduto di dominarla e in effetti per lungo tempo era andata così. Non aveva più memoria di essere anch'egli una sua creazione. Una funzione. Lei poi se ne stava in un angolo. Zitta e buona, casa e bottega.
Non aveva fatto una piega neanche quando le aveva portato a casa la tecnologia. L'arrivo della nuova amichetta sembrava non turbarla. Anzi: assecondava di buona lena ogni morbosità del veccho pervertito. Poi ci ha preso gusto e ha cominciato a giocare per sé. La nuova non le dispiaceva affatto, era una complice ideale. Efficiente, assecondava ogni voglia con pruriginosa meticolosità. E aumentava sempre la posta.
Dominata e dominatrice, allora, si sono messe a giocare insieme. Proprio sotto gli occhi del re, che non vedeva e si compiaceva: la partita era sempre più eccitante. Ma gli sguardi tradivano e il vecchio era costretto a rincorrere. Sempre più spesso non capiva e passava in rassegna prima l'una poi l’altra, a ripetizione, per afferrare qualcosa. La bocca spalancata.
Loro lo tranquillizzavano, gli facevano le coccole e lo mettevano a dormire. Era stato un re glorioso e non si meritava uno scherno manifesto. Dentro di loro, però, sapevano già come sarebbe finita.
 |
|
|
|
13 aprile 2013
B COME BALLE
“Non ti
ho tradito. Dico sul serio. Ero… rimasto senza benzina. Avevo una gomma a
terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva
portato il tight. C’era il funerale di mia madre! Era crollata la casa!
C’è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è
stata colpa mia! Lo giuro su Dio!”
Chissà perché ma quando mi è capitato per le mani il volantino del Comitato “B come Bologna”, ribattezzato “B come Bambini” dal sindaco Merola con la grazia di una bombarda, mi è venuto in mente John Belushi.
Sporco fino agli occhi, nella fogna, che si butta in ginocchio ai piedi
della sua ex promessa sposa che ha mollato sull’altare (l’indimenticata
Principessa Layla di Guerre Stellari).
“Se voti
A: verrà abolito il contributo economico alle scuole paritarie
convenzionate, circa 600€ a bambino all’anno… I gestori saranno
costretti ad aumentare la retta annuale di almeno 600€… Questo
provocherà un significativo calo degli iscritti, oltre 400 famiglie, da
subito, abbandoneranno le scuole “paritarie non più convenzionate” e
andranno ad infoltire le liste d’attesa delle scuole comunali e statali.
Con i soldi non dati alle scuole convenzionate il Comune non sarà
assolutamente in grado di dare un posto a tutti…”
Esticazzi
se è un referendum consultivo. Il Pd di Bologna da qui al 26 di maggio
pare non abbia di meglio da fare che andarsene in giro per circoli e
periferie a tentare di convincere operai, casalinghe, pensionati, ex
partigiani, studenti, volontari delle Feste dell’Unità e delle Case del
Popolo, gente che ne ha mandate giù parecchie anche qui ultimamente, che
si, alla fine dei conti, sborsare un milione di euro all’anno alle
scuole private è cosa buona, giusta e inevitabile. Sennò arrivano le
cavallette.
E pace se
c’è la crisi, le scuole pubbliche cadono a pezzi, le liste d’attesa ci
sono lo stesso e il milioncino viene gestito ogni anno in toto dalla
misteriosa Federazione Italiana Scuole Materne, che dietro l’asettico
acronimo FISM
è una roba così: “Oltre le necessarie qualità professionali esigite
dalle leggi civili, l’insegnante dovrà: a) possedere una solida
conoscenza della visione cristiana dell’uomo e della dottrina della
fede; b) accogliere con docile ossequio dell’intelligenza e della
volontà l’insegnamento del Magistero della Chiesa; c) vivere
un’esemplare vita cristiana”.
Pazienza,
pure, se 250 euro e passa al mese di retta (in media) non sono
esattamente a buon mercato: più del doppio della scuola pubblica (dove
si pagano solo i pasti). Il gioco deve valere così tanto la candela da
piazzarci il marchietto del Comune (cosa, credo, senza precedenti) sul
sito internet del comitato “B come Bologna” contrapposto a quello dei
cittadini, “Articolo 33”.
Avanti coi carri, dunque, ora che l’unico cavallo rimasto in pista si
chiama Matteo Renzi, è cattolico, e il suo (ex?) spin doctor pare abbia
preso a cuore la madre di tutte le battaglie di ogni Don Camillo.
Eppure di questi tempi
andare a raccontarla ai propri elettori, sempre più sinistramente
simili all’ex fidanzata di Jake Blues, ci vuole un gran bel fegato.
Anche perché c’è la possibilità che molti di loro si siano trovati, come
me, ad avere a che fare con qualcuna di queste scuole paritarie che,
figurarsi, di certo ce n’è delle bellissime. In quella a cinque minuti a
piedi da casa mia però, nella Romagna profonda, fanno pregare i bimbi
di tre anni due volte al giorno e dentro sembra di stare al mausoleo.
Dal sito
Internet abbiamo pure scoperto che, a parità di punteggio, entrano “i
figli o nipoti in linea retta di soci dell’Asilo”. Lo dice il regolamento, non il gossip di paese, c’è da fidarsi. Beccano anche un sacco di soldi
da tutti, Comune, Provincia, Regione, la retta è il triplo di quanto
spendiamo alla statale (dove con quattro soldi si sbattono per mettere
in piedi una didattica ricca e creativa), ma in compenso è pieno di
bagni. Mai visto tante Madonne, santi e cessi tutti in fila: non meno di
un water ogni tre fanciulli.
E mentre
mi rigiravo per le mani “B come Bologna, più scuole per tutti”,
rimuginavo sul rinnovato matrimonio tra il Pd cittadino, la curia, il
baronato e tutti i presunti poteri forti, coronato da due ali di
battimani sincronizzati di Pdl, Lega e Udc. Proprio mentre l’esploratore
Bersani si faceva infilzare come un tordo da Grillo e pur di evitare
l’abbraccio con l’Impresentabile si lasciava corcare in streaming senza
pietà.
In quel
preciso momento il Pd di Bologna ha deciso, a freddo, di tirarsi
un’atomica a sinistra lasciando da lì in avanti una prateria al
Movimento 5 Stelle, che infatti ha già cominciato
a fare quello che gli viene meglio: mettere il cappello sullo
sbattimento di movimenti e associazioni assortiti. Per poi oscurarli (di
solito son litigiosi e disorganizzati, si squagliano in fretta) e
trasformare il conflitto in voti. Che si tengono tutti per loro.
Bologna,
in fin dei conti, è sempre stata un laboratorio politico per la
sinistra. Perché non dovrebbe esserlo pure nell’ora dell’estremo trash?
Quindi delle due una: o Bersani bluffa e la via crucis con Grillo è
stata una tragicomica gag alla Crozza, buona per andare a veder le carte
del compare astrologico e tentar poi insieme l’omicidio bipartisan di Renzi. Oppure no: in entrambi i casi al Pd tira aria di estinzione. E dare in pasto la scuola pubblica non li salverà. Né dagli altri né, soprattutto, da sé stessi.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. "Mi sono rotto il cazzo" degli Stato Sociale è qui.
|
15 marzo 2013
ANTIVIRUS
“Più di così divertirti non puoi… amico sì, sei in alto e lo sai.
Rose su rose, tutti premi per te, non aver dubbi sei un re. Complicità,
quanta gente con te… continuerà fino a quando vorrai. Rose su rose,
ricchi premi e cotillons e non frenare, questo no. Ma no che la vita non
è qui, è più in alto di così ah, cosa dici, sì… ma no, di passato non
ne hai, di futuro non ne vuoi, ma di che mondo sei? Guarda più in là,
quanti amori non hai… amico sì, stare senza non puoi. Rose su rose e con
loro appassirai, resterai solo coi tuoi guai…”
Non so perché, ma quando ho letto la fucilata di Grillo al povero
Bersani (“Se il M5S vota la fiducia lascio la politica”), m’è venuta in
mente Rose su rose. Temo ci sia di mezzo un’altra volta la polizia del karma
e la sua, nota, ineluttabilità. Mina è una gran donna dotata, tra
l’altro, di un’esibizionistica misantropia che mantiene inalterato il
suo appeal. Appena l’irredento Beppe s’è tuffato fra Scilla e Cariddi,
qualche mese addietro all’inizio dello tsunami, lei l’ha letteralmente
frustato sulle chiappe.
“È vero, c’è qualcosa che fai esattamente come Mussolini, come
Stalin, come Mao, come Giannini ed è bere, dormire, mangiare e, orrore,
fare la cacca. Vorrei già richiudere l’oblo e impegnarmi a emulsionare
una buona maionese con le uova fresche, quelle dei giornali
precedentemente citati, appunto. Sarà meglio. Mi concedo solo un piccolo
momento per un’incazzatura. Che bassezza, la povertà di questa
iconografia da strapazzo. Le similitudini per la tua antidemocraticità,
per il tuo qualunquismo, per la tua voglia di reclamizzarti sono pezzi
disordinati di ineleganza, al limite del ridicolo. O della querela. Ne
vedremo delle belle, temo. Tu va’, dritto come un fuso. Corri Forrest,
corri…”.
Giddap! Nessuno però, neanche Mina credo, immaginava che Forrest Grillo arrivasse
al traguardo così primo, benché terzo, e così in fretta. Né che gli
altri fossero già così spompati: il primo troppo rintronato dal gong del
voto e dalle sue temibili ripercussioni
sui prossimi rintocchi di potere nel fortilizio rosso e il secondo
completamente a pelle di leopardo nel tentativo di evitare sbarre, gogna
e/o fuga. B&B, nati sotto il segno della Vergine, destinati a
salvarsi o suicidarsi. Sempre insieme.
“Più di così divertirti non puoi, amico si sei in alto e lo sai”, non
c’è ombra di dubbio. Ma quando arriva Bersani col cappello in mano, con
proposte che messe in fila (una volta riacciuffate all’italiano
corrente) fanno impallidire anche il girotondino più canuto e accanito,
siamo sicuri che sia saggio concedere l’ennesimo bis del celebre mantra
che l’ha coperto di “rose su rose”? Poi, certo, “tutti premi per te, non
aver dubbi sei un re”…
Sfanculare chi sta schiantando trent’anni di carriera politica e si
prende giornalmente sputi in faccia dagli altri e calci negli stinchi
dai suoi, per governare col M5S costi quel che costi: pagherà? Quando
mai Grillo, 100% a parte, si troverà più in una tale condizione, anche
psicologica, di forza? E mentre ballano i ballerini, tutta la notte e al
mattino, la nave Italia corre verso l’iceberg col 55% della gente che
ha problemi economici e cinque imprese su sei che temono di chiudere
bottega entro fine anno.
La verità è che dopo tanto pontificare di ‘democrazia della rete’,
nel momento esatto in cui Grillo ha risposto picche a chi gli chiedeva
di fare un referendum online per decidere se fare o no il governo con
Bersani (“perché il non-statuto non lo prevede”) è entrato nel Palazzo.
Membro onorario di quella partitocrazia che non prenderà la puzzolente
pecunia romana, visto che restituisce i rimborsi elettorali, ma che
mette l’interesse del suo non-partito davanti a quello dell’Italia.
Per sua fortuna la cresta dell’onda è ancora alta sull’orizzonte dei
sondaggi e degli umori nazionali, al solito creativi. “Alle ultime
elezioni ho votato per qualcuno che non mi piace! Voglio vedere il mio
Paese risplendere e non mi rassegno alla mediocrità della nostra classe
politica, sono un patriota, amo l’Italia”. Ha spiegato, serio, Lapo Elkann a Le Monde, dichiarandosi per il partito di un signore che sostiene, tra l’altro, il raddoppio del prezzo della benzina come eco-terapia d’urto.
Ma, a parte patetici appelli e sondaggi sfornati caldi dai soliti
noti (che proprio non ci stanno dentro), è ovvio che la baracca Italia
ha bisogno di essere governata, anche se fino a quando il precipizio non si profila nitido ognuno
ha una ragionevole quanto bizzarra ragione per pensare che tutto
s’aggiusta sempre. Hai voglia allora a strillare all’inciucio, se pure i
sassi capiscono che anche solo per tornare alle urne c’è bisogno di una
legge elettorale votata da una maggioranza parlamentare.
Così mentre Forrest e Merlino traccheggiano, fra pre-tattica e
terrore, l’ottimismo della ragione consente di scorgere, nelle bizze da
asilo del Pd, un sapiente gioco delle parti. Il segretario uscente e
perdente s’immola nella definitiva parte del vecchio di nobili principi e
riprende a farsi contestare dalla giovane speranza (ultima), che vuole
abolire il finanziamento pubblico ai partiti per “far pace con
l’Italia”.
Sarebbe un bel casino, infatti, se Renzi venisse acclamato dal
politburo a suon di battimani brezneviani. Invece è solo, come prima, e
fuori dal Palazzo. A differenza di Grillo, che c’è dentro fino al collo e
a ogni fanculo, a ogni aut aut, a ogni patetico appello
stracciato, a ogni azienda che chiude, rafforza l’Antivirus che lo
resetterà. Di qui alle prossime, imminenti, elezioni non ci sono solo i
suoi otto milioni e passa di voti, ma pure i quasi dieci di Berlusconi e
compagnia. E sono tutti uguali.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
4 marzo 2013
PRIMA DELL'ESTINZIONE
 Una decina di giorni prima del 25 febbraio 2013, dopo che una pioggia
di meteoriti aveva provocato esplosioni nel cielo degli Urali, un
asteroide di centotrentacinquemila tonnellate e quarantacinque metri di
diametro era sfrecciato a circa ventisettemila chilometri dalla Terra,
alle 20 e 25, ora italiana. Senza apocalissi
di sorta. Anche i più tenaci apologeti dell’Armageddon Maya ritardato
si erano dovuti arrendere alla noiosa evidenza della persistente
sopravvivenza della, cocciuta, specie umana.
Dopo dieci giorni, più o meno alla stessa ora, era ormai chiaro che
in Italia il Maya di turno non era nato tra le nebbie della bassa padana
di Bettola. Di lì a qualche ora l’inviato di Porta a Porta,
imbalsamato nel suo piumotto circonfuso dalle luci di scena e dalla
spettrale quiete residenziale promanante dalla villa del timoniere di
Sant’Ilario, avrebbe spalancato le braccia e il sorriso, disarmante e
disarmato: “non abbiamo contatti con Beppe Grillo, né col suo staff… di
nessun tipo”.
“Gli alieni sono invece introvabili, non sai con chi parlare, sono
inafferrabili, interlocutori politici potenziali e media sono alla
stessa stregua tenuti fuori dalla porta, anzi non c’è la porta, non si
sa dove stanno e che fanno, vai fuori dalla casa di Grillo a Genova o
vai a Bologna dove c’è un’esperienza in Comune o cerchi disperatamente
di vedere se c’è un modello siciliano di omologazione, chissà, non hanno
l’etichetta al citofono, vogliono fare le sentinelle della rete dentro
le istituzioni, la delega ai capi è assoluta, nessuno si sente
autorizzato nemmeno a fingere di avere una opinione per sé, spendibile
politicamente, comunicabile senza passare per l’imbuto del web
controllato dal blogger.”
E pouf. Passa una settimana e l’Italia è Mars Attacks. Alieni, setta, strategia diversiva di matrice neoliberista
o forza di occupazione che dir si voglia: fatto sta che la prima parte
del tanto sbandierato piano di Grillo&Casaleggio è andato
magicamente in porto e l’Italia, le istituzioni repubblicane e tutta la
baracca sono in ostaggio. Dopo anni passati a far le prove,
scimmiottando le Br prima (sul blog venivano pubblicati i “comunicati
politici” con un font tipo ciclostile anni ’70) e scippando poi senza
vergogna Alan Moore, Anonymous e il movimento antagonista dell’icona di Guy Fawkes.
Appena si aprono le urne, come per magia, alcuni dei protagonisti
della storia della Repubblica recente e meno recente non esistono più.
La polizia del karma inghiotte subito Fini, Di Pietro, i comunisti e i
verdi di ogni ordine e grado (già semi-morti), Ingroia, ma anche Casini e
Monti scompaiono presto dai radar delle agenzie dopo le prime,
pallidissime, dichiarazioni di rito. Come previsto dal Piano di
Occupazione Stellare del Nexus 7 con gli occhialoni, rimangono in piedi
solo l’uomo di Bettola e quello di Arcore, nati sotto il segno della
Vergine. Lo stesso giorno.
Vendola, come da programma, comincia a sbarellare e attacca a dare
segni di diserzione ad appena ventiquattrore dalla chiusura dei seggi.
Aveva impiegato fior fior di sonetti e narrazioni per spiegare al popolo
della sinistra e ai fratelli dei media di volta in volta convenuti che
Grillo era un fascista della peggior risma, populista e maschilista
becero, gemello del Berlusca brutto e cattivo, e ora la stessa passione
gli sgorga con medesima ispirata naturalezza per sostenere l’esatto
contrario. Naturalmente ha buon gioco, il timoniere, a prenderlo per il culo senza troppi complimenti.
“Vendola si è ingrillato all’improvviso dopo le elezioni. Si è
vestito di nuovo come le brocche dei biancospini. Sembra un’altra
persona. Ha un rinnovato linguaggio, comunque sempre variegato, e
adopera inusitate e pittoresche proposizioni verso il M5S. Vendola ci
ama: “Grillo non è un fantasma per il quale bisogna convocare
l’esorcista, è un nostro interlocutore”. È lo stesso Vendola che il 20
febbraio 2013, a tre giorni dall’appuntamento elettorale, su La 7
spiegava: “Grillo è un populista di piazza. Grillo è il virtuoso della
demolizione ma chi ricostruirà il Paese? Grillo è un’evoluzione di
Berlusconi.”
Tra l’altro probabilmente è vero. Grillo è un’evoluzione di
Berlusconi tanto quanto il MoVimento a 5 Stelle è un upload di Forza
Italia del 1994. Quello era un partito-azienda e questo sembra assomigliarci parecchio, il timoniere è il leader carismatico assoluto tanto quanto (e forse ancor di più) il Cavaliere Nero
dell’epoca. Casaleggio-Stranamore, poi, è molto più affascinante di
Dell’Utri, anche se con l’ex braccio destro di Berlusconi condivide la
passione bruciante per le cavalcate culturali d’annata.
Dice bene Ferrara: “il punto è che i grillini, nel bene e nel male,
perché questa è la loro novità e la loro forza oltre che la loro
controversa ambiguità, non sono un partito di plastica come fu Forza
Italia, magari, e non sono un partito di terra e sangue come fu la Lega
nord, magari. Non sono proprio, i grillini, un partito o un movimento
materiale, che abbia luoghi di formazione comprensibili e solidi, radici
culturali, un legame anche labile con una tradizione, magari da
ribaltare. Sono leggeri come ultracorpi, body snatchers, invadono lo
spazio pubblico clonandosi e moltiplicandosi con il consenso elettorale
legittimo, ma lasciandosi alle spalle piazze, polmoni e comizi che non
esprimono la loro autentica identità istituzionale, il loro carattere
come soggetto politico, ormai delegato a un esercito di piccole figure
scelte da piccole folle mediatiche sotto la occhiuta sorveglianza di una
società di marketing, la Casaleggio & Associati.”
Sono tutto e niente, festeggiati nell’ultima novecentesca orgia un
po’ lugubre da Dario Fo ed Ernesto Galli Della Loggia, Leonardo Del
Vecchio e “Bifo” (leader del ’77 bolognese), Celentano e Goldman Sachs.
All together. E blanditi e corteggiati, a suon di minacce spuntate e
lusinghe idiote quanto inutili, dall’agonizzante non-vincitore delle
elezioni. Lo scouting dei grillini è una sonora stronzata che permette
al timoniere di gridare al mercato delle vacche, il giorno della
richiesta di quattro anni di carcere a Berlusconi per la presunta
compravendita di senatore.
Dopo aver sbagliato tutto quello che c’era da sbagliare, dalle
primarie blindate agli italiani ai giaguari sul tetto, a quel che resta
del più grande partito della sinistra italiana rimane uno spazio di
manovra molto limitato, ma decisivo. Essersi chiusi nella ridotta di un
piccolo mondo antico immaginario, tra giovani-vecchi spartani
molestatori di blogger e funzionari decrepiti che non rispondono a nulla
se non a patetiche e suicide logiche di corrente, ha impedito sinora di
mostrare al Pd la reale posta in gioco.
Il dopobomba ha l’innegabile vantaggio della nitidezza. E mentre il
duo di Weimar gioca al Joker di Batman e soffia sul caos, aspettando
l’ultimo rantolo di un sistema irriformabile per clonare definitivamente
le istituzioni repubblicane in un software eterodiretto da una
maggioranza di byte “eletti solo dalla Rete”, la gente in carne ed ossa
comincerà presto a farsela sotto. Grillo ha scritto che di qui a sei
mesi non ci saranno più i soldi per pagare pensioni e stipendi:
significa che prevede che in sei mesi salti il banco.
Questo è, ragionevolmente, l’intervallo di tempo rimasto per far
saltare il banco a loro. La seconda parte del geniale piano del
timoniere e del guru capelluto prevede, dopo il blocco della democrazia
repubblicana, il filotto. Si torna a votare, sbaragliano tutti e inizia Brazil.
Per questo sono e saranno indisponibili a qualunque alleanza di
governo, di qualunque genere, con qualunque programma. In questo sta
l’evoluzione, l’upload, rispetto a Forza Italia: nella natura
intrinsecamente totalitaria del loro movimento.
Ma c’è un ma, anche se tenue. La politica: qualcuno è in grado di
portare in Parlamento alcune leggi (poche, radicali e in fretta) che
rispondono all’incazzatura popolare e, rompendo l’incantesimo, mostrano
che si può fare. L’aula sorda e grigia può riformare sé stessa e allora,
si, Grillo potrà serenamente essere mandato affanculo dagli elettori.
Che notoriamente non votano mai per gratitudine.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
21 febbraio 2013
UNA RICETTA PER L'ITALIA / Lettera aperta a tutti i candidati
 Se il diavolo si nasconde nei dettagli, tra le tante schifezze che si
possono annoverare nella funestata penisola pre-elettorale c’è
un’ingiustizia particolarmente odiosa e forse troppo piccola per trovare
spazio tra i cubitali delle grandi testate, pancia a terra a celebrare
il Grande Addio e/o il wrestling elettorale. Riguarda i malati di alcune
patologie e la loro sfiga di aver incrociato, oltre la malattia, anche
una cura fuorilegge.
Per chi soffre di diversi tumori particolarmente dolorosi, di
malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, di epilessia, anoressia e
di tante altre patologie, i derivati della cannabis possono essere una
soluzione. I suoi effetti analgesici, calmanti, di stimolo all’appetito,
al buonumore (per chi soffre di depressione non è un dettaglio) da
tempo ormai sono oggetto di studi, ricerche e pubblicazioni da parte
della comunità scientifica di tutto il mondo.
Così come, in mezzo mondo, si fanno strada sperimentazioni
legislative che rompono l’assedio psico-culturale del proibizionismo: i
referendum, contemporanei all’elezione di Obama, che hanno reso legale
la sostanza negli stati di Washington e del Colorado sono solo l’ultimo
esempio. D’altronde era stato l’ONU, oltre un anno fa, a pubblicare uno
storico rapporto in cui decretava il fallimento della repressione e
l’urgenza del cambio di rotta a livello planetario, dopo decenni di
manganello.
Anche in Italia si muove qualcosa. Oltre alle sentenze della Corte di Cassazione, che hanno prima ammesso la coltivazione a uso “domestico” e poi, pochi giorni fa,
decretato non punibile il consumo di gruppo, si stanno muovendo le
regioni, in rigoroso ordine sparso (anche politico). Sono partite la Toscana e la Puglia, in cui è nata la prima associazione di malati-consumatori raccontata da FrontPage, seguite da Liguria e Veneto. L’Emilia-Romagna dovrebbe accodarsi a breve.
Nonostante ci si possa rallegrare per i malati di queste regioni
l’assurdità del federalismo all’italiana, che garantisce un diritto alla
salute sostanzialmente diverso a seconda del comune di residenza, è
evidente. L’inanità di un Parlamento che non è riuscito a decidere nulla
che prevedesse un dibattito tra persone libere è la causa dell’inferno
legislativo, in cui la legge Fini-Giovanardi ha precipitato migliaia di
malati e circa cinque milioni di consumatori di cannabis.
Il bavero alzato e la banconota stiracchiata, allungata allo
spacciatore nel vicolo buio, sono a tutt’oggi l’unica ricetta per chi
intenda mettere la propria salute prima della legge (peraltro differente
a seconda di latitudini e giurisdizioni). Col rischio, o il semplice
terrore (che poi sono un po’ la stessa cosa) di vedersi ritirare il
passaporto, la patente, la custodia dei figli. O magari di farsi qualche
giorno in gattabuia, a discrezione.
Ora, tra le tante sbandierate come tali, questa è un’emergenza. Lo è
per chi vive la malattia sulla propria pelle, ogni giorno, ed è
costretto dallo Stato a considerare la propria cura come qualcosa di cui
vergognarsi, da fare di nascosto dai vicini, dagli amici, dai parenti.
Quando invece scienza e coscienza, da che mondo è mondo, sanciscono che
solo il medico e il paziente hanno il diritto-dovere di condividere la
cura. In libertà.
Per queste ragioni si chiede a tutti i candidati, di ogni ordine e
grado come si suol dire (a Palazzo Chigi, alla Camera, al Senato, nel
Lazio, in Lombardia e nel Molise), di impegnarsi pubblicamente ad
approvare entro i mitici primi cento giorni – quelli appunto delle
emergenze – una legge molto semplice che stabilisca:
- la legalizzazione dei farmaci a base di cannabis
- la liberalizzazione delle associazioni di consumatori di cannabis ad uso medico
- la liberalizzazione delle piantagioni di cannabis ad uso
medico destinate ai nuovi mercati (farmacie, parafarmacie, associazioni
di consumatori)
- l’equiparazione della cannabis ad uso medico da terrazzo al basilico.
Naturalmente questo non significa far west. Al contrario è interesse
anche dei malati che gli altri, tutti, rispettino norme di buon senso
(che già esistono) per evitare di mettersi alla guida o di svolgere
mestieri delicati dopo aver assunto farmaci a base di cannabis. Ma vale
anche per il Tavor e per tutti gli altri analgesici che inibiscono le
normali funzioni neurologiche di cui ci si serve per guidare o lavorare.
Non è una news.
In Italia ci sono tante associazioni di malati che si battono per la
libertà di cura e il prossimo Parlamento, nel bene o nel male, sarà
comunque una rivoluzione. Politica e anagrafica. Questa battaglia è una
battaglia giusta che potrebbe materializzare una maggioranza di
parlamentari ragionevoli, indipendentemente dalla loro collocazione
politica all’interno dell’emiciclo: prima di decidere se votare e per
chi, scrivete ai candidati del vostro collegio e chiedete loro se
intendono o meno prescrivere una ricetta per l’Italia. La vostra. L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
29 gennaio 2013
BERSANOIDI ALLA CONQUISTA DEL WEB
 “Uè ragassi, me l’avete menata su tutto il tempo con l’ambaradan
delle Frattocchie 2.0 e sta roba dei 300coslani lì, spartani (che a me
sinceramente stavano anche sulle balle) e poi diobono voi mi mettete su
una cosa vecchia come il cucco, che sembrate quelli che si organizzavano
e partivano in motoretta per andare a fischiare il comizio di quello o
di quell’altro a Porretta Terme e che poi una volta tornati al bar
facevano gli sboroni e si davano di gomito. Tuitter? I socialnetuork? La
campagna vi ci vuole a voi diobono!”
Il commento di Lorenzo riassume alla perfezione il fastidio
epidermico, ben comprensibile per chi ha avuto a che fare coi ciellini
melliflui e implacabili dell’università, che attanaglia dopo un breve
giro nel blog di Mantellini. Dopo aver osato postare il video di Bersani
in macchina che ascolta l’ultimo (inascoltabile) singolo di Vasco
intento a fumare il fido sigaro, titolando “votereste alle elezioni per
uno così?”, lo sdegno organizzato e militante è montato in poche ore.
Di questi tempi elettorali spesso, quando ci si inoltra su Facebook,
Twitter o in qualche blog, capita (è capitato spesso in questi giorni a
diverse persone digitalmente attive) di ritrovarsi sostenitori di questo
o quell’altro politicante candidato, di doversi sorbire una montagna di
inviti, spam, propaganda. Questo è diverso, questa è Sparta (direbbero
loro). Stiamo parlando infatti della war room del Pd, l’unità di guerra elettorale digitale ribattezzata (con sprezzo del ridicolo) per l’appunto “trecento spartani”.
Al netto di veline e velini che impazzano in Rete a compitamente
spiegare quanto sia bella, entusiasmante, collettiva e finalmente
giovane la campagna del Pd, è interessante riflettere sull’operazione
che già dal “manifesto” del blog,
davvero spartano, intende mostrare i muscoli, a suon di dotte citazioni
e paroloni complicati. Poi è ovvio che le chiacchiere stanno a zero, al
Pd di web ci capiscono notoriamente poco e non gli è sembrato vero di
lustrare a nuovo le truppe cammellate di figiciotta memoria.
“È utile quindi considerare il web come estensione agentiva della dimensione analogica (E. Colazzo – Caught in a web, in allonsanfan.it)
e pertanto analizzare quello che succede in rete, e in particolare sui
social media, come qualcosa che vada a completare la sfera offline che
ognuno di noi vive ogni giorno e quindi come una latrice di influenza
che può andare a fissarsi su determinati recettori, se efficacemente
stimolati.” In soldoni: una stanza in via del Nazzareno, qualche
stipendio e uno stuolo di bravi compagni in giro per l’Italia pronti a
menar le mani ogni volta che qualche fighetto parla male del capo.
Dopo il raid al blog, una tipa su Facebook ha commentato: “Ma
Mantellini, di preciso, cosa fa nella vita? Il blogger? Mi sa che aveva
ragione sua madre.” Per poi replicarmi trucida, poco prima di togliermi
l’amicizia: “Grazie al Mantellini rosicone gli Spartani sono
raddoppiati…si metterà l’anima in pace prima o poi, che di web non
capisce solo lui.” La chiave di volta per capire tutta questa baldanza
guerresca è forse proprio la sensazione, immagino liberatoria, di
sentirsi per una volta dei nerd, si, ma fighi.
Non più solo i grillini, quelli dei centri sociali, il popolo viola, gli infidi amici di Civati,
ma adesso che “ci capiscono anche loro di web”, quelli del partitone
doc, non ce n’è più per nessuno. E con la tipica tracotanza degli ultimi
arrivati al party internettiano, giù a dare dello snob e del
fighetto-radical-chic a tutti quelli che si permettono di segnalare che
lo spam elettorale, spesso, porta via voti invece che portarne. E che la
reputazione, sulla Rete, è tutto. Anche per i nativi analogici che
hanno deciso il gran passo, salvo poi trasformarsi in Bersanoidi di scarso appeal politico-elettorale (fuori dai confini della loro Sparta immaginaria).
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
19 gennaio 2013
CAYMANISTAN 2 / IL RITORNO
“Diciamo che la politica va vista con attenzione. Ingroia ora è
un’eversione nera che incide nel profondo il movimentismo ormai smarrito
che si definisce di sinistra, ma che poi si innamora di progetti di
ultradestra come Grillo, Ingroia, Di Pietro. Berlusconi è stato comunque
l’ultimo a fare politica estera e per questo l’han fatto fuori. Se non
altro perché i nemici li preferisco davanti piuttosto che di fianco,
butto anche io Ingroia.”
Il mio vecchio compare di occupazione Fabio Zanon, dopo un acceso e
per certi versi tipico dibattito pre-elettorale su Facebook, risponde
così alla questione che avevo posto all’attenzione dei miei amici
virtuali: “Tra Berlusca e Ingroia giù dalla torre ci spedisco Ingroia”.
Zanon conduce in queste ore un’appassionata e incredula campagna, da
sinistra, contro la candidatura del magistrato palermitano.
La sua incredulità si appunta sull’innegabile dato di fatto che il
calderone politico di tutte le sigle, associazioni, movimenti e
collettivi dell’estrema sinistra (Partito Comunista dei Lavoratori
escluso, se non erro) abbia come leader un magistrato, peraltro di nota
propensione “manettara”, accompagnato da due ex colleghi come il
brillante De Magistris e l’ormai spompato Di Pietro (apripista però di
questa sorta di privatizzazione della politica per via giudiziaria).
Ironica sorte, quella dei militanti dei centri sociali, del movimento
No Tav e di tutte le realtà antagoniste per cui, sinora, il magistrato
di turno era stato fondamentalmente stato il capo delle guardie. Quello
che mandava la perquisizione, faceva sequestrare il computer, arrestare i
compagni di lotta. Ora legalità e questione morale (“intrinsecamente
reazionaria” secondo un altro commentatore su Facebook), diventano erga
omnes il mito fondativo della nuova rivoluzione civile e tengono in
scacco gli altri. “Un po’ come se la Juve entrasse in campo dichiarando:
il nostro obiettivo è rispettare il regolamento”. Sintetizza
efficacemente Zanon.
Spostandosi un po’ a destra, poi, non è che il panorama si rallegri
più di tanto. “Benvenuta Sinistra” ricorda con vago struggimento
“Maledetta Primavera” e i sondaggi consegnano
un poeta pugliese sembra sempre più sfiatato, un po’ dalla competition
col magistrato (che si dichiara gagliardamente pronto a ritornarsene in Guatemala,
dovesse girar male) e un po’ dall’inevitabile abbraccio mortale con la
logica di governo (logica a cui peraltro è ben rodato), fatta più di
compromessi e mezze sconfitte che di narrazioni ispirate.
“Il logo di Monti sarebbe perfetto come nuovo logo del Club Alpino
Italiano, è tristissimo, quasi da pompe funebri e con un font vagamente
fascistoide”. “Scelta civica: con Merkel per l’Italia” è senz’altro il fake
più riuscito del nuovo logo del ressemblement centrista che fa capo a
Monti. Che non è brutto, come dice Toscani, se la pubblicità dev’essere
un modo per rappresentare con efficacia il prodotto.
Perché questo è il prodotto. Ormai a seguire anche distrattamente le
cronache, pare evidente che definire elitario o tecnocratico l’approccio
alla politica di Monti sia piuttosto generico e per certi versi
fuorviante. Il premier si comporta, agisce e interagisce come se fosse
né più né meno, tipo, che il responsabile risorse umane per l’Europa del
Sud della Goldman Sachs o di una Spectre qualsiasi e gli fosse toccata
in sorte la rogna di raddrizzare, secondo logiche aziendali immote e
immutabili, la guappa Italia.
Intanto, nei duri fatti, la gente comincia a toccare con mano quanto e
cosa significa la “cura Monti”. Non solo per una questione di
quattrini, che sono più che sacrosanti sia chiaro, ma in termini di
concezione della vita in comunità. Di spazi di libertà e responsabilità.
Il nuovo redditometro, che inverte l’onere della prova tra Stato e
individuo in materia fiscale, rappresenta assai bene la destinazione
poliziesca a cui conduce il carro funebre dell’austerity montiana.
Gli alleati inevitabili, apparentati coi fratellini di sinistra di
Vendola, sono allo stato attuale l’unico partito in campo. Il Maya di Bettola, confortato dai potenti fiati del destino, ha sparigliato le carte nella sua metà campo (e soprattutto in ditta),
ma ora si trova coi sondaggi che lo inchiodano (di già) alla quasi
ingovernabilità del Senato. Se Ingroia non desiste (e non mi pare il
tipo, visti i precedenti) nelle regioni in bilico (Lombardia, Veneto,
Campania e Sicilia) si fa dura.
Così, dopo le Cayman e il fuoco amico, è partita la corte a Renzi a cui pare stiano cominciando a piovere profferte
di poltrone e primizie. Si dice che il Sindaco di Firenze aspetti il
prossimo giro, il cadavere sul fiume, scommettendo da pokerista sulla
fragilità del sempre più probabile Bersani-Monti-Vendola, per poi
ripresentarsi in camicia bianca col sorrisetto sornione come a dire:
avete visto? Di certo se avesse vinto lui, non si sarebbe assistito al
Ritorno.
L’ennesimo Ritorno, nella partita ventennale tra Berlusconi e il
resto del mondo, la solita incredibile telenovela che inchioda l’Italia a
un’epoca in cui Internet era conosciuto solo da quattro scienziati
occhialuti e il Muro di Berlino era caduto da qualche anno appena. L’Era
televisiva, il passato che non passa, e che giovedì scorso è andato in
onda in prima serata, da Santoro, e ha fatto lo stesso share della
finale del Festival di Sanremo o dei Mondiali.
“Lasciate che vi spieghi com’è questo paese: questo paese non è
governabile” ha esordito Berlusconi nella fossa dei leoni, con un
sorriso smagliante. Chi, come i bagarini inglesi, credeva che
sbroccasse, si mettesse a urlare paonazzo in volto, lasciasse lo studio,
si è dovuto ricredere. “Santoro siamo da lei o siamo a Zelig?” Ha
esclamato a un certo punto in un vertice creativo, quando ormai
l’intrattenimento aveva definitivamente sussunto la politica, prima di
giustiziare il giustiziere: “Lascialo qua, Travaglio, lo voglio guardare
in faccia”. Dopo, come da copione, sono (ri)cominciati i cazzi amari.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
4 gennaio 2013
IL MAYA DI BETTOLA
 “«Il mondo lo hanno distrutto i politici, altro che la profezia dei
Maya!». Il risultato non cambia. Barba bianca e ammirevole coscienza
dell’identità collettiva, «noi valdesi stiamo scappando da seicento
anni», il signor Aldo ricorda di quando il villaggio contava 340 anime e
«le zappe non erano coperte di ruggine, e la farina non era la materia
morta che è adesso ma una cosa buona da mischiare alla segale, per fare
il pane». Nostalgia di un mondo che non c’è più, nel vero senso
dell’espressione? «Distruggere quello che ti dà la vita è puro
autolesionismo. Andate nelle vallate a vedere cos’hanno combinato,
autostrade, dighe, cemento ovunque: se è finita davvero nessun
rimpianto, io me ne sto quassù».”
Non so, francamente, se la farfalla di Bradbury abbia
spiccato il volo, in qualche sperduto angolo del mondo il giorno del
Solstizio d’Inverno del 2012, né se siamo o meno entrati ufficialmente
nell’Era dell’Acquario all’insaputa di tutti, fatta salva naturalmente
l’élite di fulminati new age che ci crede di brutto ed è pronta, ad ogni
aperitivo, a sguainare l’arco nuovo di trinca e ad oliare la zappa. Io
non mi sento così baldanzosamente razionalista da escluderlo. Mi pare
che vedere i bambini che a due anni cercano di cliccare sulle pagine di
carta, quando non hanno per le mani l’iPad, già significhi qualcosa.
Che poi non siamo in salute, che il mondo non stia bene, è chiaro
quasi a tutti. La declinazione ovviamente cambia, ma la sostanza è la
stessa. A che pro? Qual è la posta dello sbattimento? Produci, consuma e
preparati a crepare alla meno peggio? Di quante autostrade avremo
ancora bisogno per capire che il problema non è la coda, ma il week-end?
La gag dei Maya, per chi ha avuto voglia di esplorare, questo è stata:
l’occasione per mettere in fila le priorità, dare ordine alle domande.
“La fine del mondo è la punta Martel, neve, sole e lo spettacolo dei
Tredici Laghi, il torrente dove nuotano superbe trote fario, il volo
dell’aquila reale. L’altro mondo dev’essere finito due tornanti più
sotto, a dar retta ai Maya, e un giorno qualcuno controllerà. Non c’è
nessuna fretta.” Secondo l’aneddotica gossippara il villaggio di
Pradeltorno sulle Alpi Cozie era uno dei tre o quattro buchi del culo
del mondo in cui ci si poteva salvare dall’Armageddon.
Invece
“il settimanale L’Eco del Chisone (…) ha scoperto che la leggenda
piemontese è spuntata su Wikipedia solo il 4 giugno 2011, mentre le
indicazioni su Bugarach affondano le radici nella notte dei tempi. Non
solo: nessuna fonte citata, riscontri zero, e come si sa chiunque può
arricchire le voci di Wikipedia senza alcun controllo. Secondo il
giornale l’anonimo collaboratore della libera enciclopedia telematica
risulta poi essere un utente Vodafone della vicina Pinerolo, c’è anche
il numero dell’apparecchio…”
Ora che comunque l’allineamento non s’è allineato, la Cintura
Fotonica non ci ha fritto come coleotteri maldestri nella lampada
alogena e gli ufo non sono sbarcati su un rosso deserto piallato dal
sole, adesso che alla mezzanotte del 21 dicembre 2012 – ora italiana –
solo lo show un po’ mesto di un sito a caccia di click ha messo in scena il countdown per
la fine di un mondo “che è già finito da un pezzo”, ora che sono
passati pure Natale, Santo Stefano e Capodanno sarà finalmente chiaro a
tutti che l’unico vero Maya in circolazione è nato a Bettola.
Non certo Monti e la sua allegra brigata di banchieri, giannizzeri
finanziari e attempati perdigiorno della politica, di cui su Facebook
circola una simpatica epigrafe virale: «Dopo la saldatura di Monti,
Casini e Montezemolo con il Vaticano, mi aspetto l’appalto a
Finmeccanica per la costruzione della Morte Nera». Monti è stato
benedetto dalla follia nichilista di Berlusconi e forse il 24 febbraio è
abbastanza vicino da non far notare troppo il l’assai poco tecnico
codazzo d’imboscati, ma difficilmente riuscirà a far meglio di Mariotto
Segni diciannove anni fa. Perché dovrebbe?
E certo non sarà una gang di mozzorecchi assortiti, che non ho capito bene se ha sussunto in toto la versione law and order de sinistra 1.0 (l’Idv del buon Tonino, kaputt nei sondaggi dopo l’irruzione della Karma Police) o se ha solo valorizzato i “compagni” più meritevoli e televisionabili, a fare la “rivoluzione civile”
di cui vaneggiano sopra una versione oscenamente post punk del Pellizza
da Volpedo. Bene che va rosicchiano un po’ a Vendola e un po’ a Grillo e
fine della rivoluzione.
Di Berlusconi e della metà campo di destra francamente non vale la
pena parlare. Più che altro non me la sento, già ci capisco poco tra
nuovi partiti annunciati, primarie virtuali, psicodrammi vari, che mi
pare poi si vadano ricomponendo in gioiose rimpatriate sullo skilift, e
in più mi sembra che quella del capo sia una partita un po’ mesta. Se
voleva giocare non doveva tentare di ammazzare Monti, ora non vuole
arrendersi all’idea di non avercela fatta e continua ad alzare la posta
con una coppia di jack in mano. Forse cerca la bella morte, con tutti
quei nipotini. Che tristezza.
Alfine arriviamo a lui, al Maya di Bettola: l’uomo più sottovalutato
del 2012. Proviamo a tornare con la mente, per un attimo, a un anno fa.
Bersani era leader di un partito senza capo ne coda, o meglio con un
capo, lui, assediato da un migliaio di codazzi impazziti convinti di
essere qualcosa o qualcuno. Aveva appena digerito Monti, nonostante i
sondaggi gli avessero ripetuto fino alla noia che se andava a “votare
sotto la neve”, come strizzava l’occhietto il perfido Giuliano Ferrara,
avrebbe fatto cappotto.
Monti aveva cominciato subito a picchiare come un fabbro, proprio là
dove il dente duole: nella sua base di pensionati e aspiranti pensionati
e annunciava sfracelli nel pubblico impiego, proprio là dove il Pd ha
il consenso vero e il Sindacato tiene il suo ultimo bastione. Renzi e i
“giovani”, spalleggiati dagli infingardi media liberali, lo bastonavano
un giorno si, l’altro pure e appena per qualche ragione se ne
dimenticavano o si facevano un week-end in pace, Rosy Bindi rilasciava
un’intervista.
Ora, dopo aver accettato la sfida di Renzi (non era obbligato a
farlo, anzi) e averla vinta di oltre venti punti, ha stupito tutti gli
addetti ai lavori e ha indetto le primarie per la scelta dei
parlamentari: prima assoluta nella storia repubblicana. Naturalmente,
con sardonico cinismo emiliano, ha scelto la data più bulgara possibile,
29 e/o 30 gennaio, si è accaparrato una quota importante di nomine
dirette e ha scatenato un sostanziale delirio politico-organizzativo nel
partito. Chi può dirgli niente?
Risultato: l’uomo contro il partito liquido, del collettivo contro i
personalismi, si è svegliato come il leader più craxiano degli ultimi
vent’anni, al cui potere tecnicamente iperplebiscitario (due primarie
vinte di fila) si somma la “fedeltà di progetto” degli eletti in
Parlamento, del Pd e di Sel (che non a caso ha tenuto analoghe primarie,
gli stessi giorni): gli devono tutto, se fanno casini stavolta li
linciano. Non più caminetti, al massimo qualche pacca sulle spalle alle
vecchie glorie, e azzeramento delle correnti da parte degli elettori.
Una piccola apocalisse, con un solo cavaliere.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
18 dicembre 2012
VENERDÌ 21 DICEMBRE 2012
 “Secondo questa avvincente teoria del complotto mista New Age in cui
mi sono imbattuto questo pomeriggio, mentre cercavo di truccare un’asta
su eBay, il nostro pianeta passerà attraverso questa immensa rete da
pesca cosmica situata a largo delle Pleiadi. Ma che diavolo è questa Cintura Fotonica?
Secondo lo scienziato russo Alexei Dmitriev, si tratta di una sorta di
fascia di plasma magnetizzato (non mi chiedete spiegazioni, io riporto)
che rischia di friggerci tutti come dei coleotteri maldestri nella
lampada alogena.”
A un tiro di schioppo dalla Data basta dare una sbirciata su Google News
per rendersi conto che, a prescindere dallo scetticismo di maniera e
dall’impegno di esperti e scienziati a sgamare le bufale una in fila
all’altra, il 21 dicembre 2012 non sarà un giorno come gli altri e
“fortunatamente c’è anche l’ala moderata d’ispirazione cattolica. La
Cintura Fotonica non sarebbe altri che “lo Spirito Santo” in persona:
pucciandoci dentro di esso, la Terra ci traghetterebbe verso “l’Era della Luce”, cambiando per sempre il mondo materiale e la nostra coscienza.”
Non lo sarà per i cileni,
il ventiquattro per cento dei quali quel giorno starà a casa dal lavoro
per scaramanzia (o come scusa per allungare il ponte), né per i turchi.
Il gran mufti Mehmet Gormez, la principale autorità religiosa musulmana
del paese, si è dovuto scomodare per puntualizzare che le profezie
catastrofiste sono solo frutto di ”superstizione” e ”falsi scenari
apocalittici”.
L’allarme creato dalle predizioni sulla fine del mondo del 21
dicembre in base al calendario Maya e sul previsto (e smentito più
volte) allineamento dei pianeti della Via Lattea non è una prerogativa
turca e cilena. La Nasa ha scatenato un’offensiva antipanico su Facebook
e Twitter per smontare una ad una tutte le teorie che hanno
appassionato untorelli e giornalisti in questi anni, ma che ora
minacciano di far danni veri.
“Proprio come il calendario che hai sul tuo muro della cucina non
cessa di esistere dopo il 31 dicembre, il calendario Maya non cessa di
esistere il 21 dicembre 2012.” Affermano dalla Nasa, mentre il governo Usa asserisce categorico
che “il mondo non finirà il 21 dicembre 2012 o in qualsiasi altro
giorno del 2012”, subito seguito a ruota da Messico, Francia e Russia,
in cui un deputato propone di perseguire i sobillatori di dicerie, ma dal 22 dicembre in avanti.
Intanto arrivano i primi agghiaccianti annunci di suicidi di famiglie e adolescenti, vittime dello stalking mediatico,
e si confermano gli affari d’oro previsti per le località di
villeggiatura neo-millenaristica. Oltre ai siti Maya del Messico e del
Guatemala, l’ultima moda sono alcuni microscopici paeselli presi
letteralmente d’assalto: Bugarach in Francia, Cisternino in Puglia, la
Val Pellice in Piemonte e Sirince in Turchia. Chi ha indagato
ha scoperto che “i luoghi di salvezza dalla fine del mondo sono quelli
che rappresentarono un rifugio per uomini che la pensavano diversamente
dalla religione corrente.”
I nuovi catari e valdesi, assediati da raggi gamma, asteroidi, pianeti fantasma e (perché no) dagli alieni di Borghezio,
stanno facendo la felicità delle agenzie di viaggi che hanno trovato in
questo week-end fine-di-mondo un insperato contropiede alla crisi. Per
130 euro, invece, un’azienda svizzera ha commercializzato in Rete un kit di sopravvivenza per sopravvivere all’Armageddon.
“Vendiamo acqua e del riscaldamento a gas e altri prodotti destinati
alla sopravvivenza quando non ci saranno più l’acqua potabile e
l’elettricità” argomenta il produttore, reduce dal successo del kit in
Siberia, dove ha venduto già più di novantamila pezzi. Niente in
confronto al bunker semovente, confortevole e resistente all’acqua (e
dunque agli ovvi maremoti previsti dal meteo apocalittico) messo a punto
in Cina: una vera e propria arca di Noè in versione bilocale.
Insomma la psicosi dilaga. Nonostante sopracciglia alzate e battutine
sarcastiche, dietro ogni caffè e in tutte le fermate dell’autobus non
si parla che di questo benedetto venerdì 21 dicembre 2012. Tutti ci
hanno fatto un pensiero, anche se in società giurerebbero il contrario e
molti hanno il motivato timore che le paranoie del mondo, individuali e
collettive, possano trovare nella Data il trampolino di lancio per
esplodere. Poi i più saggi si chiuderanno in casa a scopare, fare le
coccole e giocare coi bimbi oppure drogarsi, bere, ballare e mangiare in
compagnia. L’offerta certo non manca.
“Menù fine del mondo per un ristorante di Hong Kong. Il Flagship Aqua
Restaurant Group, ha deciso di organizzare per la sera del prossimo 21
dicembre, che secondo la profezia dei Maya dovrebbe coincidere con la
fine del mondo, una cena di sei portate al costo di 2.112,12 dollari di
Hong Kong a persona (211 euro circa), cifra che ricorda la data della
profezia Maya. Il proprietario però ha fatto sapere che gli ospiti
dovranno pagare il conto solo se il mondo non finirà quella sera. In
caso contrario tutto sarà offerto dal ristorante stesso.”
L'ultima puntata di Spider Web è stata pubblicata su The FrontPage.
|
19 novembre 2012
KARMA POLICE
“La vita sulla Terra, come la conosciamo, non sarebbe possibile
senza la protezione esercitata dal campo magnetico. Secondo studi
recenti la magnetosfera sarebbe interessata da un processo
d’indebolimento. Si tratta di un processo lento, ma progressivo”. Non è il solito buco web di untorelli new age (il capovolgimento dei poli magnetici era uno dei must apocalittici in vista del 21/12/2012) ma un comunicato dell’Esa, l’Ente spaziale europeo, che sta lanciando una nuova missione per capire che diavolo sta succedendo: “nei prossimi anni il campo magnetico potrebbe arrivare a un punto di non ritorno, a un livello mai conosciuto dall’uomo”.
A un mese dalla fine del calendario Maya, tutto si può dire fuorché
il mondo scoppi di salute. Con gli occhi ancora colmi delle immagini
della capitale dell’Occidente, sfregiata dagli elementi nell’intimo dei
suoi muscoli architettonici lanciati contro il cielo, la puzza di guerra
che arriva dal Medio Oriente lascia presagire un Natale all’insegna del
terrore. Allo strazio delle vittime e alla disperazione dei bambini
ebrei e palestinesi si aggiunge la paranoia di una guerra vera, con
Israele da una parte, il mondo arabo dall’altra e alcune testate
nucleari (vere e presunte) in mezzo.
Tutto questo dopo che il segretario di stato Usa, Hillary Clinton, ha
annunciato la propria indisponibilità a ricoprire l’incarico nel nuovo
governo di Obama. Gli occhi di tutto il mondo sono ancora una volta
puntati su di lui, l’uomo del discorso del Cairo. Il Papa Nero è stato
appena rieletto, non certo in pompa magna come hanno raccontato con consueta cialtronaggine paesana dalle nostre parti, ma pur sempre con un margine molto superiore ai pronostici della vigilia, sia nel voto nazionale che tra gli stati grandi elettori.
Naturalmente sono tante le ragioni della vittoria di Obama, a partire
dall’inadeguatezza goffamente robotica del suo avversario, ma fra tutte
spicca l’operazione Chrysler. Sergio Marchionne, il nemico giurato
della sinistra italiana, è stato il protagonista dell’evento più atteso
dalla sinistra worldwide: il beniamino dei liberal di
tutto il mondo rieletto presidente grazie al salvataggio di Stato del
colosso dell’auto americana, con i lavoratori a metà stipendio e il
plauso unanime del sindacato.
In coincidenza con la fine del calendario Maya, o forse per via della
perdita di vigore della corazza naturale del magnetismo terrestre, che
impedisce alla Terra di trasformarsi in un Marte o in una Venere, pare
che la polizia del karma si stia incaricando di recapitare i suoi
paradossali verdetti con crescente impazienza. Non solo il Papa Nero made in Fiat, dunque, ma una serie di piccole scorribande di riequilibrio karmico che sembrano proprio non poter aspettare oltremodo.
“Milano è un villaggio. Tutti sapevano tutto di tutti. Lui arrestava,
istruiva processi-bomba, percorreva in favore di telecamere corridoi
fatali accompagnato da avvocaticchi con i quali concordava l’uscita
degli arrestati dalle camere di sicurezza in cui si riscuoteva con la
paura del carcere la confessione, ma già si sapeva tutto di quel
coraggioso magistrato in carriera politica. Si sapeva che non era uno
stinco di santo, che le sue cadute di stile erano piuttosto pesanti, che
il tout Milan era pieno di gente di denari che aveva
avuto rapporti spuri con l’ex poliziotto laureato di fretta e messo lì a
fare da battistrada dei professorini dell’anticorruzione del pool, si
sapeva quel che è venuto fuori pubblicamente dopo, e cioè che aveva
avuto rapporti inconfessabili con un pezzetto dei servizi diplomatici (e
altro) americani, che la sua storia di pm antipartito era la storia
stessa di come veniva calando la cortina di ferro della guerra fredda.”
Il prosaico cade male, nella strapaesana italiana cosiddetta Terza repubblica (in fieri). La faccia di Di Pietro, davanti alla gendarmeria della “commissaria Gabanelli”, come la chiama Giuliano Ferrara nel suo articolo definitivo,
sembrava proprio quella del “mariuolo” di craxiana memoria colto con le
mani nella marmellata. Sadicamente, ma non troppo, in diversi hanno
rievocato la bavetta di Forlani, in aula al processo Enimont: la
giustizia infatti non solo (o non tanto) è uguale per tutti. Ma è –
soprattutto – equilibrio.
E una volta che si mette in moto, il processo di assestamento non si
arresta sino a quando non c’è un equilibrio nuovo. Così capita di
assistere alla triste parabola discendente dell’ex Caimano dei caimani,
ridotto a mitragliare a salve, a giorni alterni, il governo in carica e a
ritrovarsi puntualmente svillaneggiato dai giornali (che un tempo non
troppo lontano lo onoravano di una demonizzazione a nove colonne) a pié
di pagina, in angoletti troppo angusti per l’ipertrofico ego che scalcia
ancora dai titoli.
Oppure di scoprire che dopo tanto bla bla rottamatorio, tra i
“Fantastici 5” candidati alle primarie l’unico che azzarda qualcosa di
politico (la riforma fiscale capace di assorbire l’evasione = mettere i
cittadini in contraddittorio finanziario = fare scaricare tutto a tutti)
e scalda i cuori della sinistra del web
si chiama Bruno Tabacci, ha centotrentacinque anni ed è un cazzuto di
democristiano. Quelli che l’hanno capito per primi, gli agenti segreti
della karma police, sono i Marxisti per Tabacci. Normale, poi, che il compagno Bruno sbugiardi le velleità nuoviste del giovane turco Renzi, menandogli calci negli stinchi per tutta la pallosissima versione-primarie dell’X Factor di Sky.
Il pallido Matteo ormai arranca palesemente e certo non aiuta che due
tra i suoi economisti di riferimento – Alesina e Zingales – abbiano
dichiarato di sostenere Romney. Un amico di tFP, pochi giorni
prima del voto, mi ha scritto che “Obama è diventato lo spartiacque fra
buoni e cattivi”. L’hanno spiegato anche a Renzi? Intanto Casaleggio,
Grillo & associati, liberati ormai dallo stereotipo dei liberatori e
ventre a terra nelle purghe d’autunno, continuano a scavare
indisturbati, lasciando agli esodanti il continuo rimpallo della propria inconcludenza. Manco la legge elettorale sono riusciti a cambiare.
Per quadrare il cerchio, infine, il rottamator cortese si è candidato segretario
del Pd, in Lombardia hanno candidato a furor di partito l’ennesimo
“civico”, di sicuro spessore ma conosciuto dal grande pubblico solo per
il tragico lutto (continuare a tirare in ballo orfani e vedove oltre a
essere macabro e patetico inizia a risultare avvilente), che per prima
cosa ha tentato di abolire le primarie e Crocetta neo-presidente della
Sicilia ha annunciato Franco Battiato neo-assessore alla cultura. Quello di “mandiamoli in pensione i direttori artistici, gli addetti alla cultura”. Addavenì.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
29 ottobre 2012
CAYMANISTAN
 “La Porsche ha chiamato “Cayman” la sua auto più brutta per fare un dispetto a Renzi”, “#Dalema
va ai giardinetti per mangiare i bambini e dice che l’ha mandato
Renzi”, “E’ stato Renzi a bloccare il treno Italo a Firenze Per
dimostrare che #LucadiMontezemolo
non va”, “Le zanzare ad ottobre sono state mandate da Renzi”, “Matteo
Renzi è il vero autore dei libri di Fabio Volo e Federico Moccia”, “Ma
chi paga la lavanderia per tutte quelle camicie bianche?”, “Renzi svela
sempre il finale delle barzellette di Bersani”, “Ma non è che quell’auto
che secondo la Moratti era stata rubata da Pisapia, invece l’ha presa
@matteorenzi?”, “Salterò la pausa pranzo: ho protestato, il mio capo mi
ha detto: #attaccaRenzi.”
L’hashtag di @AsinoMorto dice già tutto. Vendola,
per cui il pm ha appena chiesto venti mesi di galera per abuso
d’ufficio, e Bersani, la cui storica segretaria è stata appena indagata per truffa aggravata, sono riusciti nell’impresa di mettere
Renzi all’angolo. Chi osa non dico spendere parole apertamente
lusinghiere, ma esprimere qualche moderato dubbio circa lo status di “nemico del popolo” affibbiato al sindaco di Firenze, viene lapidato sulla piazza di Facebook.
Oltre alla staliniana trasfigurazione dell’avversario in “nemico”,
già sperimentata con Craxi e Berlusconi (con evidenti benefici per il
paese, in declino da un quarto di secolo sotto tutti i punti di vista),
la tentata sterilizzazione del pericolo – ché quando un moccioso
impudente annuncia di voler tagliare il finanziamento pubblico ai
partiti entro i primi cento giorni di governo di questo si tratta – si
basa sul boicottaggio della partecipazione.
Le primarie sono il mito fondativo del Pd e del centrosinistra,
l’unico, e il mastice che riesce a tenere insieme un elettorato sempre
più scazzato e disilluso. Negli anni passati si sono sempre rivelate
l’unica vera arma in più rispetto ai soldi, al carisma e alla certezza
della leadership che regnava nel campo avversario. Ma anche questa,
ovvia, considerazione non deve aver fatto breccia.
Così mia nonna, che ha quasi novant’anni e fa fatica a scendere le
scale (ma è sempre andata a votare), gli studenti di sedici e
diciassette anni e quelli fuori sede (i pugliesi poi sono veri ultras
del loro governatore) se ne staranno a casa. Invece che presentarsi al
seggio con la carta d’identità e il certificato elettorale (e una volta
sola), come nel 2005, tocca una babele di puttanate burocratiche che, a
parte le patetiche giustificazioni in politichese, significano solo una
cosa: vade retro Renzi.
Spararsi nelle palle per far dispetto alla moglie: dopo che gli analisti hanno spiegato che più alta è la partecipazione più le chances di
vittoria di Renzi aumentano, le varie staffette partigiane sono partite
ad architettar tagliole. Ma se va a votare meno gente perdono tutti,
perché oltre alle primarie bisognerebbe tentar pure di vincere le
secondarie. Arrivarci dopo un flop, proprio adesso che Berlusconi
spariglia di nuovo e patrocina (forse) le primarie del centrodestra,
sarebbe il massimo.
Il quotidiano lancio degli stracci, inoltre, ha definitivamente
eclissato i contenuti dal dibattito, anche riguardo la cosiddetta “fase
2” della campagna di Renzi (che continua a giocare alla lepre).
“Cambiamo l’Italia” ha affiancato il claim “Adesso!”, riconducendo idealmente il sindaco di Firenze al “Change” di Obama, dopo che la fase uno ne aveva già sussunto e italianizzato l’iconografia sin nel minimo dettaglio.
Il particolare è che stiamo sempre parlando dell’Obama del 2008,
quello trionfale e trionfante. Tutti continuano a citare la campagna, le
strategie, lo stile, i contenuti, lo story telling di quell’Obama là. In quanti conoscono il claim del 2012, quello su cui tra pochi giorni il presidente chiede il voto agli americani per altri quattro anni? “Forward”, dalla speranza visionaria al realismo del buon padre di famiglia in una campagna stile Diesel, con un video che sembra il trailer di una serie tv (alla seconda stagione).
Renzi, come gli altri ma col rischio di pagare un prezzo più alto, è
rimasto al 2008, l’epoca del “Se po’ fa’” con cui Veltroni rastrellò il
33% alle politiche. Nel frattempo però è cambiato tutto, diverse volte.
L’altra sera Santoro gli ha chiesto conto a modo suo della “fase due”,
citandogli l’ultimo libro
di Paul Krugman “che si chiama proprio come il suo slogan, adesso!”
(col punto esclamativo pure) e argomenta il fallimento delle politiche
di austerity in Europa e in Italia. “Lei che ne pensa?”
Renzi ha abbassato un po’ gli occhi, ha ripetuto un paio di volte che gli editoriali di Krugman sul New York Times
sono un prezioso contributo all’analisi, ha dato l’impressione di non
averne mai neanche sentito parlare (del libro titolato come il suo claim).
Ora, si può essere d’accordo e meno con Krugman, ma è il caso di avere
un’opinione su quello che scrive, visto quello che scrive, se si ambisce
così tanto a governare un paese (uno qualunque).
Invece la cosa più politica che Renzi ha tirato su fuori sul tema è
che “è una questione di qualità della spesa pubblica” certo “a saldi
invariati”. Spiccicato a Bersani, a Monti, a tutti. Poi nient’altro,
nulla che a poche ore dalla fine della trasmissione potesse rimanermi
impresso, al netto delle gag rottamatorie. Unico guizzo,
vagamente cimiteriale: nei primi cento giorni di governo la mitologica
legge sul conflitto d’interesse. Per dimostrare che non è l’Ambra del vecchio Caimano. Poca roba.
All’ora del conto, infine, la Sicilia non poteva mancare. I primi exit polls
sulle elezioni erano fischiati in rete come ghigliottine al vento.
Anche se i risultati ufficiali sembrano ridimensionare l’uragano,
Caymanistan trema. Più della metà dei siciliani è rimasta a casa e
l’altra ha incoronato campione del caos il “D’Annunzio a Fiume, un
situazionista fuori situazione, un estroso beato nel posto tipico delle
stramberie”. Come aveva predetto Buttafuoco, con bella prosa.
“Non è stato elegante manco in acqua, eppure ha fatto evento. Una
nuotata come quella può farla uno svelto atleta scolpito da Fidia, non
un Satiro attempato e tutta la bellezza di quella traversata s’è
confermata nell’essere lui – l’uomo che viene da fuori – tutto il
contrario di ciò che ha fatto, il più improbabile dei Colapesce. Nessuno
ci credeva che potesse arrivare a nuoto, tutti cominciano a credere che
lunedì possa sfasciare finalmente la regione siciliana.”
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
23 ottobre 2012
LOMBARDIA CANAGLIA
 Dopo Er Batman, la Polverini in contromano con l’auto blu per andare a
comprare le scarpe, la fine ingloriosa del Formigoni V, ora potrebbe toccare a Errani.
Il 2012, pur non accogliendo le astronavi aliene sul Viale dei Morti
di Teotihuacan, sembra proprio l’anno del piazza pulita congiunto di
governo e parlamento italiano, Lazio, Emilia-Romagna e Lombardia. Oltre
alla Sicilia, che va al voto a fine mese. Il tutto in uno scenario
politico vagamente apocalittico.
Grillo, che ha l’età di D’Alema anno più anno meno, si fa lo Stretto
di Messina a nuoto per lanciare la campagna elettorale “separatista” del
M5S per le regionali della Sicilia. I sondaggi
dicono che rischia di ritrovarsi primo partito dell’isola e secondo a
livello nazionale, al 21 per cento e passa. Il Pdl è poco sopra il 14 e
il Pd è quasi al 26, l’Idv torna intorno al 4, l’Udc verso il 5 mentre
Lega e Sel si attestano sul 6. Si votasse domani tornerebbe Monti.
Naturalmente non è indifferente, in termini politici e/o elettorali,
il risultato delle primarie del centrosinistra. La coalizione del Pd con
Sel e il Psi in caso di vittoria di Renzi potrebbe andare in pezzi:
Vendola, col suo classico cinismo gabellato da coerenza, si smarcherebbe
per incassare da sinistra i cocci dell’ex Pd (o del più probabile esodo
di funzionari e attendenti).
A sentire Renzi, invece, il Pd a trazione renziana vale il 40%, come neanche nei sogni più bagnati del neo autorottamato
Veltroni, già teorico della vocazione maggioritaria (e arrivato a onore
del vero all’ineguagliato 33%). E quindi forse avrebbe i numeri per
riuscire a vincere e a governare, senza bisogno di supplenti o
parenti-serpenti. Certo, se gli ultimi sondaggi sulle primarie si confermeranno sarà dura verificare.
Secondo il più incazzato il Bersani neo-rottamatore
che mette D’Alema alla porta senza troppi complimenti sta giocando una
partita “gesuitico-stalinoide” e mostra che “una famiglia politica che
non sa rispettare se stessa, la propria storia e dignità, è condannata
alla dissoluzione.” Secondo i bersaniani (che i botteghini danno in
aumento, a prescindere dalle polemiche miserabili sulle Cayman e i
giardinetti) il vero rinnovatore è lui, lo smacchia-giaguari che ha passato gli ultimi anni in Tv a sganasciarsi con Crozza.
Una buona occasione per dimostrare che è vero, che il rinnovatore è
lui, è la scelta del candidato governatore della Lombardia, nel caso in
cui il Celeste riesca a mandare tutti a spendere prima di Natale (e
sotto profezia Maya). Ad oggi il nome più papabile, fra quelli che
circolano (Ambrosoli ha declinato), è quello di Bruno “prezzemolo”
Tabacci (senza offesa, s’intende, l’uomo è intelligente). Lo score –
deputato e assessore a Milano in contemporanea, presidente della
Lombardia cinque lustri fa sotto il segno di Ciriaco De Mita – non ne fa
proprio il frontman ideale per l’assalto dei grillini.
Non è un dettaglio da poco, il nome, nelle elezioni della Lombardia.
Se c’è una cosa che il ventennio celestiale ha lasciato è l’enorme
aspettativa per il dopo. Per chi verrà dopo, perché gli elettori capita
che siano più avanti dei politici (specie di quelli di centrosinistra) e
che gli importi fino a un certo punto di salamelecchi programmatici e
guazzabugli organizzativi. Quando si tratta di governare una regione che
è uno stato di dieci milioni di abitanti, tra i più avanzati d’Europa,
il manico fa la sua brava differenza.
Naturalmente per fare un nome che funzioni bisogna avere un’idea di
che cosa si vuol fare e, prima ancora, di chi ci si crede (o
modestamente si vorrebbe) essere. La celebre e celebrata “soggettività
politica collettiva” che, nel bene e nel male, a Milano ha espresso un
sindaco di sinistra dopo un altro ventennio, ora preme per il bis.
Quindi delle due una: o si fanno le primarie o il nome che esce dal
conclave deve essere all’altezza di quest’aspettativa. Dello zeitgeist, fotografato dall’immancabile sondaggio sul giornalone dell’editore-tessera numero uno del Pd (e main sponsor dell’usato sicuro Bersani alle primarie nazionali), che ha permesso la presa di Palazzo Marino.
Poi bisogna mettersi d’accordo su cosa s’intenda per “avanzato” e
forse le primarie sono uno dei ring migliori per uscire con una risposta
condivisa. La Lombardia di Formigoni, tra un arresto e l’altro, ha pure
trovato il tempo di mandare nel panico per quasi un mese i malati di
epilessia, mettendo a pagamento
due farmaci di largo consumo. Poter essere presi in ostaggio, senza
nessuna ragione, dal pensiero di 150 euro al mese di più, che possono
significare l’addio alle ferie del 2013 o alla settimana bianca, alla
camera del figlio, o alla pizza e alla palestra: questo significa essere
malati.
“Avanzato”, per i malati (ma anche non), coincide con il contrario
della paranoia gratuita procurata dall’incuria politica di un Titanic
incastrato fra le nuvole del Pirellone. Essere liberi di curarsi come si
crede, dovendo risponderne solo a sé stessi, ai propri medici e alla
propria famiglia, senza moralismi puntati. La Toscana del bersaniano
Rossi ha scelto la
strada della libertà di cura, disciplinando l’uso farmacologico dei
derivati della canapa indiana, in modo da evitare ai malati
l’umiliazione del bavero alzato e del centone che sguscia in cambio del
pacchettino furtivo. Col rischio di perdere il lavoro e/o la custodia
dei figli, farsi ritirare il passaporto o magari qualche giorno di
galera.
L’avanzato centrosinistra lombardo può permettersi un’Agenda Rossi? La rottamazione bettoliana
è davvero una posa tattica un po’ meschina (e col fiato corto) o sotto
lo stanco termine “rinnovamento” c’è qualcosa di politico? Se il tenore
della tenzone sarà Albertini (o Lupi) vs Tabacci, in assenza di
primarie, è facile che certi contenuti diventino un’esclusiva del
Movimento 5 Stelle. Che in più ha il vantaggio di non aver bisogno di
spiegare, di sottilizzare, di specificare. E ha tutto da vincere, anche
perché se succede davvero, poi, non si sa come va a finire.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
16 ottobre 2012
BERSANAMENTO
 “È stato un capolavoro di democrazia. Se usciamo bene dalla vicenda
delle primarie non ci ammazza più nessuno”. Di certo adesso faranno più
fatica ad ammazzare lui. Bersani, il segretario, dopo l’Assemblea
nazionale del Pd del 6 ottobre è stato salutato dal coro mediatico come
un generoso liberale che, un po’ per tattica un po’ per convinzione, le
primarie le ha aperte davvero. Con qualche regoletta, certo, ma un po’
di regole ci debbono pur essere, no?
Le regolette,
però, per definizione sono vincolanti e in questo caso la sanzione per
chi non le rispetta è stare a casa, senza se e senza ma. Così, dopo i
primi attimi di entusiasmo, gli aspiranti premier del Pd, outsider
che avevano annunciato la propria candidatura in deroga all’articolo 18
(i casi del destino) dello statuto che prevede che sia il segretario a
rappresentare la ditta alle primarie di coalizione, si sono resi conto
di essere rimasti in braghe di tela.
Alle diciottomila firme di iscritti al Pd (“Una follia, io ci ho
rinunciato già il primo giorno”, dice Puppato) si sono affiancate
pastoie burocratiche stile lasciapassare a 38. Elenchi degli iscritti consultabili solo all’interno delle sezioni del partito, per via della privacy
(che non vale per l’albo pubblico degli elettori, però), blindatura
senza quartiere della maggioranza già bulgara in Assemblea nazionale,
con conseguente difficoltà a trovare le novantacinque firme necessarie
per candidarsi.
“Io posso parlare per esperienza diretta. Diversi delegati che
avevano assicurato di voler sostenere Renzi, hanno cambiato
improvvisamente idea. Alcuni si erano fatti avanti con convinzione, ma
dopo qualche giorno e qualche colloquio privato, hanno fatto un passo
indietro”. Salvatore Vassallo, deputato neo-renziano (ed ex
veltroniano), descrive un clima da “o con noi o contro di noi” che forse
è quello che aveva in testa Bersani quando, con apprezzabile humour emiliano, ha gridato al “capolavoro di democrazia”.
Il Bersani neo-rottamatore (che può già incassare il bye bye
di Veltroni) è uscito bene dall’Assemblea nazionale, garantendo a Renzi
la possibilità di correre (e svincolandosi dai vecchi pachidermi) ma
costringendolo a una silenziosa conta old style di delegati “fedeli” e bastonando senza pietà gli altri outsider in grado di togliergli voti al primo turno. Pare che solo la Puppato riesca a trovare le firme, unica donna “in gamba” per i Bettoliani del secondo turno e/o clone mignon del segretario, per i maligni.
Sarà l’acrilico, ma a me la cartolina di Bettola piace. Forse perché è
talmente fuori dai canoni della comunicazione contemporanea (pure
quella più dadaista) e così sideralmente distante dal “made in Usa”
di Renzi, che al terzo (o quarto) sguardo ha finito per conquistarmi.
Il richiamo familiare, poi, è talmente arcaico da stemperare la
ruffianeria e abbastanza emiliano da non cedere alla retorica (niente
giuramenti, salamelecchi, o poesie strappalacrime). Anche questo merita
rispetto.
Prima ero rimasto un minuto buono, gli occhi sbarrati, a fissare l’immagine sul mio Mac del sito della campagna, “TuttiXBersani”, in effetti molto simile
al “TuttiXMilano” di un paio d’anni prima. Credo che il neologismo
“sciogliocchi” sia il più indicato per definire l’inferno grafico che
circonda il nonsense editoriale di uno strumento che, a
differenza di quello di Renzi, è palese che sia stato fatto proprio
perché non se ne poteva fare a meno. Al contrario della cartolina di
Bettola, che ha un cuore.
L’idea del partito che si legge in controluce, però, è quella che
aleggia sulle belle facce emiliane dell’infanzia di Bersani, che il suo
staff ha fatto circolare in occasione dell’avvio della campagna, a
Bettola (suo paese natale). Un partito pesante come un aratro e duro
come le zolle di terra da spaccare. Niente a che spartire con Renzi,
ovviamente, poco con il partito delle primarie (che ci sono ancora solo
perché Renzi è partito senza chiedere il permesso a nessuno), di Twitter
e Facebook, della mediatizzazione, della personalizzazione della
politica. In una parola della contemporaneità.
Il paradosso è che per affermare questa idea di partito, Bersani sta
mettendo in gioco sé stesso in modo molto più americano del rivale
rottamatore. Paradosso fino a un certo punto, per chi conosce gli
emiliani, a cui fa da contraltare l’altra verità di cui nessuno pare
accorgersi in queste ore. Per le regionali del Lazio c’è Zingaretti e
basta (nisba primarie) e in Lombardia, dove delle primarie parlano solo i
giornalisti,
per ora l’unico candidato certo del centrosinistra è Tabacci. Dopo
Formigoni ci si aspetterebbe anche qualche colpo d’ala, ma questa è
un’altra storia.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
7 ottobre 2012
OUTSIDER TRADING
“Mi avevano chiesto, come si usa, di fare due conti e vedere chi sta
con chi. Ho fatto un sondaggio fra la nostra gente, segretari di circolo
funzionari amministratori: tutto a posto, tutti con Bersani. Poi la
sera che è venuto Renzi a parlare alla festa ho visto, in platea, il
parrucchiere del mio paese, Alfonsine, è da lui che vanno a tagliarsi i
capelli tutti i ragazzi. E ho visto anche il direttore della Conad,
quella dove vanno le donne a fare la spesa. E poi in fondo il fratello
di mia suocera, che fa l’imprenditore e che quando vuol sapere di
politica chiede a me. Ho domandato al parrucchiere. Ma stai con Renzi? E
lui: ma sì, è nuovo è giovane. Poi tanto sono tutti nel Pd, no? Bersani
faccia il segretario, Renzi il presidente del Consiglio”.
Questa,
fuori dalle chiacchiere politicanti è l’aria che tira. C’erano serie
possibilità che l’Assemblea nazionale del Partito Democratico di sabato 6
ottobre fosse l’ultima. Bastava che il fu Partitone assediato si
arroccasse in una Bulgaria di lacci e lacciuoli, tesi a tagliare le
gambe alla volata del camper di Renzi, e Renzi, poi, avrebbe avuto tutto
lo spazio del mondo – e le ragioni – per presentarsi alle elezioni in
libertà. Mostrando dunque di aver fatto bene i suoi conti a iniziare la
sua campagna con un appello agli “altri”.
Sulle “regole del gioco”, con cui si corrono le primarie per la
candidatura alla premiership del centrosinistra italiano, la decisione è
stata assurdamente rimandata per mesi, come quegli esami medici che
dovremmo davvero, ma proprio non abbiamo voglia di fare. Così oggi il Pd
di Bersani si trova a inseguire col fiatone un candidato che già parla
da premier e che l’ultimo sondaggio Ipr gli piazza tre punti dietro. 37 a
34, con Vendola ben sotto il 20 e gli altri (Puppato-Gozi-Tabacci) con
percentuali da prefisso.
Per capire la differenza basta accendere il pc, andare su Google e
dare un’occhiata ai siti internet dei due candidati, uno dietro l’altro.
Due ere geologiche. E questo vale per tutto il resto: dal fund raising
online professionale alla presenza sui social network, dalla perfetta
riproduzione iconografica del cliché stilistico del Pd made in Usa – in
una grafica impeccabile, nel suo stereotipo manifesto – alla mimica del
corpo durante i comizi-show del tour in giro per l’Italia.
Se Renzi vince le primarie, poi, è l’apocalisse Maya. Almeno per le
centinaia di migliaia di famiglie che vedono uno stipendio sicuro
smettere di esserlo. Per ora il corpaccione dell’ex partitone ha retto,
ma se i sondaggi anche solo si attestano su queste proporzioni il cambio
di casacca, dalle ultime file in avanti, a beneficio del quasi
vincitore senza esercito diventerà sempre più sistematico e compulsivo
man mano che la data delle primarie si avvicina minacciosa.
Già ora i maligni insinuano che agli show elettorali di Renzi tra le
spie inviate dai dignitari di Bersani, sempre una dignitosa porzione
della platea del comizio multimediale, pullulino i disertori pronti a
vendersi appena finita la corsetta scenica con cui ad ogni tappa il
sindaco fiorentino raggiunge il palco. Solerti funzionari occhiuti,
rimasti spiazzati da quella inconfondibile puzza di vittoria, così
raramente annusata, e subito folgorati sulla via del camper. Chi primo
arriva…
Fuori dagli attendamenti dei generali sul campo, poi, si aggirano le
candidature di bandiera come quella di Puppato (di cui subito s’è
malignato essere quella di Bersani, la bandiera), Gozi (che pare più
interessato a posizionare ego e cv, più che legittimamente) e Tabacci,
unica candidatura fuori dal, paradossale, coro giovanil-movimentista di
cui Vendola è il massimo campione storico. Nonostante l’età e il
background.
Vale la pena spendere due parole per il governatore della Puglia,
classico ed eterno esempio di radioso futuro alle spalle, che per un
breve ma intenso attimo parve avere la possibilità di dare concretezza
al velleitario. Facendo dell’esperienza di governo il jolly per
accreditarsi anche fuori degli steccati ideologici che presidia da un
trentennio come un credibile leader della sinistra. Si sa com’è andata a
finire, in Puglia e nella sinistra, e la sua eterna campagna per
l’argento alla leadership del centrosinistra senza trattino non
appassiona più da almeno un annetto. Troppa fretta, troppo ego (ma bella campagna: complimenti ai creativi).
Ma forse Bersani è più furbo di quanto vuol far credere e lo sfoggio
di liberalità del 6 ottobre può essere il modo di ottenere tre
risultati: una bella figura e un bel numero di candidati che dipendono
dalla clemenza della tanto vilipesa “struttura”. La conciliazione del 6
ottobre, infatti, è un a buona notizia soprattutto per Renzi: 18.000
firme da raccogliere in una settimana (107 firme all’ora cioè 1,78 firme
al minuto, come conteggiano al volo su Twitter) o almeno il dieci per
cento dei delegati dell’Assemblea nazionale del Pd. Dura per gli
outsider.
Ma l’unica possibilità che Renzi non vinca, a occhio e croce, è che
ci sia qualcun altro in grado di togliergli abbastanza voti, militanti,
volontari, campo. Tutta gente che ora si trova costretta a scegliere fra
la padella e la brace. Qualcuno di giovane, “nuovo”, credibile, ma un
po’ meno marziano del sindaco di Firenze, almeno agli occhi del target
Pd, senza disinvolte gite ad Arcore nello score e con meno brillantini e
paillettes televisive. Qualcuno come Pippo Civati.
La sua rete ha lanciato in questi giorni “Occupy Primarie”, la campagna online che fino al 12 ottobre sforna ogni giorno una cartolina per l’Italia ed è culminata mediaticamente nel “blitz dell’Ergife”, il gotico hotel pullulante di déja-vu dove si è tenuta l’Assemblea del Pd. Sono sempre gli stessi che hanno formulato i sei referendum
per smuovere le acque dentro un partito in cui, senza il ricorso al
pueblo su certi temi non si muove foglia. E che ora chiedono di votarli
insieme alle primarie. Con o senza Civati sulla lista.
Questo pare proprio l’ultimo giro di giostra. Ma che succederà poi,
al Pd, se e quando la rottamazione sarà compiuta? Una volta che i vecchi
oligarchi con cui prendersela sempre avranno davvero levato le tende o
comunque si limiteranno a brontolare, come tutti i bocciatori in là con
l’età? Cosa rimarrà del Pd con un governo a trazione renziana (o
montiana)? Il congresso è oggi, anche questa partita si gioca ora.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage. La campagna "Occupy Primarie" è stata realizzata delle Lance Libere.
|
8 agosto 2012
SINISTRA E/A PUTTANE
 “Erano queste giovani [sacerdotesse, ndr] che avevano, anche, il nome di «vergini» (parthénoi ierai), di «pure», di «sante» – qadishtu, mugig, zêrmasîtu;
si pensava che incarnassero, in un certo modo, la dea, che fossero le
«portatrici» della dea, da cui traevano, nella loro specifica funzione
erotica, il nome – ishtaritu. L’atto sessuale assolveva così
per un lato la funzione generale propria ai sacrifici evocatori o
ravvivatori di presenze divine, dall’altro aveva una funzione
strutturalmente identica a quella della partecipazione eucaristica: era
lo strumento per la partecipazione dell’uomo al sacrum, in questo caso portato e amministrato dalla donna.”
C’è bisogno della Metafisica del Sesso di Julius Evola per
mettere un po’ di ordine intorno a quello che, un po’ sbrigativamente ma
non senza una ragione profonda, è conosciuto come il “mestiere più antico del mondo”.
“Puta” è una radice sanscrita presente nei Veda indiani, poi esondata
dall’Avesta alle lingue romanze, che allude a qualcosa di puro, santo.
La “Grande Prostituta” o “Vergine Santa”, infatti, anticamente era una
sacerdotessa che amministrava il culto della dea.
“L’atto sessuale tra un uomo e la sacerdotessa era il mezzo per
ricevere la gnosi, per fare esperienza del divino [...]. Il corpo della
sacerdotessa diventava, in modo impensabile per il mondo occidentale
contemporaneo, letteralmente e metaforicamente una via per entrare in
rapporto con gli dei [...]. Per i pagani, infatti, le donne erano
naturalmente in contatto con il divino, mentre l’uomo, da solo, non
poteva raggiungere questo obiettivo.”
Sino ai tempi dei romani il termine “vergine” significava “nubile”, tant’è che in latino a “virgo” si affiancava l’allocuzione “virgo intacta”
per identificare la ragazza non sposata e priva di esperienza sessuale.
Non stupisce, dunque, la trasfigurazione etimologica – e culturale –
operata dalla gestione patriarcale del messaggio di Cristo. In più i
cristiani, junior del Vecchio Testamento, erano avvantaggiati: gli avi
ebrei erano stati i primi a liberarsi del culto della dea e a
sostituirla con il (presunto) unico dio maschio.
Proprio una Vergine sarà la madre del Salvatore e il suo carisma si
diffonderà con trasversale rapidità. Le madonne nere di Francia, il
culto di Iside, le eredità etrusche, cretesi e druidiche, insieme al
Natale e alle altre feste copiaincollate su quelle pagane e
celtiche, si fondono nel Cristianesimo che porta a compimento il
rovesciamento dei poli, iniziato dagli ebrei e dalle invasioni di
elleni, dori e achei nella Grecia pre-socratica e matriarcale: gli
uomini amministrano il culto, le donne sono sante o puttane.
Le antiche sacerdotesse della luna vengono sfrattate dagli altari e
sbattute in strada, proprietarie solo di quel corpo che un tempo fu il
tempio e ora diventa l’icona del peccato. Maddalena non per caso
assurgerà a simbolo di resistenze carbonare, oltre che a croce e delizia
della sbandierata tolleranza della religione del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo (tutti con la “o”). Così come i padroni maschi del pantheon
greco si erano dovuti inventare il parto cerebrale di Era da parte di
Zeus, per giustificare la patrilinearità celeste su cui poggiava il loro
potere ai piedi dell’Olimpo.
La sessuofobia contemporanea, quindi, non è che un retaggio
antropologico antico, un riflesso condizionato di quel naturale timore
reverenziale che ogni maschio di potere prova nei confronti di una donna
libera e del suo corpo. Tutto quello che ne discende, in termini di tic
e paranoie culturali sull’educazione, la cultura, il buon gusto e
persino la politica, è solo un pallido rimbalzo di una partita antica
come il sole e la luna. Il beghinaggio moralista su videogiochi,
pornografia, preservativi e tutto il resto è tutto qui.
Ma c’è anche la tolleranza. Questa dev’essere una delle ragioni per cui il motto – il mestiere più antico del mondo
– è ancora valido. Le prostitute sono sempre state tollerate, spesso
utilizzate per le “necessità corporali” di papi, confratelli e prelati,
come monito del peccato ma anche della possibile redenzione, incarnata
dalla sempiterna Maddalena. Tolleranza non vuol dire uguaglianza, però.
Anzi. La condizione di minorità, di clandestinità professionale, di
oscurità sociale è essenziale, per il monito.
Niente di male, intendiamoci: la Chiesa fa la sua partita. Quello che
disarma, come al solito, è la nullità culturale e la sudditanza
politica espressa dai sinistri moralizzatori che si ergono a paladini
dei diritti della donna, con la “d” maiuscola. E non spostano un fico
secco circa le condizioni materiali delle donne in carne ed ossa che,
per scelta, costrizione o (estremo peggio) schiavitù, si prostituiscono
per strada.
L’ultima della lista è la neo-portavoce del governo Hollande, Najat Vallaud-Belkacem, che ha dichiarato: “Non si tratta di sapere se vogliamo abolire la prostituzione, ma di trovare gli strumenti per farlo”. Le “sex workers”
di Francia (lì le case chiuse sono state abolite nel 1946), circa
ventimila di cui ottomila solo a Parigi, sono scese in piazza per
protestare, volto coperto da maschere di plastica e lavagnetta al collo
con su scritto: “Non siete voi a riempirmi il frigo, a pagarmi le
bollette, perciò non potete parlare”.
In Italia la senatrice radicale Poretti, che ha proposto un disegno di legge per
la legalizzazione della prostituzione, ha fatto i conti: “settantamila
prostitute presenti nel nostro Paese per nove milioni di clienti e un
costo medio per prestazione di trenta euro fa un giro d’affari,
sicuramente per difetto, di novanta milioni al mese, oltre un miliardo
l’anno”. In tempi di crisi nera forse è meglio tassare l’ipocrisia di
Stato, visto che la prostituzione in sé non è reato, piuttosto che
strangolare imprese e pensionati.
Un barlume di lucidità giunge dalla Romagna. A Ravenna il sindaco Matteucci ha annunciato
recentemente il progetto per la “zonizzazione” della città, prevedendo
alcune zone illuminate e sicure per farle lavorare in santa pace. Si è
anche lanciato in un’apologia liberalizzatrice commovente sulla
necessità di una legge che regolamenti il mestiere più antico del mondo
con laica serietà. In tempi normali sarebbe una battaglia persa in
partenza, chissà se la fame si dimostra catartica.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
23 maggio 2012
ASSALTO AL PARTITONE: PARMAGRAD
 “La radio al buio e sette operai, sette bicchieri che brindano a
Lenin… e Stalingrado arriva nella cascina e nel fienile, vola un
berretto un uomo ride e prepara il suo fucile. Sulla sua strada gelata
la croce uncinata lo sa… d’ora in poi troverà Stalingrado in ogni
città!” Chissà se a Grillo è passato per la testa il pezzo degli Stormy Six, quando ha dichiarato Parma “la nostra Stalingrado”. Ora che punta a Berlino dovrebbe proprio ascoltarla.
“I parmensi sono come i ravanelli: rossi fuori e bianchi dentro.” Mia zia, bolognese trapiantata a Parma in
gioventù, mi aveva avvertito per tempo. La scorsa settimana, quando
davo la caccia ai candidati al ballottaggio, per il Pd di Parma avevo
chiesto a lei. Mi ha dato il cellulare di un funzionario di Partito,
molto cortese e disponibile, che a sua volta mi ha dato l’e-mail del
“comunicatore”. Che non mi ha mai risposto.
Pizzarotti, dopo un po’ di stalking su Facebook e via mail,
quando mi è scesa la catena e gli ho chiesto se, per caso, non cagare
chi chiedeva un’intervista fosse una “scelta di politica aziendale”, mi
ha risposto. “Nessuna strategia ma mi chiamano da tutta Italia ed è un
casino gestire tutto. Domani vedo cosa riesco a fare.” Il giorno dopo ha
ripreso a non rispondermi, nel frattempo a Parma è arrivato il New York Times, Le Monde e la CNN e io mi sono arreso.
Adesso che i ravanelli parmensi hanno votato e che, a
differenza che nel resto d’Italia, l’hanno fatto in massa (solo tre
punti in meno rispetto al primo turno) è possibile tracciare un primo
bilancio della Campagna d’Emilia, che ha portato Grillo (e Pizzarotti,
che ha fatto di tutto per mostrare ai suoi concittadini di essere un
bravo ragazzo lavoratore, persino un po’ moderato, che pensa e decide in
proprio) al primo successo serio, in grado forse di scardinare la pax partitica imposta dal moribondo governo Monti.
Mentana ha aperto il suo pomeriggio tv dedicato ai ballottaggi con il
sondaggio sulle intenzioni di voto degli italiani. Grillo è balzato al
12%, raddoppiando i consensi rispetto a due settimane fa, e si affaccia
come terza forza politica del paese, col Pd al 25 (in calo), il Pdl al
20 (a picco), la Lega sotto il 5 (ai minimi termini) e pure Udc, Idv,
Sel e Fli in discesa. Tutti i partiti giù, in pratica, con altri
sondaggi che gonfiano ancor di più le vele del Movimento 5 Stelle.
Chissà tra un anno, alla partita vera.
Per l’intanto Grillo può mettere in fila, oltre a Parmagrad, altri
tre municipi espugnati. Alla vittoria al primo turno, per venti voti, di
Roberto Castiglion a Sarego (già sede del “Parlamento padano”), si
aggiunge il trionfo di Marco Fabbri (quasi il 70%) a Comacchio e il rush vincente (52,5% e 26 punti rimontati dal primo turno) dello studente universitario di 26 anni Alvise Maniero a Mira, città d’arte di quasi 40000 abitanti sulla Riviera del Brenta (ed ex roccaforte rossa).
Stalingrado, però, rimane Stalingrado. Parma è una città ricca con un
Comune talmente indebitato (si parla di 600 milioni di euro, interessi
esclusi) che rischia di non poter pagare gli stipendi ai dipendenti, a
giugno. Dopo quattordici anni di giunte di centrodestra il candidato del
Pd si aspettava di vincere facile.
“Io rispetto tutti gli avversari, ma il ballottaggio con il candidato
del Movimento 5 Stelle Federico Pizzarotti sarà come giocare la finale
di Coppa Italia contro una squadra di serie B.”
Dev’essere stata questa certezza (o forse la sensazione che le cose
si stavano mettendo male) che ha spinto Vincenzo Bernazzoli ad
avventurarsi, tra lo stupore generale, a un faccia a faccia con
Pizzarotti organizzato dall’Associazione Gestione Corretta Rifiuti e
Risorse di Parma all’Auditorium Paganini (strapieno, oltre mille
persone). Tema della serata il nuovo inceneritore, piatto forte della
stracittadina elettorale, la cui costruzione è stata approvata dalla
Provincia presieduta proprio da Bernazzoli.
“In Italia si sta andando verso la soluzione senza
inceneritore: Reggio Emilia, la Sicilia, la Provincia di Lucca. L’Europa
prevede dal 2020 il divieto di bruciare materiali riciclabili o compostabili. Ma a Parma vige la “Legge Vincenzo“. Bernazzoli nemmeno risponde alle domande scomode: “Dove metterà le ceneri tossiche dell’inceneritore?“. Non si sa.” La lettera dell’Associazione Gestione Corretta Rifiuti e Risorse, pubblicata sul blog di Beppe Grillo, suona come un epitaffio.
Secondo alcuni,
tra cui anche Pizzarotti (che in un attacco di sincerità ha confidato
alle telecamere che se quelli del Pd mettevano un altro, “magari giovane
e fuori dai giochi”, forse avrebbero vinto al primo turno), è stato un
problema di manico. Bernazzoli si è dovuto difendere per tutta la
campagna elettorale dall’accusa (che a Parma vale triplo) di non voler
mollare la poltrona di Presidente della Provincia. Oltre all’ineleganza
ha dato anche l’impressione di crederci il giusto, alla vittoria. E se
non ci crede lui…
Adesso Grillo e i suoi festeggiano l’avvento col botto (si fa presto a
fare i fatalisti ora, ma il 60% a Parma non se l’aspettava nessuno)
della Terza Repubblica e Bersani la sua vittoria “senza se e senza ma”
ché, se non c’era la “non-vittoria” (spettacolare neologismo) di Parma
sarebbe stato un trionfo. Il mio piccolo viaggio nel Partitone emiliano
assediato finisce così con un due a uno per i barbari e la sensazione
che, sui suoi temi (Casta, ecologia, ecc.), Grillo continuerà a far
male.
(… fine)
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
20 maggio 2012
ASSALTO AL PARTITONE: COMACCHIO
 “Beh, a voi elettori di Comacchio la scelta: il rinnovamento oppure
un ritorno al passato con Pierotti, già due volte sindaco, che ha
comunque sempre manovrato dietro le quinte le ultime amministrazioni
comunali. Quindi abbiamo una grossa opportunità: riprenderci tutti
insieme, tutti i cittadini, il governo di questo nostro territorio così
splendido…”.
Quando ho visto il video di Marco Fabbri, candidato del Movimento 5 Stelle, su YouTube
mi è tornato in mente l’esondazione sprezzante e vagamente sconsolata
della mamma di due compagni di musica di mio figlio, sulla classe
politica (senza distinzioni) che ha amministrato Comacchio negli ultimi
quindici anni. “Poi hanno pure la faccia tosta di presentarsi adesso
come quelli che vogliono cambiare tutto.”
Il Comune di Comacchio (Cmâc’
nel dialetto locale) conta poco più di ventitremila abitanti
sparpagliati su un territorio che comprende i sette lidi (Lido degli
Estensi, delle Nazioni, di Pomposa, degli Scacchi, di Spina, di Volano e
Porto Garibaldi) che si allargano su spiagge californiane lungo la
costa che congiunge la foce del Reno e il Po di Volano, tocca il Parco
regionale del Delta del Po e fa capo all’antico borgo, le cui vestigia
risalgono ad oltre duemila anni fa.
Il simbolo architettonico della piccola Venezia, “sorta
sull’unione di tredici piccole isole (cordoni dunosi litoranei)
formatisi dall’intersecarsi della foce del Po di Primaro col mare”, è il
Trepponti (nella foto), creato nel 1694 dall’architetto Luca
Danesi e costituito da cinque ampie scalinate (tre anteriori e due
posteriori), culminanti in un piano in pietra d’Istria. Un simbolo
perfetto anche per il barocco politico cittadino (velenoso, invelenito
ma grondante speranza), una girandola di parole che lunedì sera
condurrà, comunque, a un unico “piano in pietra d’Istria”: una e una
sola faccia al timone di Comacchio.
Quella di Alessandro Pierotti, avvocato navigato che corre con una
coalizione formata da Pd, Udc, Lista Civica Futura Comacchio e Lista
Civica l’Onda e ha ottenuto l’appoggio di Fli al Bagno Ippopotamus di Porto Garibaldi, è una faccia spavalda. Al comizio
di chiusura, dopo quindici giorni a testa bassa contro Fabbri e Grillo
(“è lui il primo a non essere incensurato”), anziché parlare del suo
programma “ormai già sentito in tutte le salse” ha preferito bastonare
“Fantomas Fabbri”, che “negli ultimi quindici giorni non si è mai
presentato ad un confronto con me”, e quello che liquida come “un
programma invisibile, un copia-incolla scaricabile da internet”.
Poi passa alle blandizie di vecchia scuola e addita tutto il grillume
che potrebbe urtare note sensibilità. Sostiene che quelli del M5S non
parlano delle vongole che “danno da lavorare a trecentocinquanta
persone” e, con un crescendo berlusconiano quasi epico, che con i loro
canoni sbandierati di legalità diventerebbe fuorilegge l’80% delle
seconde case (che i comacchiesi affittano ai lidi). Alla fine si dice
certo che “se si vorrà votare con la benda sugli occhi è certo che si
ritornerà al voto tra sei mesi”. O Pierotti o il diluvio.
Marco Fabbri è un giovanotto col gel e la faccia da alieno (almeno
rispetto ai canoni lombrosiani del giovane politico contemporaneo).
“Sono nato a Comacchio, dove vivo tutt’ora nella frazione di Lido
Estensi, ho 29 anni, sono laureato presso la Facoltà di Scienze
Politiche dell’Università di Bologna e sono un dipendente pubblico (ma
non un fannullone!)”. Scrive di sé stesso sulla sua pagina del sito “Comacchio a 5 Stelle”, dove compare con casco e sorriso in groppa a una Ducati.
Nel video su YouTube rilancia i temi-bandiera della sua campagna
elettorale col botto (oltre il 22% dietro a Pierotti che supera di poco
il 36, con quasi l’intero arco costituzionale dietro), primo fra tutti
il “no alla chiusura dell’Ospedale San Camillo deciso da Provincia e
Regione.” La mamma di Comacchio che ho intervistato al posto di
Fabbri-Pierotti è stata la prima cosa che mi ha detto. Poi c’è il
rilancio del turismo declinante su cui anche lui, come tutti, ha la sua
ricetta.
“Una delle prime lotte sarà quella contro la cementificazione del
territorio. In questi anni si è costruito troppo e male: quasi 30000
case, molte delle quali invendute e sfitte… Occorre valorizzare questo
splendido territorio che non è fatto solo di mare, ma anche di valli, di
saline. Siamo nel Delta del Po, i comacchiesi hanno un’occasione unica
per ridare dignità e fiducia a questo posto, che negli ultimi anni ha
perso presenze turistiche nell’ordine di oltre un milione.”
Via libera di fatto a
Fabbri (“oggi l’inesperienza è necessaria”) arriva anche dal candidato
del “Centrosinistra per Comacchio”, che sul Delta del Po evidentemente
non comprende il Pd ma solo Rifondazione, Sel e l’Idv. Fabio Cavallari,
trentadue anni, allenatore di pallavolo e “responsabile postvendita
estero per una multinazionale”, ha superato l’undici per cento dei
consensi al primo turno, arrivando di poco quarto dopo il neanche il 15%
di Antonio Di Munno e il suo Pdl in caduta libera (il sindaco uscente
di centrodestra, Paolo Carli, aveva preso quasi il 60% due anni fa).
Il terzo candidato “giovane” al primo turno, Alberto Lealini della
lista “Voce giovane per Comacchio”, ha sfiorato il dieci per cento dei
voti e si è classificato al quarto posto, davanti alla Lega Nord (poco
sopra il sei). Per qualche giorno è circolata la voce, poi smentita, di
un apparentamento suo con Fabbri e i grillini ma se si sommano i
consensi ottenuti dai “trepponti” della nuova Comacchio (Fabbri,
Cavallari e Lealini) si arriva al 43%.
Forse davvero “la Terza Repubblica nascerà da Comacchio”, come ha profetizzato
Grillo con usuale sobrietà all’ultimo, gettonatissimo, comizio in città
o semplicemente gli elettori stanno prendendo a schiaffoni i partiti
che hanno gestito la baracca fino ad ora. Di certo essere giovani e/o
fuori dai giochi sembra essere la carta vincente per aspirare a fare il
sindaco della piccola Venezia. E Grillo lo ha capito per primo. Staremo a vedere.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
18 maggio 2012
ASSALTO AL PARTITONE: BUDRIO
“Piccolo motto conclusivo per i dirigenti nazionali del Pd: quando i
gatti han lo stesso colore scorazzano le volpi. E non son solo grilline.
Occhio ragazzi!” Mauro Zani, ex leader comunista (e per un po’ pure
post), chiudeva così la sua intervista a FrontPage.
È passato un anno e mezzo, sembra cambiato ancora una volta il mondo e
le volpi (solo) grilline scorrazzano nell’intera regione
all’inseguimento del Pd.
A parte Piacenza, dove la Seconda Repubblica tiene e centrosinistra e
centrodestra si misurano nella classica bipolar tenzone, a Parma,
Comacchio e Budrio Pd & soci (a formazioni variabili) se la devono
vedere con i candidati del Movimento 5 Stelle. Il centrodestra e la Lega
Nord, esclusi dai ballottaggi e prosciugati elettoralmente, si
attestano su una schizofrenia politica che fa propendere i caporioni
locali per Grillo, per l’astensione o (senza dichiararlo a chiare
lettere) per il centrosinistra.
“La piccola comunità di Budrio, con eroico coraggio e indomito
spirito patriottico, contribuiva alla lotta di Liberazione, dando
ospitalità e rifugio a gruppi di partigiani. Subiva una feroce e cieca
rappresaglia da parte delle truppe tedesche che trucidarono civili
inermi, tra cui donne e giovani adolescenti e incendiarono alcuni
edifici. Ammirevole esempio di spirito di sacrificio ed amor patrio.”
Budrio,
medaglia d’argento al valor civile, è un paese di quasi 18000 abitanti
in provincia di Bologna, sulla strada per il mare, le cui più antiche
vestigia risalgono ai temi dei romani. La cittadina sulla San Vitale è
celebre in tutto il mondo per l’ocarina, uno strumento musicale
inventato dal budriese Giuseppe Donati e il candidato sindaco del Pd,
Giulio Pierini, suona la sesta ocarina nell’Ocarina Ensemble Budrio.
Pierini lo conosco da dieci anni, da quando faceva il segretario
della Sinistra Giovanile (i giovani dei Ds) di Bologna e gli curavo le
campagne di comunicazione. Ora di anni ne ha quasi trentaquattro e dopo
aver fatto il responsabile comunicazione per il Pd bolognese e
l’assessore alla cultura e al bilancio di Budrio è stato scelto come
candidato unico a sindaco, senza primarie (“non c’erano sfidanti”).
Ha accettato di confrontarsi sui temi più spinosi della sua campagna
elettorale: centrali a biomasse di Mezzolara, centro commerciale e Imu
(il “super-Imu” di Budrio, secondo le gazzette locali). Contro le
centrali è sorto un comitato di cittadini capitanato dal magistrato Enzo
Roi e si è cementato il consenso della lista di Grillo il cui
candidato, Antonio Giacon, non ha risposto alla richiesta d’intervista
via e-mail né ai messaggi su Facebook.
Giulio Pierini, reduce da una campagna particolarmente dura (“con
attacchi personali gratuiti e offensivi”), ha accettato di raccontarsi
sulla chat di Facebook e quello che segue è il copia e incolla di com’è
andata.
Giulio Pierini, candidato sindaco di Budrio, ti aspettavi il ballottaggio?
“Eravamo sette candidati a sindaco; il ballottaggio poteva starci. Con
il M5S al 20% e la lista “Noi per Budrio” al 14% arrivare così vicini al
50% è stato un bel risultato. Ci poteva stare…”
La lista Noi per Budrio è frutto di una scissione del centrosinistra, o sbaglio? “Non è esattamente una scissione. È una lista politica
formata da cittadini ma soprattutto da ex amministratori, che negli
anni scorsi erano all’interno del centrosinistra.”
Quali sono le differenze fondamentali fra il centrosinistra,
diciamo così, storico, la lista Noi Budrio e il Movimento 5 Stelle?
Perché a occhio parte del 62% preso dal sindaco uscente, Castelli, è
andato lì…
“Con coloro che hanno formato la lista Noi per Budrio non ci siamo
trovati d’accordo sul giudizio sull’amministrazione uscente. Nonostante
ne abbiano fatto parte per dieci anni, hanno deciso di esprimere un
giudizio negativo sul Sindaco Castelli. Per noi questo era semplicemente
sbagliato. Con il Movimento 5 Stelle, invece, non abbiamo mai avuto
nessun confronto. Se escludiamo idee diverse sui temi dello spostamento
dello stabilimento Pizzoli, la nascita di un centro commerciale e la
strumentalizzazione delle biomasse a Mezzolara, il M5S ha un programma
in buona parte condivisibile e su molti punti già realizzato o in via di
realizzazione.”
Perché dici “strumentalizzazione delle biomasse a Mezzolara?” Io ho letto che sono contrari al progetto, ho visto il video dell’area
che dovrebbe ospitare il sito delle quattro (?) centrali e assistito a
progetti di questo genere, un po’ in tutta la regione… Qual è l’idea del
Pd e del suo candidato? Mi spiego meglio: a cosa serve? Chi ci
guadagna? Ci sono rischi per la salute? Cosa cambia per l’ambiente? Per
la Valle dei Benni?
Pierini: “Strumentalizzazione perché, se il progetto è ben fatto, i
comuni hanno pochissimi poteri in merito: è un impianto privato su area
privata autorizzato dalla Conferenza dei Servizi provinciale sulla base
di una legge nazionale. In Italia, tutti i ricorsi dei comuni e dei
comitati hanno avuto esito negativo. Il Comune di Budrio, con il dialogo
e il confronto serrato nel merito dei problemi, ha convinto il privato a
modificare il progetto: spostamento del sito in una zona lontana dal
centro abitato, riduzione dell’impianto a 2 MW; trasporto delle materie
prime fuori dei centri abitati; controllo continuo delle emissioni
prodotte da parte dei cittadini e degli enti preposti… Deve cambiare la
legislazione nazionale per ridare agli enti locali il potere di
individuare i siti e le modalità di alimentazione degli impianti, in
modo da premiare gli impianti piccoli che utilizzano scarti della
produzione agricola e zootecnica. Gli impianti a biomasse possono
rappresentare così un’integrazione al reddito degli agricoltori,
contribuendo a sviluppare fonti energetiche alternative, senza
sacrificare il paesaggio né la vocazione agricola del territorio, sennò
chi ci guadagna sono grandi investitori. Se ci sono rischi per la salute
gli enti preposti in Conferenza dei Servizi bloccano il progetto
rigettandolo. Sulla Valle Benni, poi, conviene sfatare un mito: l’area
umida non verrà intaccata per nulla e comunque anche quella è un’area
privata attualmente inaccessibile ai cittadini e utilizzata per la
caccia.”
Quindi se tu diventi sindaco e decidi che la campagna deve
rimanere campagna e che nessun mega-impianto dev’essere costruito, a
parte quelli piccoli di produzione del biogas, non hai il potere di
farlo?
Pierini: “Nessun sindaco ha il potere di farlo, se i progetti sono ben
fatti sulla base della legge nazionale e delle prescrizioni regionali.
In assenza di una vera autonomia dei comuni su questa materia, quello
che si può fare è una sorta di “moral suasion” che permetta di difendere il territorio e rispondere alle preoccupazioni di cittadini e agricoltori.”
Sono previsti sconti sulle bollette dell’energia per chi abita nei pressi della centrale?
“La legge non prevede compensazioni di questo tipo. Gli impianti a
biomasse in realtà producono una certa quantità di calore che in gran
parte viene dispersa: con il teleriscaldamento si potrebbe
riutilizzarlo, ma nel caso di Mezzolara è impossibile, con
l’allontanamento dell’impianto che anche il Comune ha chiesto.”
Ma perché il M5S è contrario al centro commerciale?
“Non hanno compreso che senza un investimento come quello di un centro
commerciale (che va poi a utilizzare una potenzialità prevista dal 1997)
l’azienda Pizzoli se ne sarebbe andata da Budrio in un’altra regione o
all’estero. In questo modo invece siamo riusciti ad avere la mole
adeguata di investimenti per realizzare la prima APEA (area produttiva
ecologicamente attrezzata) della provincia di Bologna. Perché nel 1997
gli amministratori decisero per un possibile centro commerciale? Io ero
minorenne, ma probabilmente già allora era chiaro che senza strutture
medio-grandi i budriesi facevano le loro spese in gran parte fuori dal
loro Comune.”
Ultima domanda, forse la più spinosa: il super-Imu di cui
parlano i giornali? A parte le ragioni di bilancio, quasi tutti i comuni
sono messi male dopo dieci anni di tagli e di aumento della spesa di
stato e regioni… Ma proprio adesso? A un mese dal voto?
“L’Imu è una tassa ingiusta, soprattutto sulla prima casa, ed è pesante
anche da spiegare e gestire in piena campagna elettorale. La cosa più
brutta, insieme all’esborso per i cittadini, è che non c’è ancora nulla
di chiaro e certo. I comuni hanno poca autonomia e sono praticamente
esattori dello Stato. Bisogna insistere per rendere l’Imu più equa e
meno pesante: servono ulteriori detrazioni prima casa per le famiglie a
basso reddito, agevolazioni alle persone in difficoltà (per esempio chi
ha perso il lavoro, anziani soli); riduzioni per i comodati gratuiti a
familiari e per la proprietà indivisa; aliquote più basse per le
imprese, per il commercio e per i terreni coltivati direttamente dai
proprietari.”
Vabbè, ma Budrio ha applicato quasi l’aliquota massima, sia
per terreni che per seconde case… e pure sulla prima casa ha picchiato
duro. O no?
“Assolutamente no. Innanzitutto non abbiamo ancora applicato niente
perché con le modifiche alla legge “Salva-Italia” bisogna rifare i
conti. Noi abbiamo trovato un equilibrio, in un quadro comunque pesante:
lo 0,48% per la prima casa (il massimo è 0,6) e lo 0,92 sulle seconde
(il massimo è 1,06) con riduzioni per artigianato e commercio allo 0,84 e
forti agevolazioni per i comodati gratuiti e la proprietà indivisa. Sui
terreni agricoli, quando abbiamo approvato la nostra variazione di
bilancio, non erano ancora possibili riduzioni specifiche, ma adesso
sulla modalità di conteggio in agricoltura cambierà tutto e confidiamo
in un alleggerimento del prelievo perché c’è il rischio concreto che
molte aziende agricole chiudano perché non possono pagare l’Imu.”
Meglio l’usato sicuro del buon vecchio Partitone, quindi… Perché, in una battuta? “Qui non c’è la Casta e non ci sono privilegi: gli
amministratori sono cittadini che si impegnano per il bene della loro
comunità. Continuiamo con le buone politiche dell’amministrazione
uscente, ma insieme a questo innoviamo e riformiamo profondamente il
welfare che oggi non regge più di fronte ai nuovi bisogni, investiamo in
politiche ambientali, energetiche e della mobilità sostenibile,
valorizziamo il nostro patrimonio di eccellenze produttive e culturali.”
(2 – continua)
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
15 maggio 2012
ASSALTO AL PARTITONE
Dalle mie parti il Pd si chiama ancora Partito, con la “p”
maiuscola”. Al di là degli aspetti folk (tortellini e cappelletti fatti a
mano alle feste dell’Unità, volontari che distribuiscono il giornale al
mattino, ecc.), la presenza dell’organizzazione erede del più grande
partito comunista d’Occidente si fa sentire in pressoché tutti gli
ambiti della società e della vita biologica di chiunque ne faccia parte,
a qualunque livello.
L’intreccio fra Partito, Sindacato e Lega (che da queste parti
significa ancora Lega delle cooperative) è la cifra distintiva del
sistema emiliano, che nel corso degli anni ha definito comunità omogenee
sotto il profilo politico, economico e culturale. Per lavorare, fare
impresa, aprire una scuola di yoga o di tango argentino, farsi una
partita a tressette con gli amici, presentare la dichiarazione dei
redditi o farsi controllore i contributi per la pensione, andare a
ballare o a sentire un concerto rock, in una maniera o nell’altra
s’incoccia quasi sempre un qualche nipotino di Gramsci e Togliatti.
Quasi ogni paese, città, Provincia, oltre che la Regione, sono stati
governati per sessant’anni dalla stessa famiglia politica e dalle
filiazioni che da essa sono scaturite, al punto che quando queste
stagioni sono state interrotte bruscamente dalla vittoria degli “altri”
(Parma nel 1998 e Bologna nel 1999, i casi più celebri) sulle gazzette
locali (ma anche nazionali ed estere) si è gridato all’evento.
Intendiamoci: mediamente la qualità amministrativa è alta e gli asili
nido della regione, per citare un esempio noto, hanno fatto scuola in
tutto il mondo.
L’altra faccia della medaglia è l’aria da regime che, soprattutto in
provincia, tira più o meno forte a seconda dei personaggi che si trovano
al timone. Sarà banale dirlo ma la fine dell’ideologia, intese come
religione civile che tutto teneva (non solo la grinta per tirare la
pasta sfoglia dei tortellini o le ferie prese per fare volontariato allo
stand della pesca gigante, ma anche l’omertà pietosa rispetto ad abusi e
ruberie in nome del partito o del proprio conto corrente), ha fatto
tracimare sovente ambizioni e appetiti.
Se a parole si cantano le lodi del libero mercato e del partito
aperto e contendibile, nel profondo rosso padano si affilano i coltelli
per scannare chiunque si avvicini al bandolo della matassa di potere,
che tutto avvinghia. Il gap ideale e progettuale con un passato
in cui, altro che Facebook, nel bene e nel male si faceva notte in
sezione per determinare la “linea” fa il resto. Così la fedeltà è
reclamata non più sulla base di notti trascorsi a sputar fumo e
presentar mozioni, ma sempre più spesso sul terrore di non lavorare più o
di essere esclusi, in una maniera o nell’altra, dai giochi.
Far finta che l’Italia non sia, da sempre, una congrega di congreghe
(chiuse come ricci ad ogni minacciosa novità) è una della ribalderie più
ricorrenti degli osanna al libero mercato, che tutti i mali spazza via.
Ma c’è un momento in cui ogni congrega omogenea (pace sociale mixata
con omologazione e conformismo) va in crisi: quando non è più in grado
di assicurare benessere e qualità della vita (seppur minima) alla
maggior parte di chi ci vive e, magari, i suoi capitani non si stanno
dimostrando abbastanza coraggiosi.
In Emilia-Romagna, prima un po’ la Lega (Nord) poi Grillo hanno preso
a scavare come talpe sotto i piedi del consenso consolidato del
Partitone, apparentemente inossidabile. Ma mentre le sparate contro le
moschee o altre bizzarrie tipo la Romagna indipendente (“Nazione
Romagna” era lo slogan leghista, se non ricordo male) lasciano il tempo
(e i voti) che trovano, la guerra per la salute (effetto collaterale di
partite di business già chiuse in partenza) del Movimento a 5 Stelle comincia a pagare.
Acqua, ambiente, trasporti, connettività e sviluppo sono le cinque
stelle polari che orientano l’azione del movimento sul territorio,
mentre la democrazia diretta (assemblee pubbliche e forum online
al posto delle riunioni nelle sezioni di partito) è lo strumento di
partecipazione, sedicente rivoluzionario. Naturalmente il web già
pullula di leggende metropolitane circa lo stalinismo di Grillo e le mire occulte dei suoi spin doctor
di Casaleggio&Associati, veri registi occulti di tutta la baracca
(secondo l’inevitabile vulgata complottarda) e assertori di un nuovo ordine mondiale, vagamente orwelliano. Stiamo alla politica.
“Parma è una città indebitata, con un grave dissesto economico. Il
MoVimento 5 Stelle è un salto nell’ignoto, nel domani. Gli altri sono la
continuità con il passato, la certezza del suicidio assistito. Vincenzo Bernazzoli,
il candidato del Pdmenoelle è presidente della Provincia di Parma (ma
le Province non dovrebbero essere abolite?) in carica (così se perde
conserva il posto di lavoro) e sostenitore dell’inceneritore (che causa
neoplasie), ha spiegato che il futuro di Parma è nel maggiore
indebitamento bancario e che (nessuna paura) i suoi uomini sanno come
trattare con i banchieri.”
Oltre che con Federico Pizzarotti a Parma (amministrata dal centrodestra da quasi quindici anni), definita nello stesso post da Grillo “la nostra piccola Stalingrado”, il M5S è al ballottaggio a Budrio (in provincia di Bologna) con Antonio Giacon vs Giulio Pierini (Pd) e a Comacchio (in provincia di Ferrara) con Marco Fabbri vs Alessandro Pieroni
(centrosinistra allargato all’Udc). In tutti e tre i comuni della
Regione in cui si vota lo scontro è tra il Partitone e i nuovi barbari
di Grillo.
Da qui a domenica cercherò di raccontare le disfide elettorali, i
protagonisti e le ragioni del contendere. Proverò a tracciare piccoli
affreschi di paese in grado di sgombrare il campo dalla fuga nello
stereotipo che caratterizza il mainstream nostrano e di capirci qualcosa
nel piccolo terremoto in corso.
Per ora l’unico che ha accettato di parlare con tFP, il
candidato sindaco del Pd a Budrio, mi ha stupito lamentando una
strumentalizzazione “tutta nazionale” di un voto locale. E io che
pensavo che fossero proprio i temi locali il cavallo di battaglia delle
liste legate al brand Grillo. Spero che i candidati del M5S,
contattati su Facebook nei giorni scorsi, sappiano far luce su questo
piccolo mistero e sul resto. Diversamente dovrò affidarmi solo alla
ricerca e il racconto sarà inevitabilmente più sfuocato.
(1 – continua)
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
8 maggio 2012
È NATA UNA STALLA
Un’altra volta. A vent’anni di distanza, tutto si ripete nella
stessa, identica, maniera. Per filo e per segno, le elezioni hanno
scandito il penultimo atto del big bang dei partiti, nel ben
noto copione mediatizzato di mazzette, manette, assalto alla spesa
pubblica e alla moneta corrente (ma senza la lira da svalutare) unito
alla disperante incapacità di fare politica. Vent’anni passati a non
decidere che cosa l’Italia avrebbe dovuto essere e ora, dopo che anche
l’ultimo dei fessi li ha sgamati, tutti a gridare all’antipolitica dei
bruti che minacciano le virtù repubblicane.
Così, come nel 1994 è arrivato il marziano antipolitico magnate dei
media, adesso ce n’è un altro, che conosce quelli nuovi (di media). E sa
(e lo scrive da anni a chiare lettere) che per vincere le elezioni
contro quei morti di sonno da cui è circondato non servono congressi,
tessere o sezioni né rimborsi milionari, che i partiti si spartiscono
come gangster al saloon. Meglio usarli contro di loro,
adesso che la gente fa davvero fatica ad arrivare alla fine del mese e
che il bollettino dei suicidi per debiti se la gioca con quello dei
caduti sul lavoro. Adesso, la gente, ai soldi ci guarda proprio.
La chiamano antipolitica, col riflesso condizionato di chi considera tout court la politica una cosa sporca e prende poco l’autobus. Forse perché, semplicemente, non credono possibile un mondo in cui un consulente informatico
di una banca (che deve prendere le ferie per fare campagna elettorale)
possa realisticamente arrivare al ballottaggio per diventare sindaco di
una città come Parma. E non sono tanto i politici di professione (che si
difendono alla meno peggio) ma la pletora di opinionisti che, eterni
interpreti dell’arte del disincanto, adesso spalancano gli occhioni e
sparano a caratteri cubitali.
La notizia più scioccante di queste elezioni non è l’affermazione di
Grillo, su cui il solito Giuliano Ferrara contro tutti ha sentenziato, a
una smagliante Bianca Berlinguer: “è il vero sconfitto della giornata,
con questo clima mi aspettavo il 20/30 per cento”. La sorpresa vera è
stata la botta d’arresto subita da Casini, Fini & Co. Come alle
amministrative del 1993, al centro si è spalancata una voragine,
considerata la caduta libera del Pdl (con Berlusconi in gita da Putin,
per non saper né leggere né scrivere).
Il Pd dicono che tiene. A regola è il primo partito d’Italia (visto
che il Pdl è via di scioglimento) e, nonostante non riesca a esprimere
candidati nelle grandi città (a Genova è in testa Doria, indipendente, a
Palermo Orlando, Idv, contro Ferrandelli, ex Idv), in termini di lista,
appunto, tiene. Sarà per questo che D’Alema va predicando la fine delle
leadership populiste e di certo, passata (se passerà) la paura dei
ballottaggi, Bersani penserà (forse a ragione) di potersi giovare per un
po’ dell’effetto-Hollande (segretario pacioso, senza grilli per la
testa, vince le elezioni mettendoci la faccia).
Ma c’è un ma. Quel famoso effetto ’94 non c’è alcuna ragione per cui
non debba ripresentarsi, con le stimmate dei giorni nostri. Non è che
gli elettori del Pdl e della Lega (bombardata ma non del tutto
affondata, anche se in via di mutazione grillina) siano scomparsi coi
loro partiti. E se, putacaso, possono bastonare gli odiati post
comunisti, magari votando una giovane faccia pulita senza partito,
perché non dovrebbero farlo? Per paura dell’antipolitica?
Oltre a Parma, dove il candidato è al ballottaggio con quello del
centrosinistra (Pdl quarto, tipo) in Emilia-Romagna la cartina politica
diventa interessante, se letta in controluce. Il Movimento 5 Stelle va
al ballottaggio a Budrio (in provincia di Bologna, roccaforte Pd) e a Comacchio
(in provincia di Ferrara) con risultati sopra il 20 per cento.
Tendenzialmente in regione non scende mai sotto il dieci e sfonda quando
ci sono questioni in grado di dividere la cittadinanza, sul merito
delle proposte politiche (inceneritore, centrale a biomasse, storici
cavalli di battaglia).
Come nel 1993 oggi il centrosinistra tira a festeggiare, occhieggia
speranzosa a Parigi e teme Atene come la peste, mentre Grillo sta
organizzando l’opposizione nelle sue roccaforti (di voti, potere, spina
dorsale), sui contenuti che scaldano davvero il cuore dei suoi, famosi,
militanti di base come fa contro Lega e Pdl dalle loro parti (rivolta
fiscale, nisba cittadinanza agli immigrati nati in Italia). Quando poi i
suoi candidati si dimostrano intelligenti e preparati e i vecchi ras
del villaggio sono troppo bolliti per correre (e/o per piazzare rampolli
presentabili) rischia pure di vincere.
A occhio, a Bersani converrebbe davvero mandare tutti a spendere e
andare a votare con questa legge elettorale. Tra un anno forse è troppo
tardi (anche per l’effetto-Hollande). E a chi, quando sarà il momento,
venisse in mente (Ferrara l’ha già esplicitato prima su Rai Tre, con
evidente sadismo) di proporre qualcosa che assomiglia al governo di
unità nazionale (non c’è bisogno di dichiararlo esplicitamente in via
preventiva, dopo aver approvato una legge elettorale proporzionale, la
gente capisce) perché “c’è bisogno di senso di responsabilità”, si tenga
bene a mente la lezione di Avigliana.
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
27 aprile 2012
FAR WEB
“Oh figurati… per me tutte le scuse sono buone pur di avere la
sensazione di cavalcare l’onda del futuro, qua è arrivato questo nuovo
assunto, si chiama Sparky, deve telefonare alla mamma se fa tardi a
cena, solo, pensa un po’… siamo noi i suoi apprendisti! Louis
si intrippa con ARPAnet, e ti giuro che è come l’acido, tutt’un altro
mondo, stranissimo… tempo, spazio, e tutta quella roba là…”.
Doc, detective hippy nella Los Angeles psichedelica di Vizio di Forma,
aiuta a mettere in prospettiva la portata rivoluzionaria dell’Internet
Era in cui siamo immersi sino al collo. Niente sarà mai come prima,
oltre a essere lo slogan di chissà quante campagne pubblicitarie, è il
corollario ai limiti della banalità che costella ogni riflessione
sull’argomento, dentro e fuori la Rete.
Di certo c’è solo un prima, mentre il dopo è avvolto da nebbie
futuristiche intrecciate con paranoie neo-millenaristiche e profezie cyber punk, che allignano nei sobborghi della cultura globale, e globalmente massificata, che dall’interattività “social”
trae la propria linfa vitale. Con le debite differenze (la rivoluzione
tecnologica non ha precedenti nella storia, forse bisogna arrivare alla
ruota perché Gutemberg alla fine era un prodotto di nicchia) si tratta
della narrazione inevitabile di un’era di passaggio fra due mondi. E,
quindi, di crisi.
Oltre ai cambiamenti “oggettivi”, infatti, sono i soggetti che stanno
cominciando a mutare pelle e anima, come se l’innovazione tecnologica
scrosciante producesse un sisma genetico analogo a quello degli X-Man. È
l’antropologia il campo di battaglia vero su cui si misurano le truppe
digitali e analogiche, e l’evoluzione (e conseguente selezione) della
specie la posta in palio.
La gente cambia, spesso senza rendersene conto e senza rendersi conto
della velocità con cui sta cambiando. Ma l’amico del fricchettone
protagonista del romanzo di Thomas Pynchon aveva già colpito nel segno: è
la percezione allargata di tempo, spazio e tutta quella roba là il
punto. Il tempo reale s’è incoronato sovrano assoluto, spodestando con
un sol colpo il passato (buono giusto per nostalgie feisbukabili o mode vintage) e il futuro. E basta un click su Google per bypassare qualunque limite geografico.
Gli effetti sulla politica e sull’informazione sono tanto traumatici
quanto, a volte, rasenti la comicità. Alle ultime elezioni in Francia,
stante il gap tra i primi exit polls (pronti alle 18) e la chiusura dei seggi (ore 20), è stata nominata una task force
di dieci (dieci!) persone per vigilare che in Rete venisse rispettato
il locale gioco del silenzio che, in una versione un po’ meno demenziale
che in Italia, impedisce a chiunque di parlare di sondaggi o previsioni
di voto (multe salate per chi contravviene, blogger inclusi).
Risultato: sono usciti in Belgio e in un amen ogni francese sapeva
tutto.
L’overdose quotidiana di informazioni e notizie che ti inseguono
letteralmente in ogni attimo dell’esistenza, con gli smart phone
l’effetto è più che psichedelico, rende la gente decisamente più
esigente e intraprendente. Sempre in Francia, sono state diffuse
in Rete diverse foto di donne che hanno scelto di usare il proprio
corpo come arma di seduzione politica o per convincere la gente ad
andare a votare o per fare propaganda a questo o a quel candidato. Pare
senza nulla in cambio, solo perché possono farlo.
L’adagio popolare secondo cui in Italia sono tutti commissari tecnici
della nazionale di calcio bene si attaglia alla politica, in tempi in
cui le decisioni dei politici possono cambiare radicalmente il tenore di
vita di una famiglia e di una comunità e/o il grado di libertà delle
persone. Di conseguenza suonano pateticamente urticanti le lacrime di
coccodrillo versate di
fronte ai sondaggi arrembanti che consacrano Grillo e il suo movimento
come il temibile asso pigliatutto della prossima tornata elettorale.
Non è una questione di moralità o mani pulite, che alla fine solo solo il package del
Movimento 5 Stelle, ma di efficacia e immediatezza. La generazione
politicante al potere (a corrente alternata, in ossequio al totem
bipolare) da vent’anni è bollita. È un dato di fatto e nemmeno loro
provano a smentire (al massimo, a domanda diretta, divagano). La Rete
(che Grillo ha capito, studiato e utilizzato per primo) è solo
un’accelerazione all’eutanasia inevitabile per chi si ostina a negare la
propria, evidente, necrosi progettuale.
Un po’ com’è accaduto in Tunisia, Egitto e Libia che peraltro distano
poche centinaia di miglia dalle italiche coste. Ma in tutto il mondo è
sempre e comunque un formidabile strumento di stress dal basso nei
confronti di gestisce la cosa pubblica (ergo i soldi delle tasse dei
cittadini, gli stessi che chiedono il conto, sempre più spesso e con
sempre più cognizione di causa). Internet, dunque, è davvero la prima
utopia libertaria dei fricchettoni anni ’60 ad essersi realizzata?
“Ti ricordi quando hanno messo fuori legge l’acido appena hanno
scoperto che era un canale verso qualcosa che non volevano farci vedere?
Perché dovrebbero comportarsi diversamente nei confronti
dell’informazione?” Pynchon mette in bocca a Doc la più ovvia delle
verità. Perché non hanno fermato Internet se era così pericoloso? La
risposta è: chi? Chi ha il potere di farlo, se non al riparo di
caduchi confini nazionali e sotto minaccia di torture e vessazioni? È
la solita storia della mela, della conoscenza che fa male e del Lucifero
tentatore. Che, stavolta, pare abbia in pugno la mano (e forse la
partita).
L'articolo è stato pubblicato su The FrontPage.
|
|
|